Capitolo 7  -   Buja liberata

INDICE  "EVIDENTEMENTE  QUELLO NON ERA IL MIO DESTINO"

 

 

Buja liberata

Il 28 aprile 1945 a Mels sentimmo l'eco di una sparatoria che si stava svolgendo a Buja. Presa la bicicletta mi avviai velocemente verso quella direzione, per arrivare quando ormai tutto era già concluso. In municipio si era già installato un Comando partigiano che aveva a capo “Meo“ (Efisio Miani) e “Gemme” (Piemonte Amelio). In Piazza Mercato c'erano molti automezzi tedeschi parcheggiati, mi chiesero se ero in grado di usarne qualcuno per portare a Buja quanti più partigiani di Mels potevo, mi avvertirono, però, di stare molto attento, poiché si temeva che fossero sabotati. Con l’incoscienza della giovane età, mi avviai dicendo loro:

«Al massimo salto in aria!».

Arrivato in Piazza Mercato, notai subito una bella “Aprilia 1500” scappottata.

L'auto non voleva saperne di andare in moto, così la riparai e subito dopo partii per Mels dove, caricati quanti più partigiani potevo, ripartii di nuovo verso Buja per vedere il da farsi.

Mi misi quindi a disposizione del Comando che quel giorno mi fece girare come una trottola in qualità di portaordini. Ricordo ancora quando un carro armato tedesco in ritirata passò per il paese, la gente usciva tranquillamente in strada a salutare ed applaudire, pensando fossero gli alleati, ignara del rischio che stava correndo.

Quel giorno (29 aprile 1945) mi fu ordinato di portare Ivo Bulfone ed un Maresciallo dei Carabinieri, di cui non ricordo il nome, ad Ara di Tricesimo, Colloredo di Monte Albano, Brazzacco e Moruzzo per trattare la resa dei Comandi tedeschi. Ad Ara di Tricesimo, si unì a noi un sacerdote che andò a parlare con il Comandante tedesco del deposito. Il Comandante ci venne incontro furibondo, poichè poco prima, alcuni partigiani del luogo avevano sparato sui suoi uomini. Il sacerdote cercò invano di calmarlo, ma poichè il tedesco non intendeva in nessun caso arrendersi, ci accordammo che l’indomani mattina alle 6 sarebbero stati scortati fino a Tricesimo, sulla Pontebbana, da dove poi avrebbero proseguito da soli verso la Germania. Ci dirigemmo quindi a Pagnacco dove, appena arrivati, alcuni abitanti ci parlarono bene del Comandante tedesco.

Ci venne descritto come una persona degna di stima, per quanto aveva fatto (o forse evitato) per il paese. Un uomo, non ricordo chi fosse , che conosceva perfettamente sia la lingua tedesca che il Comandante, si offrì di andare a parlamentare, con la speranza di evitare spargimento di sangue. Le trattative durarono all’incirca un’ora, quando uscì si avvicinò a noi, dicendoci:

«Prendete una trentina di uomini, circondate la villa e sparate contro i muri per una decina di minuti, dopodichè si arrenderanno».

Erano circa le sei di sera quando risalimmo in automobile e, arrivati a Buja, avvertimmo “Meo” dell’esito delle trattative. Fatta salire su di un camion una ventina di partigiani,  ripartimmo immediatamente alla volta di Pagnacco, dove circondata la palazzina, aprimmo il fuoco per dieci minuti, quindi, risaliti sul camion, rientrammo a Buja. Ricordo che, dopo la finta battaglia, quando entrammo nel Comando tedesco, sulla tavola erano state messe a nostra disposizione alcune bottiglie di vino.

La persona che si era offerta di parlamentare, mi chiese, come da accordi,  di portare il Comandante tedesco presso una famiglia di sua conoscenza a Zampis, frazione di Pagnacco.

Partii con il Comandante. Durante il percorso egli mi indicava la strada, quando “Pippo” incominciò a fare le sue giravolte in aria, fui costretto a viaggiare a fari spenti. Ad un certo punto, in prossimità di un incrocio, alcuni partigiani aprirono il fuoco su di noi, forse perché la persona accanto a me portava la visiera, per fortuna ci mancarono, io allora mi misi ad urlare cercando di farli smettere, riuscimmo così a proseguire indenni.

Ritornato a Pagnacco, tutti i prigionieri furono fatti salire su camion tedeschi e condotti al castello di Colloredo, dove erano rinchiusi gli uomini catturati nei comuni liberati: il loro numero era ragguardevole, superava di gran lunga le cento unità.

Tre giorni dopo, all'arrivo degli inglesi, consegnammo loro tutti i prigionieri che vennero immediatamente spostati in una stanza. Qui dovettero fornire le loro generalità e consegnare i loro effetti personali: anelli, catenine, orologi e quanto avevano nel portafoglio.

 

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