CON COERENZA - Capitolo 14
La ritirata (Questo capitolo è stato pubblicato sul libro: “Nikolajewka: c’ero anch’io” a cura di Giulio Bedeschi, pag. 41 e seguenti, Mursia.) Il 16 gennaio 1943 i russi attaccarono incessantemente con ogni tipo di arma il settore davanti a Nowo Kalitwa, dove io mi trovavo con il plotone mortai della 71ª Compagnia del Battaglione Gemona. Facevano parte della squadra esploratori di suddetta compagnia anche il caporal maggiore Enore Viezzi, classe 1920, già combattente sul fronte greco-albanese e prigioniero sull’isola di Creta. Il settore da noi difeso, lo avevamo rilevato al Battaglione Val Cismon, il quale era stato semidistrutto da un attacco in forze di carri armati russi. Nel breve periodo di giorni in cui tenemmo saldamente questa posizione la squadra esploratori della 71ª Compagnia, dove il caporal maggiore Viezzi, assieme al sergente maggiore Rumiz e al sergente Vignuda erano fra i più temerari componenti, effettuò diverse puntate notturne nelle difese russe, catturando diversi prigionieri e quantitativi di armi nemiche. In una di queste azioni furono sorprese le sentinelle russe; nostri uomini penetrarono nei bunker russi e dopo una breve mischia con bombe a mano, rientrarono nelle linee con sei prigionieri ed una ventina di fucili caricati sulle spalle dei prigionieri. Questa azione avvenne verso le due del mattino e l’uscita della pattuglia era stata segreta. Io e i miei del plotone mortai, in difesa di quel settore assieme ai serventi, richiamati dai bagliori e dal boato delle bombe a mano, e dalle grida, saltammo nelle postazioni pronti ad effettuare un fuoco di sbarramento pensando ad un attacco russo. Prima di intervenire con il nostro fuoco, andai però dal capitano Zilioli della 71ª Compagnia per chiedergli se era opportuno il nostro fuoco di sbarramento. Concitatamente il capitano mi rispose: «Per l’amor di Dio, Papinutto non sparare perché sono fuori i lazzaroni» . (Egli bonariamente intendeva, con il termine di lazzaroni, la squadra esploratori.) All’alba il sergente Vignuda accompagnò i prigionieri al comando del 9º Alpini, e parlando con accento meridionale si presentò al colonnello Actis Caporale. Il Colonnello, meravigliato, chiese come mai nel Gemona ci fosse un alpino meridionale. «Signor Colonnello» rispose il capitano Zilioli «questo non è meridionale, ma un lazzarone di S. Daniele del Friuli.» Il 17 gennaio ‘43, al termine di una giornata di aspri combattimenti sostenuti con buon esito, giunse al calar della sera l’ordine di ripiegamento. La notte era gelida ed a me, assieme ad un gruppo di uomini della mia squadra al comando del sottotenente Buzzi, toccò la missione di fiancheggiare la colonna, cosa che si protrasse fino verso le due del mattino, ora in cui mi accodai alla colonna ed ebbi modo di incontrarmi con il caporal maggiore Viezzi, il quale con una squadra esplicava la funzione di retroguardia del battaglione. Questo incarico non era di suo gradimento, ma egli lo effettuava con il massimo impegno per il timore di rimanere tagliato fuori da infiltrazioni nemiche e dover subire un secondo periodo di triste prigionia. I1 18 gennaio facemmo qualche ora di riposo all’alba in ripari di fortuna, subimmo qualche attacco aereo, c’era un continuo afflusso e ondeggiamento di colonne con reparti sbandati. Ordini e contrordini si intrecciavano, già trapelava che la situazione per noi era alquanto critica. Da qualche parte giungeva un ordine quasi perentorio di marciare verso ovest al più presto. Il 19 gennaio dopo una notte passata all’addiaccio partimmo alle prime luci dell’alba con il battaglione in colonna. La marcia procedette spedita fino al pomeriggio, poi subimmo un attacco aereo in cui rimase ferito il sottotenente Sensale. Giungemmo a Nowo Postojalowka. Subito un ordine chiamò avanti la squadra esploratori della 71ª ed il caporal maggiore Viezzi, mentre mi sorpassava, mi disse che andavano avanti a vedere di cosa si trattava. Qualche centinaio di metri più avanti si cominciarono ad udire i primi rumori; qualche istante più tardi ci furono allarmi di carri armati a cui seguì lo sparpagliarsi degli uomini delle compagnie di avanguardia ed il ripiegamento a rotoloni sulla neve del capitano Chiussi della 70ª. In un baleno tre dei nostri pezzi da 47/32 erano in posizione di tiro, ed uno di questi comandato dal sergente Vari non era più di dieci metri lontano da me; chi con le mani, chi coadiuvato da attrezzi da campo, ci ponemmo a riparo in effimere difese di neve. La sera stava calando, all’orizzonte si profilavano le sagome mastodontiche di due carri armati russi, i quali cannoneggiavano e mitragliavano in forma impressionante seminando morte ovunque, ed a complemento di questo triste spettacolo seguiva una seconda carneficina operata dai cingoli di un carro armato, il quale presa d’infilata la colonna, macinava sotto i suoi cingoli muli, slitte, equipaggiamenti, e ciò che era più triste, alpini. Alpini che si erano illusoriamente messi in ripari di circostanza, sparando con il moschetto ‘91 fino al momento di essere schiacciati. Il sergente Vari coadiuvato dal caporale Venturini e dagli alpini Tea, Molinaro, Calligaro, con altri serventi, quando il colosso corazzato russo, rullando sulla colonna indifesa giunse a circa 100 m, aprì il fuoco centrandolo per ben 13 volte consecutive senza arrecargli il minimo danno, e senza neppure impressionare l’equipaggio, il quale diresse velocemente il carro verso il cannone tenuto dall’ardito sergente Vari, schiacciandolo. Il caporale Venturini e gli altri serventi rimasero fortunatamente feriti solo di striscio e non gravemente. Il T 34 compì l’ultima prodezza schiacciando il nostro cannone, poi inverti la rotta protetto da un altro carro armato. La notte era calata, l’ordine di sistemarci in buchi nella neve ci giunse nel luogo in cui impotenti avevamo assistito al terribile massacro. Dico impotenti perché le tredici granate che colpirono il carro, schizzarono in ogni direzione dopo averlo colpito e producendo scintille di ogni colore. Ritiratisi i due carri dal nostro settore, iniziammo l’ingrato compito di raccogliere i feriti e sistemarli in un piccolo gruppo di isbe poco distanti dal luogo dello scontro. Intanto sulla nostra destra si schierò la 14ª Batteria del Gruppo Conegliano, e da quanto appresi, un pezzo possedeva alcune granate OT. Poco più avanti sulla mia sinistra udii la voce del caporale maggiore Viezzi, il quale incitava i suoi componenti la squadra a scavare fosse nella neve per ripararsi dalla tormenta, e pernottare in queste fosse, se altri ordini non fossero pervenuti. La notte era calata ormai da parecchio tempo; noi riposavamo nelle fosse, ma c’era un silenzio che non faceva presagire niente di buono. Decine di metri avanti a noi sulla destra c’erano due covoni. Questo silenzio venne poco più tardi dissipato da un tenue ronzio che andò a poco a poco aumentando fino a quando nuovamente sulla bianca distesa antistante si profilarono le grosse sagome di altri due carri armati russi. Noi eravamo immobili ed i carri si avvicinavano lentamente ai due covoni. Lì si arrestarono e cominciarono a sparare a sinistra e a destra proiettili di mitragliere traccianti; i covoni, centrati, s’incendiarono, le fiamme subito si svilupparono alte e produssero un certo chiarore tanto da distinguere molto bene i carri e provocare una violenta reazione da parte dei 75/13 della 14ª Batteria e dei nostri superstiti 47/32. I due carri sorpresi dalla reazione invertirono la rotta e velocemente ripiegarono senza ingaggiare battaglia. Subito dopo il loro allontanamento uscimmo dai nostri ripari e ci avvicinammo al rogo dei pagliai a scaldarci, e mentre godevamo quel po’ di calore e lo stomaco reclamava qualcosa che non poteva ricevere, il capitano Zilioli impartì gli ordini agli esploratori della sua compagnia: effettuare una perlustrazione fino al paese che si trovava a circa 2 km del nostro itinerario di ripiegamento. Qui nuovamente il caporal maggiore Viezzi fu fra i primi, assieme al sergente maggiore Rumiz, al sergente Vignuda ed una decina di alpini. Dopo aver ricevuto le istruzioni necessarie e riempito i tascapane con bombe a mano si avviarono taciturni e lenti. Oltre i covoni, più a destra si trovava una boscaglia nella quale subito scomparve quel pugno di uomini. Il nostro compito era di vigilare, ed eventualmente rintuzzare qualsiasi intenzione dei russi. La nostra linea era esile, ma molto attenta, composta di alpini e artiglieri alpini. La notte trascorse lenta, il freddo ci costringeva a rimanere nei buchi; per evitare il sicuro congelamento, a turno uscivamo dai ripari per sgranchirci gambe e braccia. Nel gruppetto di isbe alle nostre spalle, per tutta la notte ci fu un’intensa attività dei medici ed infermieri per medicare alla meglio i feriti che erano collocati in ogni angolo. Continui erano i rapporti fra gli ufficiali superiori e i comandanti di compagnie e batterie per studiare altre eventuali direzioni da prendere dopo lo sbarramento incontrato. La situazione per noi sembrava sempre più insostenibile. Dopo mezzanotte nel paese antistante si udirono boati, raffiche di armi automatiche, razzi luminosi; era difficile per noi prevedere quello che stava succedendo, si poteva solo immaginarlo. All’alba invece, al rientro della pattuglia esploratori della 71ª, tramite il caporal maggiore Viezzi ebbi il racconto dettagliato di come portarono a termine senza nessuna perdita la temeraria impresa. Questo il fatto: giunti in prossimità del paese, gli uomini si divisero in tre gruppetti, ognuno dei quali aveva un obiettivo ben preciso; strisciando sulla neve Viezzi raggiunse un lungo capannone adibito a scuderia, ed essendo pratico dei servizi di scuderia, entrò in silenzio sorprendendo i tre uomini di servizio che uscirono spaventati a mani alte mormorando nella sorpresa «Karasciò, karasciò». Mentre un alpino vigilava i tre momentanei prigionieri e gli altri quattro erano disposti a difesa, il caporal maggiore Viezzi sbrigliò un po’ di cavalli e muli, lanciò una bomba a mano al centro della scuderia; avendo aperto le porte provocò un fuggi-fuggi generale dei quadrupedi che mise in allarme il contingente di truppa che pernottava in paese, e creò un grande scompiglio. Il secondo gruppetto prese di mira un parcheggio di autocarri adibiti al trasporto della truppa, provocando anche incendi. Questo attacco fu cosi fulmineo che gli alpini poterono ripiegare convergendo sugli altri senza subire la reazione del nemico. Il terzo gruppetto che fungeva di protezione dall’alto di un’isba, arrestò i primi pattuglioni nemici, che riavutisi dalla sorpresa cercavano di eliminare questa spina sul fianco del paese. La sorpresa e lo scompiglio per i russi fu enorme, tanto che tardarono molto ad organizzare una reazione consistente. Lo sparuto gruppo di alpini non poteva più agire in alcun modo. I carri armati si erano mossi per la via centrale del paese e i pattuglioni rastrellavano ogni contrada, mentre gli alpini distruggevano le armi che avevano trovato agli uomini di guardia alle scuderie e a qualche altro catturato in seguito. Un soldato avversario attraversò un viottolo con un mortaretto calibro 50 in spalle e penetrò in un’isba. Il caporal maggiore Viezzi senza un attimo di esitazione si lanciò come un falco sulla preda, entrò nell’isba con decisione impugnando una bomba a mano, e con sua sorpresa, al tenue lume di candela vide la sagoma di una ragazza e di una donna anziana. Con la bomba luccicante in mano Viezzi gridava «Soldat, soldat», loro rispondevano «Karasciò, karasciò italiano». Viezzi appostato con le spalle coperte per precauzione, e minacciando con la bomba, intravide sotto lo spac (quella specie di letto di tavole che la notte ospita tutta la famiglia), le scarpe del soldato; ebbe così la certezza che si era rifugiato lì. Lo invitò fuori, aveva ancora il mortaretto sulle spalle e gli occhi fuori dall’orbita ed anche lui gridava «Karasciò italiano» in coro assieme alle due donne. Viezzi lo portò fuori e dopo aver distrutto il mortaretto, considerando la nostra situazione insostenibile lasciò liberi i soldati catturati e ripiegò sulle nostre linee. L’operazione in sé non fruttò vantaggi; solo si seppe con certezza che quella strada era per noi sbarrata dai carri armati e da un forte contingente di truppa autotrasportata per bloccarci e se possibile, annientarci. Il 20 gennaio, prima che le tenui luci dell’alba avessero ragione della triste e gelida notte trascorsa all’aperto, con un freddo che pareva volesse ghiacciare perfino il liquido degli occhi, con una tensione di nervi che ci aveva fatto dimenticare che da 24 ore non mangiavamo, e con un lancio di moccoli, rientrò nelle nostre fragilissime linee la pattuglia esploratori. Gli uomini avevano i volti scavati dalla fatica ed esalavano vapore dal corpo, come una pentola d’acqua bollente, vapore che veniva subito congelato sui baffi, sopracciglia e bavero del cappotto. Dopo una nottaccia così, invece di trovare un cantuccio tiepido per un meritato riposo, questi soldati non trovarono nient’altro che un buco nella neve per rannicchiarsi al riparo dal vento gelido. Qualcuno malgrado la posizione ingrata, dopo il rientro schiacciò un pisolino, ma di breve durata perché, appena l’alba ebbe ragione delle tenebre, un forte pattuglione russo, protetto dalla boscaglia, ci attaccò sul fianco destro e noi, subito lasciati gli uomini necessari al servizio dei pezzi, formammo una pattuglia di contrattacco eliminando subito le infiltrazioni e inseguendo l’avversario fino all’altro lato della boscaglia, e non oltre, perché appena usciti all’aperto intervenivano i carri armati ed a noi non rimaneva altro che ripiegare. Ripiegando, nel mezzo di questa boscaglia trovammo un’isba isolata, io guardai dentro attraverso le finestre, ed ai miei occhi si presentò uno spettacolo agghiacciante: fino all’altezza delle finestre c’erano morti e feriti, che sicuramente la notte precedente erano stati sorpresi e sterminati senza alcuna possibilità di difesa. Fino a mezzogiorno di questo tragico 20 gennaio subimmo quattro attacchi e rigettammo il nemico infliggendogli sensibili perdite e catturando diversi prigionieri. Così, essendo accerchiati e quindi considerati prigionieri dall’alto comando russo, catturavamo a nostra volta prigionieri. Le nostre azioni elastiche ci permettevano, dopo aver ributtato l’avversario, di ripiegare fino a quel gruppetto di isbe, in cui sempre più cresceva il numero dei morti e feriti, che venivano allineati ai loro bordi con qualche coperta sopra, perché all’interno non c’erano più posti. In questo gruppetto di isbe si trovavano il comandante dell’ 8º Alpini, il comandante del Gruppo Conegliano, il capitano Magnani, il capitano Rago (comandante del Battaglione Gemona, dopo la morte del tenente colonnello Dall’Armi), il capitano Giglioli, comandante dei “lazzaroni” della 71ª Compagnia, il tenente Zatti, i sottotenenti Pascatti, Carta e Marchiori della 116ª A.A. del Gemona e diversi altri di cui ora non ricordo il nome. Dopo un ampio studio delle carte a disposizione, essi giunsero alla conclusione che c’era una possibilità su cento di uscire da quella terribile morsa, ma questa possibilità comportava un allungamento di diversi km, nel fondo di un canalone per poter aggirare il paese antistante, e naturalmente tutto doveva avvenire di notte. Mentre ognuno di noi stava parlando con i paesani, o pensando a ciò che poteva accaderci, una voce di incredibile potenza cominciò a scandire: «Avanti Julia che si va in Italia. Avanti! Avanti!». Questo era il capitano Magnani: alto, imponente, con la sua bella barba tutta brizzolata, seguito poi da tutti gli altri ufficiali. Immediatamente fummo elettrizzati da questa voce, da questo incitamento che ci dava come obiettivo la lontana Italia, questa nostra patria che voleva dire anche famiglia e gli affetti più cari. A gruppetti ci inoltrammo rapidamente nella boscaglia per la quinta volta nella giornata ma questa volta decisi ad uscirne a qualunque costo. Il caporal maggiore Viezzi era alla mia sinistra, come pure il capitano Magnani, il capitano Rago e diversi altri ufficiali, il sergente maggiore Rumiz, il sergente Vignuda; sulla mia destra c’erano il sergente Forte, il sergente Minisini, il sergente Forabosco, il caporal maggiore Lanfrit, il caporal maggiore Filaferro, l’alpino Ganzitti, l’alpino Scangoi e Calligaro ed altri del Gemona appoggiati da artiglieri alpini e da conducenti di tutti i servizi. Arrivati quasi al termine della boscaglia, per un attimo ci arrestammo, convinti che quel grosso reparto mimetizzato con tute bianche che avanzava strisciando sulla neve, fosse di tedeschi venuti in nostro aiuto; invece il grosso reparto era russo e questa volta tentava la sorpresa mimetizzandosi. Ne uscì una mischia furibonda all’arma bianca e a bombe a mano. Tale fu il nostro impeto, che ben pochi nemici riuscirono a scappare, dietro un cespuglio, un soldato nemico pareva morto, invece ad un tratto ripiegò velocemente trascinando sulla neve un fucilone anticarro. Viezzi che era fra i primi gridò: «Alt! Non sparate ché questo è mio», e lo seguì con tanta foga che in qualche decina di metri lo raggiunse, lo disarmò, lo consegnò ad un alpino perché lo conducesse al comando e riprese il suo posto fra i primi. Eliminato questo grosso reparto proprio ai bordi della boscaglia, riorganizzati alla bell’e meglio, tentammo la sortita all’aperto, ma ben presto dovemmo convincerci che anche questa volta la nostra azione doveva fallire, e con essa si riaffievolì quella tenue speranza di aprirsi un varco in quella direzione. Appena lasciata alle nostre spalle la boscaglia, sbucarono all’improvviso due carri armati, uno di grossa mole, l’altro un po’ più leggero, quest’ultimo dopo aver sparato con la mitragliatrice all’impazzata, piegò sulla nostra destra e si allontanò costeggiando la boscaglia; l’altro più grosso cannoneggiò per un momento, senza far fuoco con le mitragliatrici, e tentò di venirci contro, ma una piccola scarpata lo fermò con il muso un po’ alto, tanto vicino che lo tempestammo di bombe a mano ed anche qui il caporal maggiore Viezzi, senza togliere merito a nessuno, è stato fra i più arditi. Egli si lanciò avanti e saltò sul carro con l’evidente intenzione di aprire lo sportello superiore: operazione questa che non gli riuscì perché la mischia era ancora infuriante ed egli fu colpito da una scheggia di bomba a mano che gli asportò l’occhio sinistro. Con il duro colpo che ricevette, stramazzò giù dal carro; lo si credette morto, invece la gelida neve sulla quale era caduto lo risvegliò e subito si rialzò da solo, e dopo aver barcollato per qualche passo, volgendosi a me che gli ero corso in aiuto, mi disse: «Con questa ferita si muore?». «Ma no! Viezzi», gli risposi io. «Sei stato colpito solo di striscio», mentre invece l’occhio era penzoloni fino a metà guancia. Due alpini lo accompagnarono attraverso la boscaglia al punto da cui eravamo partiti per questa azione. Noi intanto rendemmo completamente inutilizzabile il carro armato e subito dovemmo ripiegare nella boscaglia, poiché si avvicinavano altri mezzi corazzati. In questi due giorni di furibondi attacchi e contrattacchi la situazione era caotica, i feriti giungevano da tutte le parti, reparti sbandati si ammassavano e nessuno sapeva esattamente quello che si doveva fare, la notte era nuovamente calata, la fatica si faceva sentire, ma la cosa peggiore era quella di non sapere la sorte che ci attendeva. Al riparo di un’isba, si trovavano Viezzi ed il sergente Rumiz i quali avevano già un posto su una slitta. Viezzi, assistito dall’alpino Barnaba, suo cugino, venne caricato sulla slitta assieme al sergente Rurniz, e da quel momento io non li vidi più durante la ritirata. Quella notte, tentando la sola probabilità che ci rimaneva per uscire da quel cerchio di fuoco in cui eravamo asserragliati, riuscimmo a spuntarla. Per noi però non era ancora finita, perché dovemmo camminare ancora per ben dieci giorni fino a giungere a Bielgorod il giorno trenta. Passammo con una piccola colonna composta da alpini e truppa tedesca al lato di Nikolajewka, e combattemmo quasi tutte le sere per occupare un paese, per riposare qualche ora durante le gelide notti e per respingere le azioni di disturbo in coda alla colonna quando si lasciava all’alba il paese. In questi dieci giorni perdemmo quasi tutti gli ufficiali del battaglione fra prigionieri e morti, e diversi commilitoni con cui avevamo diviso tanti rischi e fatiche. Da Bielgorod a Karkow andammo in treno, facemmo qualche giorno di sosta a Karkow, da dove spedimmo alla bell’e meglio tutti i feriti e congelati. Da Karkow, dopo una sommaria riorganizzazione dei superstiti, ripartimmo a piedi, e nel periodo fra il 6 febbraio ed il 25 febbraio percorremmo a marce regolari 390 km. In questo tragitto ci incontrammo con altri superstiti dell’8º Alpini, e diversi miei paesani fra i quali il sergente Forte, Minisini, l’alpino Bortolotti, il caporal maggiore Clemente, l’artigliere Tonello. Chiesi a tutti notizie sul caporal maggiore Viezzi e sul sergente maggior Rumiz, ma nessuno seppe dirmi niente, così nella mia mente si fece sempre più strada la convinzione che fossero periti nelle tremende giornate che seguirono al loro ferimento. Il 12 marzo sera si partì in treno; nel carro bestiame dov’ero io c’erano 92 alpini, lascio a chi leggerà queste righe, immaginare la situazione nell’interno di questi vagoni. Il 13 marzo giungemmo a Minsk, e il 14 a Brest Litowsk. La notte fra il 14 e il 15 marzo potemmo fare il primo vero bagno dopo tre mesi e fummo disinfettati. Il 16 proseguimmo lentamente con il convoglio e il 17 attraversammo Oderberg Bohumin. Il 18 ci svegliammo a Vienna e proseguimmo lentamente, il 19 giungemmo in prossimità di Villach, e già si pensava che in giornata avremmo potuto raggiungere Udine, sede della nostra gloriosa Julia, e zona in cui sono distribuiti tutti i nostri paeselli dai quali partimmo in tanti e tornammo in pochi, invece invertimmo la rotta e rientrammo in Italia per S. Candido, dove alla stazione di confine trovammo le prime dimostrazioni di affetto da parte degli enti assistenziali. Il 20 sostammo in treno in prossimità di Vipiteno e trascorremmo la notte in treno. Il 21 raggiungemmo Vipiteno dove facemmo un altro bagno e disinfezione, ci cambiammo di vestiti e il 22 arrivammo a Monguelfo, dove ci alloggiarono in una lussuosa caserma per trascorrervi la contumacia. L’agognato sogno di poter portare quelle quattro ossa in Italia, si era realizzato ed in certo qual modo eravamo felici, una felicità costantemente offuscata dal dolore di avere perso tanti camerati in quella tremenda ritirata. Dopo 20-25 giorni di contumacia, verso metà aprile, attraverso Verona e Venezia, giungemmo a Udine, dove una fiumana di parenti ci attendeva. Anche qui le scene di dolore dei congiunti di quelli che erano rimasti in terra russa, furono indescrivibili. Da Udine andammo verso Buia, il paesello natio, in corriera e qui fra i primi che incontrai, dopo i miei genitori, con somma mia sorpresa ed indescrivibile gioia, fu il caporal maggiore Viezzi senza l’occhio sinistro ed una gamba diritta. Mi raccontò che uscito miracolosamente da quel cataclisma senza poter ricevere nessuna cura all’occhio ferito per ben 19 giorni, arrivò infine in Germania, dove gli asportarono quei resti di occhio che aveva penzoloni, e qualche giorno dopo lo rinviarono in Italia. |