CON COERENZA   -   Capitolo 5

CON  COERENZA

 

 Arriva il tenente Ferrante

La nostra Divisione nelle retrovie si stava riorganizzando, truppe fresche davano nuovo vigore ai ranghi decimati della Julia. Il comando del nostro battaglione fu preso dal maggiore Perot, mentre a capo del plotone venne mandato il tenente Ferrante, uno dei pochi superstiti del Battaglione Trento, venuto come volontario sul fronte albanese.

Non conosceva i mortai e le loro caratteristiche, io lo istruii su tutto quanto sapevo, così  in breve tempo diventammo amici e lo siamo ancora a distanza di oltre cinquant’anni.

Il nostro plotone era composto da quattro squadre, ognuna delle quali era formata da undici uomini che avevano in dotazione un mortaio, infine c’era la Compagnia Comando, di cui io facevo parte quale goniometrista, in totale eravamo circa una cinquantina.

Alcuni giorni dopo giunsero al nostro accampamento due bujesi, Onorato Alessio e Mirco Barnaba, richiamati della classe 1912 .

La sera del 23 febbraio, dopo un allarme, riprendemmo la via del fronte, dovevamo dare il cambio alla Divisione Legnano sul fronte di Tepeleni, pioveva a catinelle e la melma era alta fino al ginocchio. L’indomani avevo la febbre alta, ma non volevo marcar visita, dentro di me avevo l’impressione che gli altri mi avessero giudicato un fifone, tremavo, ma non volevo cedere.

Iniziammo la marcia sotto una pioggia battente, attraversammo la Vojussa e ci fermammo ai piedi del Golico dopo diverse ore di marcia. Un mortaio bombardava il ponte con frequenza quasi costante, un colpo ogni tre minuti, noi attendevamo a gruppi lo scoppio per poi partire di corsa sull’altro versante, mentre sei aerei inglesi ci mitragliavano. Arrivati dall’altra parte, ci riparavamo a ridosso di una parete rocciosa, posta su un lato della strada. Proprio a pochi metri da me scoppiò una cannonata, ferendo in modo grave un carabiniere.

L’indomani raggiungemmo quota 1143, la febbre era miracolosamente scomparsa, non so come, ma stavo bene. Ricordo che quando la sera ci fermavamo per riposare, in un attimo sceglievo un sasso, mettevo contro lo zaino e mi allungavo a terra, ormai avevo fatto il callo a dormire in questo modo, mentre Onorato non riusciva. Lo guardavo con la coda dell’occhio, i preparativi per sistemare il suo “cantuccio” duravano moltissimo.

Alcuni giorni dopo lasciammo quota 1143 per appostarci sul Golico, assieme ai Lupi di Toscana: disponevamo di ben diciotto mortai.

La vetta del Golico era molto esposta al fuoco dei greci, qui in poche decine di metri quadrati avevamo dislocato un mortaio, un cannone da 75 ed una stazione radio. Non essendoci dei ripari, non c’era modo per proteggersi, cosicchè quando una granata centrava la vetta, c’erano sempre morti e feriti, io posso ben dire di essere stato, in questo caso, aiutato dalla fortuna.

Dopo essere rimasto alcuni giorni in vetta, venni mandato ad una quota inferiore molto meno esposta al fuoco greco. Raggiunta la posizione ci attendammo, in nottata la temperatura scese e ci trovammo con le tende imbiancate dalla neve.

L’indomani notai dei movimenti in vetta, puntai il cannocchiale e, con stupore, constatai che una pattuglia di greci occupava le posizioni che fino al giorno prima erano state nostre. Mi precipitai dal Capitano e, avvertitolo di quanto avevo visto, mi sentii rispondere: «Papinutto non dica fesserie», girò la testa verso la vetta, in quel preciso istante un proiettile lo colpì  uccidendolo sul colpo.

Allora mi avvicinai ad un Caporal Maggiore che disponeva di una mitragliatrice e, indicandogli un grosso sasso, gridai: 

«Appoggia la mitraglia a quel sasso e fai fuoco sulla cima del Golico».

Non mi diede retta. 

«Per sparare devo avere l’ordine del mio comandante !» replicò.

Dopo pochi minuti lo vidi mentre, con un treppiede in mano, cercava di posizionare la mitraglia allo scoperto, una raffica lo colpì in piena fronte. Un pronto contrattacco ricacciò la pattuglia greca, ridandoci il controllo della vetta.

Nei giorni che seguirono, la nostra Compagnia fu abbassata di nuovo di quota, ci attestammo in un canalone sottostante il Golico con tutti i nostri diciotto mortai. Io ero diventato un bravo goniometrista tanto che, molto spesso, anche i Lupi di Toscana venivano a chiedermi delucidazioni o consigli. Sempre in quei giorni, fatalità volle che un mortaio scoppiasse, causando purtroppo morti e feriti.

Eravamo proprio in quei paraggi quando venne a farci visita il Duce in persona! Sembra incredibile, ma da quel giorno, come per incanto, i pasti diventarono due, regolari ed abbondanti, non dovevamo più dividere le scarse porzioni facendo attenzione a non lasciare qualcuno a stomaco vuoto.

Verso gli ultimi giorni di marzo del ‘41 cominciarono a piovere granate a circa duecento metri dalle nostre posizioni. Presi il cannocchiale ed incominciai a guardarmi intorno, non notando nulla sulle montagne circostanti mi girai verso Tepeleni, sede del nostro Comando e notai le nuvolette che si formano quando parte il colpo del 149 (cannone con canna prolungata).

Mi misi a contare i secondi, “Uno, due, tre, .....” l’esperienza mi diceva che, se i colpi partivano dalle nostre retrovie, arrivati a nove le granate sarebbero esplose, così, infatti stava accadendo. 

 

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