AL FRONTE NON CI TORNO - Capitolo 11
Partigiano a Buja La formazione garibaldina, in questo caso, non era “politicizzata” come quelle che finora avevo conosciuto, non esisteva ad esempio nessun’ora politica. Diversamente dalle formazioni di cui avevo fatto parte, si trattava di gruppi i cui componenti operavano in semiclandestinità. Essi, infatti, rispondevano alle chiamate dei Comandanti che, se necessario, potevano contare su un’organizzata rete di portaordini, per poi ritornare durante la giornata, alle proprie attività. Una delle loro prime azioni fu quella di bruciare l’Anagrafe comunale, cosa che venne fatta in moltissimi Comuni, poichè si pensava di togliere così, dalle mani degli occupanti, i nominativi dei giovani che avrebbero potuto essere richiamati alle armi. Al sottoscritto venne consegnato uno Sten che nascosi in soffitta. In quel periodo facevo la corte ad una ragazza di Ursinins Piccolo e una domenica mi recai a trovarla; a casa sua c’era un’altra ragazza (3), che si spacciò per sua amica. Entrai subito in confidenza con la loquace giovane che mi disse di abitare a Udine; sapeva però tante cose, riguardo ai partigiani di Buja, troppe, tanto da mettermi subito in sospetto. La sera stessa, rividi le due ragazze. La giovane di Udine volle con insistenza tornare sui discorsi del pomeriggio e, alla fine, mi confidò che avrebbe voluto entrare a far parte della Resistenza. La cosa mi colpì tanto, che il giorno dopo ne parlai con gli altri Capi partigiani; raccontai loro quanto mi era successo, volevo sapere se per caso conoscevano questa ragazza appena giunta a Buja e così ben informata. Decisero di prelevarla ed interrogarla, non pensando che, facendo così, avrebbero in qualche modo emesso la sua condanna a morte. Certo sarebbe stato molto meglio farle prendere un grosso spavento e cacciarla da Buja, ma questo con il senno di poi. Infatti se fosse stata una spia, come poi purtroppo si dimostrò, dopo aver conosciuto il luogo di detenzione e i volti dei partigiani che l’avevano interrogata, non avrebbe più potuto essere liberata, pena la nostra sopravvivenza. Qualche giorno dopo, mi recai a Collosomano e vidi che la ragazza era ancora tenuta nascosta in un solaio, poco distante dal comando tedesco, allora dissi: «Ma la tenete ancora in soffitta? Per conto mio non dovevate neppure portarla qui, datele una rapata e mandatela a casa...» Mi fu riferito che qualche giorno dopo un squadra partigiana proveniente dalla montagna si presentò in Collosomano per prelevare dei viveri e la ragazza fu consegnata a loro. Il giorno seguente venni a sapere da alcuni miei amici, che andavano ad uccellare, che sulle rive del Corno c’era un partigiano morto. Sul luogo che mi era stato indicato notai subito una persona distesa vicino al greto del torrente; mi avvicinai e capii che si trattava della ragazza, essendo rimasta sotto la pioggia aveva la gonna ed i capelli aderenti al corpo, tanto da sembrare un uomo. Il gruppo di partigiani a cui era stata consegnata avrebbe dovuto portarla in montagna dalle parti di Nimis, invece ............. La salma venne recuperata e portata nella cella mortuaria del cimitero. Sapevamo che si trattava di una spia che cercava di infiltrarsi e, visto che la salma non era stata riconosciuta da alcuno, volevamo sapere chi sarebbe venuto a prelevare il corpo della ragazza. Ero al cimitero quando arrivò da Udine una donna, (4) ( che si rivelò poi il “Comandante delle ausiliarie"), con un carro funebre per prelevare la salma. Era vestita in modo strano, tanto da sembrare un militare, parlava con chi le stava vicino in modo autoritario, sotto il cappotto portava una cintura con la pistola. Mi dissero che erano stati mandati due partigiani sulla strada che dalla frazione di Urbignacco porta alla Pontebbana per fermarla ed accertare la sua identità. Visto che nessuno aveva pensato che Udine si poteva raggiungere benissimo anche attraverso Colloredo, mandai a mia volta due uomini su quella strada. Questi ultimi mi raccontarono poi che, quando intimarono “l’alt” al carro funebre, la donna scese con una bomba in mano, a loro non rimase altro da fare che aprire il fuoco. Tra gli altri fatti ricordo quando alcuni partigiani entrarono nella casa di una famiglia che conoscevo e prelevarono tutto quanto era possibile, fra cui molte coperte. Quando venni a saperlo, andai ad una riunione che si teneva in Monte di Buja e chiesi, presenti gli autori dell’azione........, che la roba fosse restituita. Mi dissero, come scusante, che i prelievi erano necessari per sostenere gli uomini che si trovavano in montagna. Sapevo che per questo motivo le latterie dovevano fornire una quota della loro produzione, ma sapevo anche che molta roba prelevata a quello scopo, rimaneva invece a Buja, cambiando solo di cantina. Terminai dicendo di non arrabbiarsi, se volevano restituire almeno le coperte che lo facessero, altrimenti erano fatti che riguardavano le loro coscienze. Giorni dopo, parte del “prelievo” fu restituito. Un mattino mio padre sentì il cane latrare in modo strano, mi svegliò avvertendomi di un probabile pericolo. Mi vestii in un baleno, uscii sul pianerottolo e guardai con circospezione in giro; non vidi nulla, poi mi spostai dall’altro lato finchè potei scorgere la piazza di Ursinins Piccolo: era piena di tedeschi! Salii in soffitta, imbracciai il mitra e mi misi in trepidante attesa. Vidi diverse squadre di tedeschi partire in direzioni diverse, Santo Stefano, Sottocolle, poco dopo la piazzetta era vuota. Non ci pensai due volte, presi la bicicletta e con un’andatura alla Bartali partii dirigendomi verso Mels. Arrivato a metà strada, entrai con una ruota in una buca più grande del solito e caddi procurandomi diverse escoriazioni al volto. I tedeschi quella mattina erano venuti sapendo bene chi cercare, tant'è che quando entrarono in casa mia, il Comandante aveva una lista con su scritti vari nomi, fra cui il mio. Non trovandomi, arrestarono mio padre, i miei fratelli Remo e Rino e sequestrarono tutte le foto che avevamo in casa. Nel pomeriggio mi raggiunse mia sorella, che non era stata arrestata perchè era andata a dormire dalla zia Clelia; piangendo mi raccontò che i componenti della mia famiglia erano stati tutti portati nelle carceri di via Spalato, a Udine. Durante gli interrogatori che seguirono, mio padre constatò che i tedeschi sapevano che avevo lasciato la formazione partigiana in montagna, perciò supponevano che mi trovassi a casa. Mio padre se la cavò dicendo, con convinzione, che se fossi rientrato a casa mi avrebbero trovato...... «Per quello che so io è andato a lavorare a Torviscosa, ma ora neppure io so dove si trovi, .... può darsi sia ancora là !» Forse gli credettero perchè dopo un mese lo rilasciarono. Remo, non so che cosa gli sia saltato in testa, disse che io non ero affatto suo fratello, bensì suo cugino, comunque che non mi aveva visto. Lo rilasciarono dopo una quindicina di giorni, ma corse un rischio tremendo se solo fossero andati a controllare i documenti ………. . L'altro mio fratello Rino disse, invece, di non vedermi da mesi, anche lui rischiò grosso perchè in un taschino della giacca aveva un tesserino che lo qualificava come partigiano, guai se lo avessero perquisito per bene! Fu rimandato a casa alcuni giorni dopo. Da quella sera, fino alla fine del conflitto, poche volte ho dormito a casa mia, pur rimanendo sempre nelle vicinanze preferivo passare la notte a Mels o in altri luoghi che non mi avrebbero riservato brutti risvegli, il rischio che avevo corso era stato davvero troppo grosso.
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