AL FRONTE NON CI TORNO - Capitolo 12
Con il IX Corpus ? Dopo qualche giorno pensai che fosse meglio lasciare la zona, diventata pericolosa anche per l’arrivo dei cosacchi che giravano spesso nei campi con i cavalli. Decisi di andare a Gorizia, pensavo di potermi aggregare ai partigiani del IX Corpus, di cui avevo sentito, qualche mese prima, i Commissari parlare in toni entusiastici. Avevo portato con me il tesserino di riconoscimento che mi era stato rilasciato dalle formazioni partigiane delle quali avevo fatto parte. Arrivato a Gorizia presi alloggio in un albergo e passai alcuni giorni da turista, evitando di andare in luoghi dove avrei potuto destare sospetti. Un giorno mi accorsi di avere come vicino di camera un Tenente Colonnello dell’RSI, uscendo dalla sua stanza mi incrociò dicendo: «Buon giorno, buon giorno, pare che oggi faccia bel tempo» Quando me lo vidi di fronte mi si gelò il sangue, ma risposi prontamente: «Speriamo». Un giorno, mentre stavo passeggiando, vidi degli uomini in bicicletta che si recavano al bar, erano vestiti con una tuta militare e tutti portavano un grosso mitra a tracolla, il pugnale e la pistola alla cintura, sembravano dei veri e propri guerriglieri. Li riconobbi subito da lontano, si trattava di Enore Viezzi, Luciano Papinutto, Angelo Vignuda, e Angelo Forte, mio lontano parente. Sperai non mi avessero riconosciuto e cercai di girare in una strada laterale. Ma quando mi passarono vicino, Angelo che invece mi aveva riconosciuto, mi chiamò, così mi avvicinai a loro. Scesero dalle biciclette e mi salutarono cordialmente. Angelo mi disse subito: «Mattia lasciamo perdere tutto ........ quando vai a Buja fammi il piacere di portare a mia moglie due copertoni di bicicletta che non riesce a trovare da nessuna parte». Loro erano dei fascisti convinti, sapevano da che parte stavo e tutto il resto ...... e, se avessero voluto, avrebbero potuto farmi arrestare. Mi indicò infine la caserma dove alloggiavano e mi disse che quasi ogni giorno, verso quell’ora, potevo trovarli al bar di fronte, ma non mi passò neppure per l’anticamera del cervello l’idea di andare in seguito a cercarli. A Gorizia rimasi quindici giorni, alcune volte mi recai nei paesini vicini dove da quel poco che potei capire, nei boschi erano insediati i partigiani del IX Corpus. La gente, però, era riluttante a parlare e mal sopportava le angherie di quei partigiani che erano quasi tutti slavi. Quel poco che avevo sentito e capito, era più che sufficiente, non ci pensai due volte e ripresi la strada di casa. Le poche azioni che i partigiani facevano a Buja avevano anche qui lo scopo di rendere la vita difficile agli occupanti tedeschi ed ai cosacchi. Avevamo comunque il problema di tenere a freno i giovani dal grilletto troppo facile che spesso eccedevano nell’eseguire gli ordini con il rischio poi di ritorsioni sulla popolazione. Le situazioni in cui ci trovavamo in certi momenti, quando si doveva scegliere il da farsi, non le auguro a nessuno; sapevamo infatti di mettere a rischio non solo le nostre vite, ma anche quella della gente. Furono commessi anche molti errori, com’è umano che succeda, ma non si può dimenticare il fatto che spesso, falsi partigiani si presentavano nelle abitazioni, soprattutto nelle zone più isolate, per compiere delle vere e proprie rapine a mano armata. Di queste razzie noi in realtà non sapevamo nulla, ma hanno gettato un'ombra di discredito sul Movimento. Ricordo che per questo motivo, in un paese vicino a Buja, due giovani che si spacciavano per partigiani andando nelle case a rubare, furono giustiziati. Una delle poche azioni a fuoco a cui partecipai in quel periodo, fu quella della liberazione del Conte Gropplero (“Freccia”) e di Dumas Poli (“Secondo”), che erano stati fatti prigionieri e poi portati a Farla. Venimmo a conoscenza della decisione dei cosacchi di trasportarli da Farla alla sede del loro Comando che si trovava ad Osoppo e così fummo tutti chiamati per tentare di liberarli. L’imboscata doveva venir fatta a Tiveriacco di Majano. Io con la bicicletta, avevo il compito di attendere il carro che trasportava i prigionieri nel capoluogo, poi dovevo correre ad avvertire gli uomini che si erano già piazzati ai bordi della strada. Il cavalli, però, correvano tanto che, quando arrivai al punto stabilito, il carro cosacco mi aveva quasi raggiunto; iniziò così immediatamente il fuoco ed il lancio di bombe che per poco non provocò il ribaltamento del mezzo poichè i cavalli avevano fatto un repentino dietro front. A questo punto ci fu un imprevisto: su una collinetta lì vicino si trovava un gruppo di cosacchi con i cavalli al pascolo, che, imbracciate le armi, entrò subito in azione. Io mi trovai inaspettatamente in mezzo a due fuochi: da una parte il carro dei cosacchi ed i partigiani, dall’altra i cosacchi che stavano sulla collina, sentivo le pallottole fischiare vicinissime. Lo spavento fu tale che non posso negare, di aver dopo dovuto cambiare le mutande. I cavalli, ripartiti da soli al galoppo, si fermarono in piazza a Majano, dove i prigionieri, anche se feriti, furono messi al sicuro. In quell’azione, i cosacchi ebbero otto morti e numerosi feriti, mentre noi contammo un solo ferito. Pochi giorni prima di questo fatto ricordo che mi trovavo nei pressi del fiume Corno, in località Cuel di spie. Notai alcuni cavalli lasciati incustoditi dai cosacchi, stavano brucando l’erba nei campi, ne presi uno e scappai, lo consegnai ad un mio amico che si recò prontamente a Majano a venderlo. Le due formazioni partigiane bujesi, inizialmente agivano senza tenere contatti tra loro, salvo poi, a volte, screditarsi ed accusarsi a vicenda se qualcosa andava storto. Ci rendemmo conto però che era ragionevole operare di comune accordo e nel febbraio del 45’, allo scopo di evitare queste contestazioni, ci furono i primi accordi tendenti ad unificare i Comandi. Tutti entrammo a far parte del Battaglione “Cavour”, anche i partigiani garibaldini di Colloredo di Monte Albano. Il 4 aprile, ventiquattro giorni prima della Liberazione si diede vita alla Brigata “Rosselli” che comprendeva anche i Battaglioni “Cavour” e ”Ippolito Nievo”, di stanza a Colloredo. Negli ultimi giorni del mese di aprile a Santo Stefano trovai Enore Viezzi che stava rientrando a Buja, lo avvicinai e gli chiesi stupito: «Ma Enore dove stai andando, sei un incosciente, ti rendi conto di quello che succede quando sapranno che sei a casa ?». Con il suo solito tono mi rispose: «Che provino a fare qualcosa, io non ho paura di nessuno». A nulla valse, come era del resto prevedibile, il consiglio di ripartire subito. Conoscevo da troppi anni Enore e sapevo che era un fascista convinto, ma si era sempre comportato bene, anzi aveva spesso avvertito le famiglie, quando sapeva che ci sarebbero stati dei rastrellamenti, così mi recai nel pomeriggio da “Tripoli” che comandava il gruppo di partigiani della borgata di San Floreano. Lo scongiurai di lasciar perdere e ricordo che per convincerlo gli dissi che in fondo, se io fossi stato un graduato come lo era Enore, alla nascita della Repubblica Sociale visti gli aumenti considerevoli dei salari ai militari (graduati), forse, chissà, anch’io avrei scelto di stare dall’altra parte. Negli ultimi due mesi della guerra, abbiamo assistito ad una vera e propria commedia; tutti erano diventati partigiani e gli ultimi giorni, poi, era molto difficile trovare un giovane che non portasse un fazzoletto al collo ...... Il mattino del 28 aprile i partigiani in forze, circondarono “Villa Barnaba” a Santo Stefano, sede del Comando tedesco a Buja ed intimarono la resa che fu subito accettata. Io mi trovavo presso la “Villa Piemonte” dove si era asserragliato un Tenente tedesco comandante della Speer, che sapevamo essere un fanatico. Non ne volle sapere di arrendersi ed allora incominciò una battaglia a colpi di mitra e bombe a mano. Ad un certo punto il Tenente uscì sulla terrazza con il mitra in mano, lo avevo appena preso di mira e stavo per premere il grilletto, quando vidi sopraggiungere il Pievano accompagnato dal Colonnello. Fermata la sparatoria, il Comandante tedesco ordinò al Tenente di arrendersi. I prigionieri, oltre ottanta, dopo aver consegnate le armi furono portati nell’asilo della frazione di Avilla, trasformato temporaneamente in prigione, ma l’incredibile è che, quando questi vi arrivarono, il Tenente e la sua amante erano diventati uccel di bosco. Eravamo ormai alla fine, il giorno dopo, vedendo arrivare dei carri armati, la gente pensò si trattasse finalmente degli alleati. Uscirono tutti in strada a festeggiare, ma rischiarono veramente grosso perchè, invece, si trattava di un gruppo di quattro carri armati tedeschi in ritirata. Io mi trovavo presso il fornaio di Ursinins Piccolo e quando, da lontano, ho visto i Tigre sopraggiungere, in tre secondi ero sparito. In Tonzolano uno di questi carri si bloccò ed i serventi, vista l'impossibilità di ripararlo, lo fecero saltare con alcune cariche prima di abbandonarlo; il sistema di autodistruzione lo mandò letteralmente in pezzi. Nei giorni seguenti i partigiani bujesi parteciparono alla liberazione di numerose località come Osoppo, Colloredo, Pagnacco, Brazzacco, Venzone e Udine.
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