AL FRONTE NON CI TORNO    -     Capitolo 3

LASSU' CE N'E' PER TUTTI

 

 

Al comando di Divisione a Kureny  

Arrivammo al fronte a metà agosto e fui assegnato al Comando di Divisione della Jiulia di stanza a Kureny.

Inizialmente piantammo l'accampamento nel bosco, ai margini del paese. Una foto scattata da Giulio Bedeschi e pubblicata nel libro “Centomila gavette di ghiaccio,”, ritrae proprio Pietro Ursella, Celso Gallina ed il sottoscritto intenti a ricoprire il tetto del “rifugio ufficiali”.

Una sera, ricordo, che un coro formato da alcune ragazze del paese, venne a proporci canti popolari; la loro bellezza e melodia mi è rimasta così impressa che, quando ascolto una corale, non posso fare a meno di riandare col pensiero a quel momento.

Con i Superiori avevo un ottimo rapporto; al fronte la disciplina che regnava in caserma non esisteva più, con certi Ufficiali scambiavamo opinioni ed idee come fra borghesi.

Un giorno, mentre stavamo ascoltando le trasmissioni radio italiane, ci colpì un comunicato che riguardava il nostro fronte; il radiocronista stava raccontando di decine e decine di carri armati russi distrutti in uno scontro avvenuto il giorno prima.

Sapevo che i carri armati effettivamente distrutti erano solo due, uno per parte, così dissi al tenente Vassili Paderni:

«Ma tu, dove li hai visti tanti carri distrutti ?»

Lui, guardandomi seriamente, mi rispose:

«Tutti quelli che mancano li troviamo lassù» e mi indicò le postazioni tenute dai sovietici.

Dopo le prime nevicate lasciammo il bosco, scendemmo anche noi in paese, dove si erano già sistemati i Comandi di Divisione.

La gente del paese era socievole, probabilmente si considerava fortunata ad avere a che fare con “occupanti” italiani piuttosto che tedeschi o rumeni.

Un giorno arrivò in paese una formazione di rumeni che arrestò la donna che faceva le pulizie nell’isba dove si trovava alloggiato il colonnello Gai, Comandante del 3º Artiglieria alpina. Le trovarono nascosti addosso diversi documenti riguardanti le posizioni delle nostre artiglierie. Suo fratello ci raccontò, alcuni giorni dopo, che era stata fucilata come spia.

A poca distanza da noi, tre chilometri circa, c'era il fronte dove avevano preso posizione i Battaglioni “Gemona”,”Cividale” e “Tolmezzo”.

Andavo spesso al fronte con il mulo, presso i magazzini che si trovavano nelle immediate retrovie, per prendere dei rifornimenti. Ricordo un giorno freddissimo: era già caduta la prima neve quando incrociai una colonna di prigionieri russi che si dirigeva verso le nostre postazioni. A guardia di tutti c’era un solo alpino con il mitra a tracolla. Quando lo incrociai lo riconobbi subito: era Enore Viezzi, che al fronte non era capace di stare tranquillo, non passava settimana senza che facesse la sua azione in campo nemico e catturasse dei prigionieri. Ricordo che quando sopraggiunse l'ordine di lasciare le “acque calme”, con qualche scusa dovettero spostarlo per un po’ di tempo nelle retrovie!

A Kureny, al Comando di Divisione, oltre a molti marconisti addetti alle trasmissioni radio, era stato costituito anche un nucleo radio di “intercettazione”, con il compito di captare le trasmissioni russe. In un’occasione ricevemmo un encomio da parte del Comando tedesco perchè, una trasmissione russa, da noi registrata e da loro decodificata, aveva permesso di sventare un’offensiva.

Mario ed io eravamo dislocati in un’isba con la nostra stazione radio, assieme a noi c’erano i marconisti del 4º Corpo d’Armata. In un’altra isba, poco distante da noi, c’erano Giovanni Collavizza di Tomba di Buja e Celso Gallina.

Una domenica ci ritrovammo nella nostra isba insieme a molti bujesi e qualcuno lanciò l'idea di provare a collegarci con Doro “Busut” (Isidoro Nicoloso) che era marconista della Divisione “Cosseria ".

Ci mettemmo alla radio e, baipassando il collegamento fra due Divisioni, riuscimmo a collegarci con Doro ed a salutarlo, fu un rischio perchè guai se ci avessero scoperti mentre usavamo la radio per scopi non militari !  

 (* lettera Celso)

Gli abitanti rimasti nei territori occupati erano piuttosto diffidenti nei nostri confronti, difficilmente ci davano confidenza o stringevano dei legami. Erano certi che "i loro” prima o poi sarebbero ritornati. Giustamente avevano paura di essere considerati .... dei collaborazionisti. Sapevano che in Russia, in questi casi, non si facevano processi ...... e che, al minimo sospetto, si veniva deportati in Siberia.

La famiglia costretta a coabitare con noi era composta da una coppia di anziani e da una donna giovane con un bambino, il marito combatteva al fronte. Noi ci comportavamo in modo da recare il minor disturbo possibile ai nostri ospiti. L’anziana signora, quando entrammo in casa la prima volta, indicandoci con la mano un’icona appesa al muro, ci chiese se potevamo lasciarla dov’era poichè da decine e decine d’anni non veniva spostata ed espresse il desiderio di venire ogni giorno, per qualche minuto, a pregare.

Di buon’ora ogni mattina, puntuale, arrivava, si inginocchiava davanti all’icona e si metteva a pregare silenziosamente. Spesso, quando non avevamo ordini da eseguire, a quell’ora ci trovavamo ancora accucciati e potevamo vederla, con la coda dell’occhio, assorta in preghiera.

Ogni giorno, al risveglio, Mario ed io trovavamo accanto al letto una patata lessa tagliata a metà con dentro del miele e due ciotole di latte fresco.

Eravamo molto affezionati all’anziana signora ed alla sua famiglia, così quando venne impartito l'ordine di allontanare i civili dalle case occupate dai militari, noi non ci rassegnammo all’idea che fossero cacciati di casa e buttati in pieno inverno in mezzo alla strada, ci sentivamo in colpa e non c’era ordine che potesse tenere! Così ci mettemmo a scavare un bunker grande quanto una stanza, lavorammo per diversi giorni “come musc” (come asini). Tagliammo nel bosco del legname per coprirlo in superficie, quindi sistemammo altri strati di terra e paglia per renderlo impermeabile.

Terminato il lavoro tutti i componenti la famiglia presero posto nell’insolita casa; certo non era il massimo della comodità, ma almeno erano vicinissimi alla loro isba.

Sembra incredibile, ma anche di questo scavo c’è la foto scattata da Giulio Bedeschi e pubblicata nel libro “Centomila gavette di ghiaccio”.

Nel villaggio gli abitanti, per ogni cosa di cui avevamo bisogno, dovevano rivolgersi allo Starosta (Capo villaggio), se ad esempio avevano bisogno di un paio di scarpe, dovevano avvertirlo, lui poi avrebbe provveduto a farne richiesta a chi di dovere. Quella povera gente in fondo poteva fare solo una cosa: “lavorare”.

Al mattino ci piaceva osservare i trattori mentre cominciavano ad arare i campi: li vedevamo abbassare l'aratro nel terreno e partire, ritornavano indietro dopo due, tre ore.

La gente non lavorava con passione ed impegno e d'altra parte la cosa era comprensibile, però, non pativa la fame come avevo visto in Grecia: le patate infatti non mancavano mai.

Noi, alle volte, per ascoltare stazioni radio che erano proibite, mettevamo la cuffia dentro un gavettone in modo che facesse dal megafono. Una sera stavamo ascoltando “Radio Londra” quando, improvvisamente, entrò nella stanza il tenente Querini. Non so perché, ma rimasi talmente sorpreso, che non feci in tempo a girare la manopola di sintonia, come facevo normalmente quando qualcuno si avvicinava.

«Che cosa state ascoltando?» ci chiese e dopo essersi seduto pure lui in ascolto, mi ordinò di portare subito la radio al Comando, dove restò per un certo periodo ....... sintonizzata su “Radio Londra”.

Una sera, stavo rientrando ed era già buio, ad un certo punto mi trovai davanti un tedesco che mi diede “l'altolà”.

«Parola d'ordine», mi disse.

Io, figuriamoci, alla parola d’ordine non avevo neppure lontanamente pensato quando ero partito; fortuna volle che quello fosse leggermente ubriaco, così, farfugliando un poco, mi avvicinai e, giunto a portata di mano, gli diedi uno spintone, buttandolo nel canale che stava alle sue spalle. Potei poi, velocemente, raggiungere il mio reparto. Mi vengono i brividi se penso al rischio che ho corso.

Ricordo un altro episodio per certi versi simile a questo, ma a parti invertite. Un giorno fui chiamato da un Tenente che mi disse:

«Questa sera con altri sei soldati uscirai di pattuglia all’incrocio, tu farai da capopattuglia».

Non riuscivo a capire perché dovessero mettere capopattuglia proprio me che ero solo "soldato semplice" e non un graduato, ma lo capii subito dopo...……

Quella sera faceva un freddo cane, a peggiorare la situazione ci pensava un vento fortissimo e tagliente. Raggiungemmo il crocevia che portava direttamente al fronte e ci fermammo: era praticamente impossibile rimanere all’aperto, così entrammo nell’isba più vicina. Per ripararci scendemmo nel ripostiglio, sotto il solaio e cercammo di svolgere comunque il servizio di controllo che ci era stato affidato.

Ad un certo punto vedemmo due persone che si stavano avvicinando, ci sembrava parlassero ora russo ora tedesco, ma il forte vento ci impediva di distinguere la lingua con sicurezza, così presi il coraggio a quattro mani, uscii ed intimai l'”altolà”.

I due continuarono indifferenti a parlare fra di loro. Ripetei più volte di farsi riconoscere, ma niente! Ad certo punto presi la mira, stavo per premere il grilletto quando qualche Santo dall'alto mi fermò. Pensai: “Questi due hanno un comportamento anomalo!” 

Mi accovacciai ed attesi, quando giunsero vicino constatai che il tedesco ed il russo (collaborazionista), erano entrambi ubriachi fradici! .......... così li lasciai proseguire.  

 

 

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