AL FRONTE NON CI TORNO - Capitolo 4
La ritirata La sera del 16 dicembre, all’imbrunire, giunse improvvisamente l’ordine di partire, capimmo che era successo qualcosa di grave. Marciammo tutta la notte e la mattina del giorno seguente, finchè giungemmo a metà pomeriggio a Kolbinsk, nelle retrovie di Novo Kalitva. I Battaglioni “Gemona” e “Tolmezzo” furono mandati subito avanti a fermare i russi e subirono perdite ingenti, ma riuscirono a bloccare temporaneamente la falla nello schieramento tenuto dalle Divisioni “Cosseria” e “Ravenna”. In condizioni inenarrabili, durante la notte, riuscirono a creare, una barriera spalando e picconando sul terreno ghiacciato, formando così delle fortificazioni. Ricordo che un nostro reparto andò al fronte a dare il cambio ad alcune unità che da tanti giorni combattevano; quando ritornò nelle retrovie aveva pochissimi uomini. Molti erano morti sotto i cingoli dei carri armati russi. Il rifugio, quando c’era il tempo per farlo, veniva scavato a forma di "T" in modo da proteggersi dagli eventuali cingoli di un carro armato in entrambi i sensi. Spesso accadeva che un carro, non potendo sparare a terra, saliva sopra la trincea con un cingolo, lo bloccava e, facendo girare l’altro, si avvitava sul terreno facendo franare le pareti della trincea e schiacciando i disgraziati che erano sotto. In quei luoghi rimanemmo circa fino al 10 gennaio, non so la data precisa, perchè allora avevamo perso anche il senso del tempo. Ricordo che Celso Gallina, mentre ci trovavamo in questo paese, aveva iniziato a studiare il tedesco, come insegnante aveva una ragazza russa che lo parlava correntemente. Ogni domenica un sacerdote veniva al paese a celebrare la Santa Messa presso un grande edificio, che noi chiamavamo "farie". Un giorno cominciammo ad udire un lontano boato provenire dal fronte, capii che stava capitando qualcosa di terribile, mi recai così nel rifugio che veniva usato come mensa e, trovato il tenente Vassili Paderni, gli chiesi: «Tenente, che cosa sta succedendo?» Lui mi guardò in faccia e, preoccupato, mi rispose: «Lassù ce n’è per tutti» Per vari chilometri il terreno vibrava sotto i colpi dei razzi lanciati dalle katiusce. Vedemmo anche carri armati tedeschi e un semovente che stavano dirigendosi verso le retrovie, loro probabilmente avevano già avuto l'ordine di ripiegare, mentre noi eravamo all’oscuro di quello che stava accadendo ...... Quella sera, mentre stavamo prendendo il rancio, dissi a Mario: «C’è qualcosa che non mi convince, hai notato che gli Stukas, stanno da qualche tempo dirigendosi verso le nostre retrovie?» «Mah!», mi disse, «cosa vuoi che ti dica ........ certo che è strano!» Proprio quella notte, arrivò l'ordine perentorio di partire, portando appresso solo le munizioni e lo stretto necessario. Iniziò, così, la ritirata! Giunti in un villaggio, nei pressi della città di Rossosh, venne ordinato a Pietro Ursella, ad un altro alpino ed a me di andare a “ripiegare la linea”, cioè a recuperare i fili telefonici. Stavamo marciando da qualche tempo in senso contrario alle nostre truppe, quando, ad un certo punto, si avvicinò un graduato che ci disse: «Ma dove state andando?» «A ripiegare la linea» - dissi - «come ci hanno ordinato». Allora, indicandoci un gruppo di alpini che ci stava passando a fianco, disse: «Vedete quelli? …. Dopo di loro ci sono solo i russi» e riprese la sua marcia. Con il mulo e la slitta che avevamo con noi, facemmo prontamente dietro front e, ritornati al villaggio da cui eravamo partiti, notammo che del nostro reparto non c’era più nessuno, ad eccezione di un alpino steso a terra, morto. Così proseguimmo aggregati ad altri reparti e raggiungemmo un’altura da dove si poteva vedere la città di Rossosh; là si stava combattendo e si sentiva il terreno tremare spaventosamente sotto i piedi. Proseguimmo faticosamente la marcia fino a raggiungere Popovka, lì ci fermammo. Legammo mulo e slitta alle pareti di un’isba ed, entrati, ci accovacciammo per passare la notte. Ad un certo punto fummo svegliati da fortissime esplosioni, uscimmo immediatamente all'aperto e ci accorgemmo di essere nel bel mezzo di una battaglia. Una lunga colonna di soldati stava lasciando il paese e noi, in tutta fretta, ci accodammo. Con noi venne anche un Tenente, uno spilungone che, dopo aver fatto un tratto di strada, facendosi forte del suo grado, pretendeva di salire sulla nostra slitta. Allora mi avvicinai e facendo la faccia cattiva, gli dissi: «Tenente, io sono il responsabile del mulo e lei sopra la slitta, a riposare, sale nè più nè meno di quanto saliamo noi! » Non gli restò che proseguire con le sue gambe. A Podgornoje ritrovammo diversi alpini del nostro reparto e notammo che le unità cercavano di riorganizzarsi. Poco dopo, però, fummo di nuovo investiti da un potente attacco russo. Una bomba colpì l’angolo di un’isba vicino a noi, lo spostamento d'aria ci fece fare un volo di dieci metri. Ricaddi a terra, sentivo dolori dappertutto: con le mani cercavo di toccarmi per trovare un’eventuale ferita, ma miracolosamente ero illeso. Ci mettemmo a correre, cercando di uscire dal paese, ma giunti in un canalone trovammo tre carri armati russi ad aspettarci. Un Maggiore cominciò allora a gridare: «Avanti, avanti ragazzi, che se usciamo da qui andiamo a casa!» Fu una carneficina, vidi degli alpini, anzi degli eroi, che andavano contro i carri armati con le bombe a mano! Ad un certo punto i carri cominciarono a ripiegare, ma la sfortuna volle che un colpo da 35 sparato dai nostri, anziché colpire il carro in un punto vitale, riuscisse a staccargli solo un cingolo, immobilizzandolo e provocando così il ritorno degli altri due in sua difesa. Tutta la colonna fu allora costretta a ripiegare e a scegliere un’altra via di ritirata. Da lontano, vidi che i tre carri armati russi erano stati distrutti, a terra si vedevano i resti di un vero e proprio macello. Fu durante uno di questi attacchi che Enore Viezzi perse un occhio. Quando io lo incontrai, poco dopo essere stato ferito, gli dissi: «Che cosa hai fatto Enore?» «Mi hanno chiuso una finestra!», mi rispose scherzando. Ad un certo punto la nostra colonna dovette per forza passare in fondo ad una vallata, dove su entrambi i lati c’era della boscaglia. Alcuni partigiani incominciarono ad aprire il fuoco nascosti tra la vegetazione: sparavano a colpo sicuro. Quanti giovani morirono così, come ad una roulette russa, nel più assurdo dei modi, senza neppure potersi difendere! Un giorno una slitta che portava delle munizioni, uscendo dalla pista, andò a schiacciare alcuni soldati che si erano seduti a terra per riposare. Uno di loro, Umberto Bortolotti di Buja, riconosciutomi mentre stavo passando vicino a lui, si salvò per caso. Allungando la mano mi disse: «Tirami su». Proprio in quel momento la slitta carica di proiettili da 75 arrivava loro addosso. Quel giorno ero solo perchè oltre a Pietro Ursella, che non ritrovai e non rividi più, avevo perso anche Mario. In quella calca di uomini incolonnati in marcia era facilissimo perdersi di vista, bastava un attimo, eravamo vestiti tutti allo stesso modo, con una coperta avvolta sulla testa che la copriva il più possibile. Arrivati ai bordi di una grossa arteria stradale, fu impartito l'ordine tassativo di non muoversi e di rimanere stesi nel più assoluto silenzio. Dopo breve tempo cominciammo a sentire il rumore dei cingoli dei carri armati che si stavano avvicinando. Erano tre carri, i primi due passarono senza accorgersi della nostra presenza, il terzo, invece, tirò un colpo di cannone ad una slitta che, con troppa precipitazione era uscita allo scoperto; fortuna volle che proseguisse, poi, per la sua strada. Anche in quell'occasione qualcuno dall’alto ci aveva messo una mano sopra la testa, non riesco ancora a capire come non si siano accorti della massa d’uomini distesa a terra sul fianco della strada. Se ciò fosse successo avrebbero fatto una carneficina, poichè non avremmo potuto in nessun modo difenderci. Tutti i giorni che rimanemmo in quella sacca subimmo qualche attacco, se non venivano da terra, arrivavano dall’aria e debbo dire che i piloti di molti aerei russi probabilmente non se la sono sentita di mitragliare la colonna umana prendendola d’infilata. Arrivati in prossimità di un villaggio, notai dei soldati che entravano e poi uscivano urlando da una piccola casupola. Mi avvicinai incuriosito e scoprii che dentro si trovavano delle arnie. Attesi che se ne andassero tutti, poi entrai in azione, favorito dal fatto che a casa avevamo anche noi delle api e quindi sapevo come comportarmi. Entrato nel rifugio, non toccai le arnie che erano già state disturbate da coloro che mi avevano preceduto, cercai, invece, quelle intatte. Le aprii con molta calma ed attesi che il freddo intirizzisse le api, presi quindi i telai colmi di miele e cominciai a passarli a Mario che mi attendeva fuori.
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