AL FRONTE NON CI TORNO - Capitolo 6
Il rimpatrio Prendendo quel camion feci un grosso errore: dopo un centinaio di chilometri fummo fatti scendere presso la scuola di un piccolissimo villaggio e lì ci lasciarono per giorni e giorni a patire fame, freddo e pidocchi, sì, tanti pidocchi! Continuavano a dirci che fino a quel punto la ferrovia era funzionante e che presto sarebbero stati messi a disposizione alcuni vagoni. Gli altri, fra cui Mario, che avevano dovuto proseguire a piedi, erano già quasi arrivati in Italia. I pidocchi ci accompagnavano dal nostro arrivo in Russia, ma mentre prima della ritirata avevamo il tempo di fare le operazioni giornaliere di spidocchiamento, dalla ritirata in poi il problema era diventato tragico. I pidocchi erano tanti che, per sfoltirli, passavamo sui colletti delle camicie un sasso, nello stesso modo in cui si passa il ferro da stiro, sentivamo un continuo “clac clac clac” ogni qualvolta ne schiacciavamo uno…….. . Il maggior numero di parassiti si concentrava sul ventre, nel punto dove veniva stretta la cinghia dei pantaloni. A questo proposito ricordo che una notte, a Kolbinsk, verso la fine di dicembre, Mario ed io decidemmo di fare un controllo agli indumenti che indossavamo e, dato che ci trovavamo nell’isba, togliemmo i vestiti e li appendemmo all'aperto. Eravamo certi che una gelata a 25 gradi sotto zero, fosse il miglior insetticida del mondo. L’indomani quando andammo a recuperare i vestiti, erano rigidi come un cartone, se piegati si sarebbero spezzati. Compiaciuti notammo le decine di puntini neri congelati, sparsi qua e là sugli indumenti; eravamo felici e certi di esserci liberati di loro almeno per qualche giorno! Passati, però, pochi minuti, Mario ad un certo punto disse tutto sconsolato: «Matie, le vin tal cûl” » ( ci è andata storta). Infatti, man mano che i vestiti cominciavano a scongelarsi, i terribili animaletti riprendevano a muoversi. Per onore del vero e dei curiosi debbo anche aggiungere che i pidocchi greci erano più grossi di quelli russi. Finalmente un giorno il treno arrivò, così potemmo partire anche noi. Di quel viaggio ricordo il freddo patito, ero rinchiuso assieme a tanti altri soldati nei vagoni merci che ci riportavano in Patria, tra noi c'erano alpini con principio di congelamento, le cui carni emanavano un forte odore. Ci veniva fornito, inoltre, solo un pasto al giorno. Arrivati alla stazione di Firenze ci fu vietato scendere a terra, non volevano che la gente vedesse in quali condizioni eravamo ridotti. Come al solito feci orecchio da mercante e, visto che le porte del treno erano state bloccate, scesi direttamente da un finestrino, una ronda mi fermò, ma chiuse un occhio visto che con fare deciso dissi: «Ai bisogni fisici non si comanda». Entrai nella sala d'aspetto di seconda classe, moltissimi graduati dell'Aviazione seduti ai tavoli, cominciarono a guardarmi come se fossi una mosca bianca. Ai piedi avevo ancora uno zoccolo ed un valenki, avevo la barba molto lunga, ero sporco e pieno di pidocchi. I pantaloni, ormai senza bottoni, erano scuciti talmente da risultare divisi in due pezzi, tenuti vicino solo dalla cinghia. Devo essere stato indubbiamente uno spettacolo insolito e spero proprio di averli scandalizzatati. Passai per la sala d'aspetto che, ricordo ancora, era lunga e stretta; in fondo c’era un bar, dove mi diressi prontamente per acquistare alcune barrette di cioccolato. Presi anche un caffè, mentre decine di occhi mi guardavano, finalmente un cameriere più coraggioso degli altri si avvicinò dicendomi: «Scusi, ma lei da dove viene? » «Dalla Russia» risposi tranquillamente. «Ehh! » commentò sbalordito, alzando le sopracciglia. «Allora vada fuori a vedere, c'è un treno pieno di alpini in condizioni anche peggiori dalle mie», tagliai corto. In un baleno la voce cominciò a circolare, diverse persone cominciarono ad avvicinarsi e tutti chiedevano o volevano sapere qualcosa. Gli Ufficiali di più alto grado erano quelli più increduli. Quando uscii dal locale vidi che ormai molte persone si erano avvicinate al treno, tanto che i vagoni vennero portati in un binario morto, lontano da occhi indiscreti. L’indomani 25 febbraio ‘43, all'imbrunire, alla stazione di Pisa incominciarono a giungere i mezzi che avrebbero dovuto condurci all’ospedale militare “Villa Seminario” di Calci per il periodo di contumacia. Anche qui, però, in breve tempo, la stazione si era riempita di gente che, con gli occhi sbarrati, ci guardava come fossimo appena usciti dall'inferno. La folla ad un certo punto era così numerosa che ci fecero risalire sul treno che si allontanò dalla stazione per ritornare dopo qualche ora. Giunti a destinazione, pochi giorni dopo, disgrazia si sommò a disgrazia: scoppiò, infatti, in caserma un’epidemia di tifo petecchiale che ci obbligò ad un periodo di vera e propria quarantena, lontano da tutto e da tutti. A Pisa avevo chiesto ad una crocerossina di informare la mia famiglia dove mi trovavo. Una ventina di giorni dopo, mi giunse un telegramma da mio padre che mi chiedeva di raggiungere Buja al più presto perchè la mamma era moribonda. Allora andai dal Comandante, un Maggiore medico e chiesi il permesso per partire immediatamente. Mi spiegò che era purtroppo impossibile, il perimetro della caserma-ospedale era guardiato a vista giorno e notte, nessuno poteva nè entrare nè uscire. Io, che ero rimasto sconvolto dalla notizia, lo salutai sconsolato dicendogli: «Preghi Iddio che indosso questo pigiama, altrimenti a quest’ora a casa sarei già arrivato». Tre giorni dopo un altro telegramma mi informò della morte di mia madre.
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