AL FRONTE NON CI TORNO - Capitolo 8
Al fronte non ci torno Qualcuno mi dette un'imbeccata e, visto che non volevo saperne di rientrare sotto le armi, mi recai nei pressi di Santa Maria Maddalena con l'intenzione di entrare a far parte delle nascenti formazioni partigiane. Raggiunto il paese, fui subito fermato da alcuni uomini che mi portarono presso una casa, dove il Comandante “Furore” (Luigi Grion) che avrei conosciuto molto bene nei mesi seguenti, mi spiegò che, con l'avvicinarsi dell'inverno, sarebbe stato molto difficile tenere in piedi una formazione stabile. Mi disse, però, che in primavera si sarebbero spostati verso Monte Prât, sopra Forgaria ed allora avrei potuto entrare a far parte attivamente della formazione. Nei mesi invernali mi recai, così, con mio fratello e diversi altri bujesi a lavorare a Torviscosa. A Buja, al seguito dei tedeschi, era giunto un prigioniero di guerra russo al lavoro coatto, si chiamava Valentino Bobcov, nell’esercito sovietico ricopriva il grado di Tenente carrista. Era un giovane intelligente e in poco tempo, anche se parlava un italiano stentato, era riuscito a farsi comprendere dalla gente. Aveva subito guadagnato la fiducia dei tedeschi, infatti, dopo aver svolto i lavori che gli venivano ordinati, poteva muoversi a piacimento per il paese. Mi era stato presentato, se non ricordo male, dall’amico Renato Persello. Poichè qualcosa di russo riuscivo a capire, un giorno mi disse che sarebbe volentieri entrato a far parte della Resistenza. Sul momento non risposi, ma il giorno che finalmente decisi di partire per Monte Prât andai a chiamarlo. Guadammo il Tagliamento nei pressi del Cimano poichè i ponti erano tutti presidiati dai tedeschi o dai soldati della RSI e, giunta la sera, passammo la notte in una legnaia. L'indomani, arrivati a San Rocco, frazione di Forgaria, notammo una persona seduta su un muretto vicino alla chiesa, avanzammo con circospezione fino a quando, giunti a pochi metri, riconoscemmo il nostro Pievano, Giovanni Chitussi che, a sua volta, dopo averci riconosciuti, ci chiese: «Dove state andando?» «Andiamo lassù!», gli risposi, indicandogli la montagna. Incominciò a dondolare la testa, rimanendo per qualche attimo titubante, probabilmente non sapeva se “sbottonarsi” oppure no. Ma poi, d’un tratto, ci disse: «Prendete la strada che porta alla latteria, se non li trovate voi, vi troveranno loro!» e ci salutò. Seguimmo le indicazioni di Don Chitussi e, poco dopo esserci incamminati per quella strada, improvvisamente una decina di uomini ci circondò. Dopo aver ascoltato le nostre intenzioni ci portarono al Comando. A capo della formazione partigiana c’era “Furore” (Luigi Grion). Di lui non condividevo il troppo fanatismo e l’esaltazione, il nome di battaglia che si era scelto era aderente al personaggio. Io fui “battezzato”: "Dario". Le vere generalità ed il "nome di battaglia" venivano segnati su di un registro che il Commissario politico aveva il compito di nascondere. Allora eravamo veramente agli inizi ed io ero il decimo o il dodicesimo entrato a far parte di quella banda partigiana, che nei mesi seguenti avrebbe contato centinaia di aderenti. Ebbi così il piacere di dare il nome di battaglia a numerosi bujesi. Ero entrato a far parte di una formazione partigiana garibaldina; allora la cosa mi era del tutto indifferente, non sapevo cosa significasse portare il fazzoletto rosso al collo, d’altronde a quei tempi le formazioni garibaldine erano le uniche esistenti. Me ne accorsi quando iniziammo, insieme con altri partigiani, a partecipare alle giornaliere "ore politiche" tenute dal Commissario, dove ci veniva inculcato, o così almeno cercavano di fare, il verbo comunista. Una volta ricordo che il Commissario mi chiese se avevo fatto il militare e avendone ricevuto risposta affermativa, mi disse: «Dove hai combattuto?» risposi che ero reduce dalla Russia e lui, con tono scandalizzato, replicò: «In Russia ? ......... Sei stato a combattere contro i nostri compagni !!!!!!!!!» «Certo! », risposi al giovane ottuso Commissario: «Avrei voluto vedere cosa avresti fatto tu al mio posto ............! » Avrei potuto aggiungere che da quelle parti non avevo certo trovato quel paradiso in terra che lui credeva ci fosse, ma era meglio tenere a freno la lingua poichè i Commissari che ci tenevano "lezione", erano in genere dei fanatici. Per onestà devo dire che io, come del resto la quasi totalità dei giovani, divenni partigiano perché, dopo l’esperienza della Russia, non volevo assolutamente rimettermi in divisa ed essere mandato a combattere chissà dove, per un regime al quale non credevo più. Certo, una volta fatta la scelta "partigiana", non era più possibile tornare indietro poichè come dice il detto friulano “Cul lôf tu sês e cul lôf tu stâs”; (con il lupo ci sei e con lui ci devi stare). Era troppo rischioso, infatti, permettere ad un partigiano che ormai conosceva tutti, di andarsene. Poco tempo dopo, verso Pasqua, la nostra Brigata “Matteotti”, che aveva superato le trenta unità, si organizzò in tre squadre formate da una decina di uomini, io fui messo al comando di una di esse. Nei mesi che seguirono svolgemmo azioni di sabotaggio: “intralciare l'azione dei tedeschi” era il nostro obiettivo. A tale scopo facevamo, ad esempio, saltare i binari, bloccando così la ferrovia o altre azioni destinate ad ottenere identici scopi. A Cornino ci fu il primo scontro. Una donna era venuta ad informarci che alcuni militari tedeschi, che prestavano servizio di guardia al ponte, erano giunti in paese. “Furore” ci ordinò di intervenire immediatamente, così, alcuni uomini ed io, dopo esserci armati e riforniti di munizioni, partimmo. I soldati, (che erano andati dal barbiere, come poi ci riferirono), stavano già andandosene e fummo colti di sorpresa quando ce li ritrovammo davanti, sulla strada appena fuori dal paese. Ingaggiammo subito battaglia, ma nel momento in cui misi il dito sul grilletto per aprire il fuoco, il mitra, unica arma automatica del nostro gruppo, si inceppò. Fortuna volle che al mio fianco ci fossero altri partigiani che spararono subito ferendo in maniera non grave due dei tre tedeschi, i quali si ripararono immediatamente dietro un muretto. Da lì incominciarono a rispondere al fuoco con le loro armi automatiche. Decidemmo di lasciar perdere e di ritirarci subito nei boschi, per evitare ulteriori sorprese. A questa azione seguì un rastrellamento che portò i tedeschi fino a Monte Prât, ma che non produsse alcun effetto poiché noi avevamo già abbandonato la zona. Qualche tempo dopo, ci eravamo accampati nelle due casere di Cjâ dal agnul (Casa dell'angelo) sopra il paese di Cornino. Mal sopportavo il continuo andare e venire di curiosi, (soprattutto di donne), dovuto sicuramente al fatto che la nostra formazione partigiana era la prima di cui sentivano parlare. Dissi allora a “Furore” che non si poteva andare avanti così e che, con il suo permesso, avrei preferito spostarmi con la mia squadra. Lo feci il giorno stesso, con il suo assenso, portandomi in uno stavolo, in località Pît di cuâr (Piede di corno). Con sorpresa, verso mezzanotte, fummo raggiunti dallo stesso “Furore" a cui probabilmente avevo messo una pulce nell'orecchio. L’indomani mattina, alle cinque, Cjâ dal agnul venne accerchiata da truppe tedesche che, entrate nella casere arrestarono "Gianna", una partigiana rimasta lì non ricordo per quale motivo. Subito dopo l’arresto “Gianna” chiese di appartarsi per dei bisogni fisiologici e, con coraggio incredibile, saltò un muretto che delimitava il ripidissimo ghiaione buttandosi nel vuoto, riuscendo così a fuggire e a salvarsi. Per una settimana la trasportammo con una portantina, tante erano le ferite e le escoriazioni che si era procurata nella fuga. Sempre in quel periodo, un informatore avvertì il Comando partigiano che la sera il cinematografo di Majano era spesso frequentato da soldati della Repubblica Sociale Italiana, che raggiungevano quella località a bordo di camion. Così ……….. venne incaricato di formare una squadra che avrebbe dovuto portarsi sul posto per vedere cosa era possibile fare. Anch’ io, che ero della zona, fui scelto per far parte del gruppo. Partimmo all'imbrunire e, dopo aver guadato il Tagliamento, passammo nelle vicinanze dei paesi di Mures, di San Tommaso raggiungendo a ora avanzata Majano. La proiezione del film era già terminata ed i repubblichini se n'erano andati, così ci incamminammo per la strada che porta a Pers. Poco più avanti passammo in prossimità dell'”Albergo Centrale” e .………. , che comandava il gruppo, ordinò ad alcuni di seguirlo all'interno del locale per un controllo. Mentre noi ci appostammo all’esterno in attesa, con lo sguardo rivolto alla sede del Comando tedesco che era dislocato nelle scuole del paese. Entrarono, subito dopo sentimmo una sparatoria provenire dall'interno; immediatamente le poche e fioche luci accese nella scuola occupata si spensero. Nessuno tentò di uscire per venire a vedere cos’ era successo. Appena i miei compagni uscirono dal locale ci mettemmo a correre verso Pers, nella corsa persi anche una ciabatta. Questa venne ritrovata l'indomani dai tedeschi e venne anche menzionata sui giornali dell’epoca che riportarono il fatto accaduto come opera di partigiani slavi. Raggiunto Pissignano, ci nascondemmo nella stalla di una casa di contadini posta all’interno del boschetto del paese. Rimanemmo fermi per una giornata e mezzo, qui ………. ci raccontarono quanto era successo a Majano al momento del loro ingresso nel locale. All'interno avevano trovato una tavola imbandita con attorno cinque graduati tedeschi ed un italiano, pare fossero tutti Ufficiali. I tedeschi, alla vista delle armi spianate, alzarono subito le mani, mentre l’Ufficiale italiano cercò di impugnare la pistola. Loro, allora, aprirono il fuoco uccidendo tutti i militari, il titolare del locale, che si trovava nella stanza e sua figlia, mentre un'altra (Bianca De Cecco) rimase ferita. (Un Ufficiale tedesco si salvò). Ringrazio Dio di non avermi mai fatto trovare in simili situazioni dopo l'esperienza della guerra in Russia, ma soprattutto di avermi preservato dalla smania di sparare che molti avevano. Due giorni dopo ripercorremmo a ritroso la strada che avevamo fatto, raggiungendo di nuovo Monte Prât.
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