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CAPITOLO 14

UNA GUERRA IN CUI NON MI RICONOSCO

Finita la guerra, si è chiuso un capitolo della mia vita. Ricordo che durante il periodo in cui era presidente Pertini, avrei dovuto recarmi a Roma per ritirare una medaglia d’argento per l’attività partigiana che avevo svolto, ma non ci andai.

Non mi sono mai ritenuto un eroe. I soli eroi che conosco sono quelli morti di fame in campo di concentramento, i fucilati, i torturati, i morti in battaglia; troppi di noi partigiani hanno fatto una guerra in cui non mi riconosco.

Dopo la liberazione venni a conoscenza di diversi fatti che mi portarono a queste conclusioni e capii che spesso ero stato “usato”.

Un giorno fui chiamato dai Comandanti in Municipio e mi fu chiesto se fossi stato io a prelevare, in una famiglia di Buja, degli alimenti. Risposi di sì aggiungendo che avevo eseguito gli ordini e che avevo anche  consegnato, come di regola, un “buono di prelievo”.

“Ma il buono è falso”  mi dissero.

Allora  feci nome e cognome di coloro che mi avevano ordinato il prelievo e che mi avevano dato i “Buoni  falsi” da consegnare.

Non so come finì, forse i mandanti erano degli intoccabili, ma so per certo che di fronte a quella famiglia la parte del delinquente l’avevo fatta io.

Erano fatti a dir poco spiacevoli, che si trascinarono per diverso tempo negli anni dopo la fine del conflitto e che raffreddarono in me tutta l’euforia che avevo provato dopo la liberazione.

Venni anche a conoscenza del fatto che mio zio, Aita Guerrino, partigiano come me, dopo aver bevuto un goccio di vino di troppo, assieme al gruppo di partigiani di cui faceva parte, andò in escandescenze e si mise a gridare “Viva il Duce” e a cantare forse “Giovinezza Giovinezza”.

Fu fucilato poco dopo dagli stessi partigiani senza alcun processo. (Nota 1)

Finita la guerra andai io stesso a Monte Prât a disseppellirlo. Il primo colpo di piccone portò alla luce un braccio. Forse c’era troppo lavoro per i tanti ammazzati poichè il suo corpo era sepolto sotto soli dieci centimetri di terra.