LA MIA GUERRA     (Capitolo 10)

Ritorna a  " LA  MIA  GUERRA"

 

 

Voina Kaputt, la guerra è finita! 

Al mattino, verso le cinque, era già chiaro quando arrivammo al limite della foresta. Lì ci salutammo per prendere strade diverse. Lungo il cammino, sentimmo un’armonica che suonava in una piccola fabbrica. Entrammo e vedemmo un gruppo di ragazze che ballavano e cantavano, felici che la guerra fosse arrivata alla fine. Ci chiesero:

«Chi siete?».

 E noi «Italiani».

«Eeeeeeh!! Italiani erano anche quelli che stavano qui con noi stamattina e dicevano che ci avrebbero portate con loro. Invece sono partiti e ci hanno lasciate sole!» ci spiegarono.

Aggiunsero che venivano dalla Lituania e che nella piccola fabbrica in cui le avevamo trovate lavorava anche un gruppetto di italiani, tra questi tutte avevano trovato il fidanzato. Dovevano aver passato una bella prigionia, quelli!!!

Alle nove di mattina noi stavamo ancora dormendo, quando giunse il rumore di un inferno di colpi. Erano i russi. Le ragazze, che ci avevano dato ospitalità per la notte, si precipitarono fuori con la bandiera della loro nazione e rientrarono subito dopo saltando e gridando felici:

«Voina kaputt, voina kaputt», (“La guerra è finita!”).

Uscimmo anche noi e vedemmo una colonna di carri armati. I russi sparavano coi parabellum e con tutto quello che avevano a disposizione e gridavano anche loro:

«Voina kaputt!» tutti contenti.

A questo punto decidemmo di tornare indietro, alla fattoria.        

Salutate le ragazze, verso mezzogiorno prendemmo la strada del ritorno. In verità, due o tre di loro avevano insistito per venire con noi, chiedendoci di portarle in Italia, tanto che Ettore, l’amico di Pordenone, aveva proposto:

«Ueee, Gallina, portemone una a casa!».

Lungo la strada percorsa il giorno prima, ci trovammo di nuovo nel punto in cui avevamo visto la terribile carneficina che i russi avevano perpetrato ai danni dei profughi tedeschi. Impossibile descrivere l’orrore! Cavalli, uomini, donne, bambini, tutti ugualmente massacrati, i cingoli dei T 34 non avevano avuto riguardo per niente e per nessuno. Qualche metro più avanti trovammo un soldato morto, disteso sul ciglio della strada. Osservandolo meglio, ci accorgemmo che un ciuffo d’erba che gli usciva dalla bocca. Guardandolo più da vicino, ci rendemmo conto che una scheggia gli aveva portato via tutta la parte posteriore della testa, che si trovava nell’elmetto, a pochi passi di distanza. Sembra impossibile, ma ad un certo punto si diventa insensibili perfino alle atrocità, si diventa duri. Per strada, nessuno ci fermò. Quando trovavamo soldati russi che ci chiedevano chi fossimo, rispondevamo

«Italiani» e loro ci lasciavano andare accompagnandoci con un:

«Talianski, dobro, dobro».

All’imbrunire arrivammo in paese. Ogni casa aveva alle finestre un lenzuolo bianco in segno di resa. Le case che ne erano sprovviste venivano buttate giù a colpi di cannone. Quando, a notte fonda, arrivammo alla fattoria, scorgemmo subito il lenzuolo. Anche il nostro padrone si era arreso! Le mucche erano abbandonate all’aperto. Entrammo e trovammo la casa deserta e saccheggiata. Si fece avanti una donnetta che abitava lì vicino e fissandomi negli occhi mi disse:

«Se ci fossi stato tu, Olinto, non sarebbe successo»

Era accaduto che Antonio, un calabrese che lavorava con noi, era stato mandato “in prestito” dal padrone ad un altro contadino bisognoso di aiuto. Il nostro compagno aveva accettato il trasferimento molto malvolentieri e covava del risentimento nei confronti del padrone. Così quando due volontari siciliani, arrivati coi russi, lo avevano trovato e preso con loro, il calabrese per vendicarsi di quello che riteneva un torto subito, portò i russi alla fattoria.

Il padrone di casa dovette scappare con moglie e figli, abbandonando ogni cosa,  nelle mani di questi individui, che si diedero al saccheggio. Più tardi siamo venuti a sapere che quella non era stata l’unica angheria combinata da quella squadraccia.

Al nostro arrivo alla fattoria non c’era più nessuno. Noi spingemmo le mucche al riparo nella stalla e portammo loro da mangiare. L’indomani mattina portammo gli animali al pascolo, arrivati in aperta campagna scorgemmo uno straccio bianco uscire da una siepe. Ci avvicinammo e trovammo il padrone con la moglie ed i tre figli Avevano passato la notte lì, infreddoliti, affamati e terrorizzati. Quando ci vide e ci riconobbe, cominciò a benedire la sorte per averci ritrovati.

Noi gli chiedemmo che cosa dovevamo fare.

«Portateci da mangiare» ci rispose e ci indicò un luogo in cui aveva nascosto dei viveri.

Poi ci consigliò di andare sulla statale per osservare la situazione, poichè non sembrava esserci movimento, ci informò che sarebbe partito verso una località in cui aveva dei conoscenti: ricordo che si chiamava Oberbrobriz. Alla sera, tornati alla fattoria, trovammo le famiglie dei polacchi: anche loro erano tornate dopo essersi allontanate un po’di tempo. Qualche giorno dopo, verso la fine di maggio, ci recammo a trovare il padrone. Ormai le parti si erano invertite, chi esibiva la piastrina di prigioniero poteva circolare liberamente dove voleva.

 

AL  PROSSIMO  CAPITOLO