LA MIA GUERRA    (Capitolo 12)

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Alla ricerca degli americani       

A questo punto, decisi di dirigermi di nuovo alla ricerca degli americani e raggiunsi un campo in cui si concentravano tutti i prigionieri occidentali. Gli americani, però, portavano via inglesi, belgi, francesi, ma non italiani. Forse noi non eravamo considerati veri e propri prigionieri di guerra, tant’è vero che i russi ci incolonnarono e cominciammo dirigerci verso est. Ci portavano di nuovo al lavoro, così, alla prima fermata scappai e ritornai alla fattoria. Dopo venni a sapere che gli altri erano stati portati a costruire un ponte sul Danubio. Giunto alla fattoria, fui subito informato che le ragazze polacche più grandi avevano resistito alle violenze dei soldati russi, mentre la più piccola era morta dissanguata.

Era ancora una bambina!

Il periodo dei soprusi da parte dei russi durò, come ho detto, circa un mese, dopo il quale anche il padrone tornò e si ricominciò a lavorare. Seminammo frumento, segale, patate, tutto come prima. In luglio, il mio compagno di Pordenone, quello abruzzese e quello comasco decisero di partire e di raggiungere il punto di raccolta dei prigionieri occidentali, che si trovava nei pressi di Norimberga.

Diego Rigamonti nativo di Luino ed io, decidemmo, invece, di restare. Sempre in luglio, in una stazione vicina passò una tradotta con duecento italiani che rimpatriavano per premio: avevano contribuito a disfare e portare in Russia fabbriche e tutto quanto altro potevano, dalla città di Frankfurt sull’Oder. Tra di essi ebbi la fortuna di trovare tre compaesani, Luigi “Testor”, Umberto Barnaba e Cornelio Aita, del borgo Saletti che mi dissero:

«Vieni con noi».

Mi recai subito dal Commissario russo che parlava italiano, ma non ci fu nulla da fare. Allora pregai i tre di andare, appena fossero arrivati a casa, a riferire alla mia famiglia che mi avevano visto e che stavo bene.

A settembre, avevamo appena fatto il raccolto dei cereali e delle patate quando il mio padrone fu espropriato di ogni suo avere. Un cartellone enorme, scritto in tedesco, riportava a frase: “Il latifondo passa ai contadini”. Il buon uomo con venti marchi, una valigetta con quattro stracci, la moglie, i figli ed un carrettino dovette abbandonare tutto. Un giorno arrivò un fiduciario comunista del governo provvisorio della Germania cosiddetta “democratica". Lo conoscevo perché era del paese. Mi chiamò e mi chiese di restare con lui perché non sapeva come fare a mandare avanti la baracca. Sua moglie cucinava per noi e noi, in quella casa, eravamo come padroni. Con lui cominciammo a studiare il modo di rimpatriare.

Per fare le carte e mettere i timbri necessari al rientro, pensammo di recarci a Dresda, dal Commissario politico. Una mattina, con il treno, percorremmo i circa quaranta km che separavano il nostro paese dalla città, ci siamo fermati alla stazione, o meglio in mezzo a quello che rimaneva della stazione.

Lo spettacolo era allucinante, la città era stata praticamente arsa e rasa al suolo. I russi, che avevano aperto una strada fra le macerie usando delle autobotti, innaffiavano i resti con disinfettante. Ogni tanto si vedeva uscire, da sotto le macerie dove uno scantinato aveva resistito, qualche persona.

Dopo aver girato per un pò rientrammo alla fattoria senza aver concluso nulla. Nel nostro girovagare arrivammo perfino nei pressi di Berlino. Bisognava comunque stare molto attenti ed avere sempre a portata di mano i documenti di riconoscimento. Spesso ai bordi della strada dove c’era stato qualche scontro a fuoco,si trovavano delle sepolture, si capiva subito se il morto era tedesco o russo perchè, mentre uno aveva come segno una croce, l’altro aveva una stella rossa.

Nonostante la guerra fosse ormai finita da varie settimane, per diverso tempo bande di S.S. nascoste nei boschi, continuarono la lotta facendo delle sortite nei paesi dove si erano stabilite delle formazioni russe.  

Partimmo per tornare a casa il 4 novembre ‘45, con un pacco di scartoffie scritte in quattro lingue. Girovagammo per dodici giorni, mandati, come si suol dire, da Erode a Pilato, spaventati dall’ipotesi di essere di nuovo trattenuti nei campi di lavoro.

Il 12 o 13 novembre giungemmo a Hoof, vicino a Norimberga, che era il posto di confine tra russi e alleati. Destino volle che nella stazione di questa cittadina si trovasse un treno di italiani che tornavano dalla Russia. Questi poveri diavoli stavano viaggiando da un mese. Erano così malconci che nel vederli ci venne un groppo alla gola: anche noi avevamo subito maltrattamenti e tutto ciò che la prigionia comporta, ma non eravamo mai stati in quelle condizioni!

A Hoof ci recammo dal Commissario politico, gli spiegammo che intendevamo unirci a quella comitiva per tornare in Italia. Ci rispose:

«Andate dagli americani, adesso sono loro che hanno il comando». Ancora una volta la fortuna fu dalla nostra parte; il Capo degli americani era in realtà di origine italiana e, senza fare obiezioni, ci disse:

«Salite».

 

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