LA MIA GUERRA     (Capitolo 4)

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Verso il “campo” 

A Innsbruck si formarono le tradotte. Eravamo in cinquanta, sessanta per vagone. Dopo averci assegnato la solita pagnotta da dividere, cominciammo il viaggio. Ci fermavano una volta al giorno in aperta campagna, ci facevano scendere sotto il tiro dei mitragliatori e ci davano una scodella di acqua calda che loro chiamavano tè. Si procedeva verso est, perché si vedeva sempre spuntare il sole dalla parte dove il convoglio aveva inizio. Dopo circa otto giorni, ci fermammo in una stazioncina situata nel mezzo di una meravigliosa pianura, immensa e verde: eravamo giunti nella Prussia orientale.

Inquadrati per cinque a suon di calci negli stinchi e di colpi alle costole sferrati con i fucili, sentivamo ripetere:

«Funf, funf», ma pochi capivano cosa volesse dire. Dopo circa due chilometri a piedi, raggiungemmo il campo di concentramento, che si trovava nella zona delle sabbie mobili dei Laghi Mazuriani. L’ingresso poggiava su palafitte: lì non c’era davvero pericolo che qualcuno scappasse. Appena arrivati ci inquadrarono nel mezzo di un grande piazzale, un Tenente italiano ci comunicò che Mussolini era stato liberato. Dopo una lunga predica, ci invitò a riscattare la vergogna dei nostri Governanti continuando la lotta a fianco dei tedeschi.

«Chi vuol riprendere le armi a fianco dei camerati tedeschi, faccia un passo avanti» disse. Nessuno si mosse. Allora si aprirono i portoni del “campo” con il loro filo spinato e noi fummo cacciati dentro. Era il 21 settembre del ‘43.

Ci davano da mangiare una volta al giorno la solita minestra di bietole con la solita pagnotta di segale di due chili, da dividere in dieci parti. Così, per affrontare gli stenti, si erano formati gruppi ben organizzati. Noi, ad esempio, avevamo costruito una piccola bilancia per dividere il pane in bocconi uguali; poi, per evitare qualsiasi parzialità, assegnavamo a noi stessi un numero mentre un compagno, di spalle, diceva:

«Questo pezzo al numero cinque, questo al numero due..» e così via.

A turno, poi, mangiavamo le briciole che rimanevano sull’asse.

 

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