LA MIA GUERRA (Capitolo 6)
Da panettiere a contadino Rimanemmo in quel luogo per due giorni, poi fummo spostati di circa cinquanta chilometri in una fabbrica nella quale lavoravano altri italiani. Vi si costruivano pezzi per motori di aerei ed io fui impiegato a produrre spinotti per pompe ad olio. Qualche tempo dopo fui informato che un panettiere del paese vicino aveva fatto richiesta di un aiuto, così il giorno dopo fui mandato a far pane. Il padrone si accorse subito che non ero del mestiere ma, per la buona volontà che dimostravo e la collaborazione che gli offrivo in tutte le altre faccende, decise di tenermi con sé, mi offrì perfino una camera dove potevo dormire da solo. Cominciai ad inviare e ricevere notizie da casa, usando delle cartoline in franchigia, con risposta pagata, che spettavano ai prigionieri di guerra. Venni così a sapere che a mia sorella Rosina era stata amputata una gamba. Era metà novembre e le cose andarono avanti così fino a Natale quando, visto il lavoro che svolgevo, fui sottoposto a visita sanitaria, con tanto di radiografie, da parte di alcuni medici francesi, prigionieri anche loro. «Sei ammalato di febbre malarica perniciosa» mi dissero. E fui ricoverato in ospedale insieme ad altri sette od otto compagni. In realtà io mi sentivo benissimo, non avevo sintomi o disturbi di alcun genere. Tuttavia rimasi in ospedale fino a tutto febbraio, nell’ozio più completo. Solo dopo la fine della guerra sono venuto a sapere che c’era stato uno scambio di lastre. Le radiografie attribuite a me, appartenevano a un povero soldato proveniente dalla Grecia, morto nel campo senza poter mai essere ricoverato e curato in ospedale. Agli ultimi di febbraio venne formato un gruppo di dieci uomini destinato a lavorare presso un contadino, in Sassonia. (Foto 2 - 7 - 8 - 9 - 10) Viaggiammo mezza giornata sotto la scorta di una guardia. Avevo con me quattro stracci puliti che i tedeschi ci avevano lasciato dopo averci tolto tutto. Giungemmo così nel cortile di una grande casa colonica dove trovammo ad attenderci il padrone. La guardia mi additò dicendogli: «Questo si arrangia col tedesco». In realtà conoscevo poche parole per averle imparate da ragazzo, altre le avevo apprese con l’aiuto di un libretto che le Opere Pontificie ci avevano fatto avere in prigionia. |