LA MIA GUERRA    (Capitolo 8)

Ritorna a  " LA  MIA  GUERRA"

 

 

Vita insieme nella fattoria 

Il padrone della fattoria, che aveva quarantacinque anni, era stato in Italia prima della guerra ed aveva simpatia per noi, ci trattava bene. Pur essendo un nazista convinto, a volte si confidava con me, che biascicavo un po’ di tedesco, e mi diceva:

«Gallina, quando finisce la guerra voglio tornare in Italia».

La moglie aveva trentasei anni ed il primo figlio dieci. Aveva anche due bambine, una di sette ed una di cinque anni. In casa lavoravano due domestiche, cui si aggiungeva, quasi ogni mese, una studentessa diversa. Ogni studente tedesco, infatti, qualsiasi fosse il suo indirizzo di studio, doveva fare un anno di lavoro in campagna. Era naturale che con questi giovani ci si trovasse bene, visto che avevano all’incirca la nostra stessa età. Lavoravano nella fattoria anche tre famiglie di polacchi, che non erano prigionieri e di conseguenza prendevano la paga, a differenza di noi che avevamo come compenso delle monete simboliche. Purtroppo non riesco più a trovare queste monete, che oggi sarebbero una rarità. Portavano scritto: “Buono di marchi uno, due, etc.” sopra era disegnato un triangolo, sui vertici del quale erano stampate le lettere K.G.F. che stavano a significare “prigioniero di guerra”.

La nostra paga era di un marco al giorno e ci veniva data a fine mese. Le cartamonete le potevamo spendere solo negli spacci destinati ai prigionieri di guerra, anche se noi, “internati militari italiani”, tali non eravamo. Infatti, ad l’eccezione dei graduati, eravamo obbligati a lavorare, cosa che non facevano i  prigionieri alleati.

Ogni mese, ricevuta la paga, incaricavamo la guardia di far acquisti per noi allo spaccio: in genere ordinavamo sigarette, unica cosa reperibile in abbondanza. Si potevano acquistare anche vestiti di seconda mano, appartenuti a militari alleati. Ricordo che il padrone della fattoria ci chiese una volta di poter usare i nostri soldi per  acquistare allo “spaccio prigionieri” dello zucchero, diventato ormai irreperibile. Gli consegnammo volentieri tutti i soldi dei quali non sapevamo praticamente che cosa fare, soprattutto perchè ci trattava come componenti della sua famiglia.

A Natale del ‘44 tutti i militari italiani che lavoravano nel paese, una ventina circa, vennero portati nella nostra fattoria, dove ci venne consegnato un pacco offerto dall’Opera Pontificia: conteneva una scatoletta di latte condensato ed un pacchetto di biscotti.

Sono venuto a conoscere dell’esistenza di prigionieri politici solo a guerra finita pur avendone incontrati parecchi. Portavano il classico pigiama a strisce, ma era diverso dai soliti perchè queste erano di un colore più scuro.

Quando in certi casi entravamo in contatto con loro, la guardia ci vietava tassativamente di parlare o di rispondere a qualsiasi domanda.

Entrammo anche in contatto con altri “internati”, non saprei come chiamarli diversamente,  portavano una striscia sulla giacca con su scritto: “Ostarbeite” (lavoratore dell’est) e vivevano in baracche discrete. Erano praticamente liberi cittadini, costretti, però, dal lavoro coatto a rimanere lontano dalle loro famiglie, non potevano, infatti, uscire dal distretto che era stato loro assegnato. 

Noi non avevamo ormai nessuna notizia sull’andamento del conflitto. In principio, infatti, il padrone ci aveva lasciato a disposizione una radio, ma durante un’ispezione fu rimproverato duramente e la radio ci fu tolta. Egli allora aveva tirato un filo da casa sua e vi aveva collegato un altoparlante, in modo che potessimo sentire musica, ma nient'altro. Le ispezioni erano fatte da ufficiali, per lo più feriti al fronte, che alla fine partivano con il loro bel sacco pieno di viveri. Io avevo il compito di accompagnarli alla stazione col carretto. Naturalmente andavo vestito con la divisa militare, che portava sul ginocchio sinistro e sulla schiena il solito triangolo con la scritta K. G. F.

 Il mio padrone, brav’uomo che aveva di me stima e considerazione, non mi trattava da prigioniero: ogni sabato mattina mi portava con sé in città, per lo più a portare uova e pollame in una clinica e mi presentava agli altri sempre come l’”italiano”, mai il “prigioniero” o altro che facesse riferimento alla mia condizione.

D’inverno, quando c’erano delle belle giornate, approfittavamo per andare a tagliare legna in piccoli boschetti che facevano parte della fattoria. Ci eravamo accorti che una lepre aveva scavato la tana in uno di questi boschetti, così un giorno ci mettemmo d’accordo per catturarla. Avanzammo a semicerchio verso la buca, l’avevamo praticamente circondata, quando l’animale, con un balzo, ci lasciò con un palmo di naso.

Un prigioniero polacco, invece, metteva di nascosto delle trappole nel terreno; quando si accorse il padrone andò su tutte le furie tanto da spiarlo quando si allontanava dalla fattoria. Egli curava e amava la selvaggina della sua proprietà, d’inverno, se cadeva molta neve ci faceva tenere aperte le porte delle stalle perchè i caprioli potessero trovarvi riparo e foraggio. Ci mandava spesso anche a portare sale rosso e fieno sotto apposite tettoie costruite in mezzo ai boschetti.

I giorni 12 e 13 febbraio centinaia di aerei bombardarono e rasero al suolo la città di Dresda che si trovava a circa quaranta chilometri dalla nostra fattoria, i giorni seguenti giunsero al nostro paese circa tremila sopravvissuti che andarono ad occupare scuole ed ogni altro luogo  disponibile.

Dopo il mese di marzo del ‘45, diversi aerei ricognitori e caccia di scorta ai bombardieri, avevano preso l’abitudine, al rientro dalle incursioni, di scendere in picchiata sulle campagne a mitragliare chiunque  si trovasse lì per il lavoro dei campi.

I contadini erano così esasperati da questo fatto, che, quando la contraerea tedesca abbatteva un aereo, i piloti, se si erano salvati con il paracadute, non sopravvivevano agli uomini armati di pale e forche.

Mi capitò un giorno di vedere in cielo, non molto distante dalla fattoria, aprirsi quattro paracadute e scendere lentamente al suolo dopo che l’aereo era stato colpito. Il giorno dopo abbiamo conosciuto il destino a cui erano andati incontro i piloti una volta arrivati a terra, le voci correvano velocemente in certi casi ..... .

Fra i soldati, invece, le regole di guerra venivano rispettate, potei constatarlo un mattino, quando arrivarono alla fattoria dei militari tedeschi con due piloti prigionieri atterrati lì vicino. I militari facevano parte di un reparto contraereo, che da alcuni giorni aveva trovato ospitalità alla fattoria. Erano armati di due potenti pezzi contraerei da 88 millimetri, che sparavano a ripetizione.

Appena i piloti giunsero alla fattoria, la moglie del nostro padrone andò in escandescenze ed incominciò a gridare rivolgendosi ai soldati:

«Uccideteli, uccideteli».

Noi che da lontano assistevamo alla scena commentammo:

 «Ora li uccidono.....»,invece non venne loro torta un’unghia.

In questi due mesi, marzo e aprile, andavamo nei campi alle tre del mattino in modo da poterci ritirare al primo sopraggiungere degli aerei.

Sul terreno ogni giorno trovavamo centinaia di volantini lasciati cadere dall’alto, qualcuno lo avevo messo da parte, riportavano una cartina geografica che segnava il punto raggiunto dall’avanzata alleata, con sopra scritto in tedesco: “Quanto ancora?”                  

 

AL  PROSSIMO  CAPITOLO