| RITORNA AL TESTO | Capitolo 1 | PROSSIMO | 
| L’INCUB Avevo tentato di dimenticare. L’incubo tornava solo nei sogni, sempre più raramente,  ma sempre uguale, ripetitivo, ossessivo. In fila per cinque, nel Kommando di cinquanta uomini  “pezzi” scortato dalle guardie e dal Kapò ci avviavamo attraverso  l’immenso portone del K.Z. di Dachau verso la libertà teutonica. «Arbeit macht frei». Il lavoro rende liberi. Ero tornato, non sapevo spiegarmi il perché, mi trovavo  come allora con la “strasse” ben  rasata sulla testa, vestito di stracci zebrati, vuoto lo stomaco e la  mente, Cristo verso il Getzemani, con il corpo piagato, fatto cibo per  pidocchi, febbricitante, con i piedi sanguinanti negli zoccoli  sforacchiati, le pezze da piedi luride, inzuppate di pus e  di fango, le mani incrostate di calli purulenti, con le dita rattrappite  che stringono il “műtze”. Pronti all’ordine: «mützen auf!» Giù il cappello. I volti protesi a destra, ben allineati,  per il saluto ad un nuovo dio l’SS. «Ein, zwei, drei, link, zwei, drei...» Uno, due, tre, sinistra, due, tre... Strano rumore di zoccoli sul selciato. Il grande portone è attraversato! «Mützen ah, los, los, schnell» - avanti su il cappello, correre, correre, svelti... Correre poche centinaia di metri e poi un balzo nei vagoni  bestiame, venticinque uomini-vermi per lato, le porte aperte, protette  da quattro guardie di scorta, nel centro l’imperatore, il Kapò. Il treno parte sbuffando, sferragliare di binari  sconnessi, di vagoni traballanti, squarciati dalle raffiche degli aerei  americani. I vermi ammassati, squassati, immobili. I mitra puntati. Il Kapò dalla faccia feroce, triangolo nero, ergastolano  omicida, sovrasta. Il treno corre in mezzo a campi arati, verde, pinete... Monaco! Il lager è lontano. Siamo arrivati, le guardie sono a terra, il Kapò grida,  colpisce con il nerbo di bue, con calci, insulti in una babele di  lingue. «Los. Los.». A  terra. Il groviglio si snoda. Suono di zoccoli rotti, di gamelle che si urtano, tanfo di  corpi in disfacimento, di abiti puzzolenti. Spinte, gomitate, ruzzoloni, parolacce, bestemmie,  scheletri in frenetico movimento sul fango ghiacciato, nella nebbia  densa del mattino invernale d’un cielo senza sole, in un paese di  pazzi. Il gruppo si è nuovamente formato, per cinque - destra -  sinistra, avanti, «los, los!» Si conta, si riconta, il numero risulta. Cinquanta «stücks»  - cinquanta sacchi di merda. Anche gli altri vagoni vuotano il loro carico di umanità  schiava, pezzente, sofferente. Si riformano i «Kommandos». Migliaia di numeri, si avviano alloro posto di lavoro,  formiche veloci, marionette ciondolanti, gambe in frenetico movimento,  ciabattare, urla disumane, staffilate, calci, pugni, parolacce sconce  incomprensibili. Centinaia di fucili puntati. Volano pale, forche, picconi speciali per ferrovia, grandi  strane pinze, giraviti giganti a T, casse di viti e di placche  d’acciaio. Spinto dalla motrice, arriva un vagone carico di terra e  detriti. Vengono riempiti, colmati, grossi crateri scavati dalle  bombe, si scaricano vagoni e vagoni di macerie, mattoni, sassi. Rulli trainati da strani animali bipedi, livellano e  premono i resti delle case teutoniche. Le immense buche sono riempite, appianate, spianate.  Poi vengono allineate centinaia di traversine  equidistanti, scorrono lunghe sbarre d’acciaio, portate, fatte  scivolare da centinaia di esseri striscianti. I binari come d’incanto avanzano, mentre si scaricano  cumuli di pietrame. I picconi battono le pietre sotto le traverse lignee  e girandole di uomini avvitano le lunghe ganasce sulle traversine. Intanto la razza eletta, urge, stimola, colpisce i «pezzi»  schiavi morituri. Ma come era possibile questo? Come  potevo trovarmi ancora a Dachau? Ero  tornato libero, nella realtà un giorno di aprile, altri soldati armati  mi avevano ridato la dignità di uomo, ridato un nome, una patria, un  abito decente, mi avevano curato le piaghe, sanato il corpo, dato cibo e  non brodaglia, lasciato, come un tempo, camminare nel sole, tra i  fiori ed il verde degli alberi, senza scorta. Ma no!  Battevo ancora, con il pesante piccone, le pietre aguzze. Dovevo  tenere la testa eretta per non cadere esausto, sentivo ancora le  sataniche urla dei neri mostri, lo staffile sibilare nel freddo mattino,  il rumore di ferraglia, il cigolio dei rulli, il battere aritmico di  cento e cento pale, di centinaia striduli laceranti suoni assordanti... Più  lontano appare la visione apocalittica di un inferno di vivi che  costruiscono piramidi in un assolato deserto, nei millenni immobili nel  tempo. Attimi di  storia sperduti nell’infinito. Rimango  solo, circondato dalle guardie e dal Kapò. La  ferrovia si è fatta strada, il deserto una delle mille città abitate. Il  grigiore assurdo di un inverno da incubi si trasforma in nitido  albeggiare. Il  fragore assordante in rumore e suono di un giorno qualunque tra uomini  in una vita civile. Vengo  circondato, le guardie si avvicinano, il Kapò incombe, ma le facce non  sono più quelle del K.Z. Non portano divise, gli abiti sono normali,  quelli indossati da un qualsiasi cittadino. No! Io  non sono più nel campo. Dachau è  lontana! Sono  circondato da quelle persone che comunemente vengono chiamate autorità. L’incubo è cessato? |