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|  MILITARE  AUTIERE “Per odine del Re e della patria”. Così diceva la cartolina militare di precetto. Mi presentai, nella caserma del XI° reggimento motorizzato dell’Autocentro di Udine, che si trovava in via Sant’Osvaldo. Era stato a casa con il mio compagno d'armi, Rino Santi, per portare gli abiti civili smessi. Al ritorno, in bicicletta, ci capitò un accidente molto frequente in quei tempi, lo scoppio di un pneumatico della ruota anteriore. Il Tenente di guardia, all'entrata, fece rapporto. Eravamo entrati con 10 minuti di ritardo, contravvenendo al regolamento. Alcuni giorni dopo fummo convocati in fureria dal Capitano. Entrò prima il mio compaesano Rino. Spiegò l'accaduto, ma il Capitano non ascoltò neppure, lo fece uscire dall'Ufficio non prima però di avergli comminato una punizione di dieci giorni senza libera uscita serale. Venne il mio turno, entrai con timore, sembravo un pulcino bagnato, un cagnolino con la coda tra le gambe. “Temere l'autorità” mi era stato insegnato in seminario. In tali frangenti mi si bloccava la lingua. Il Capitano mi  guardò di sfuggita, vide una recluta impappinata. «Parla» mi ordinò.  Non riuscii a sbloccare la lingua. Mi uscì: «si....si è ro...ro...ro...tta  la bi...bi...bi...ci...cletta». Il Capitano perse la pazienza, mi si  avvicinò e mi allungò un calcione nel sedere. Mi  indicò la porta senza parlare. Trovai nel cortile il mio compagno, che  aveva visto e ascoltato tutto dall'esterno e protestò. «Perché a te  solo un calcio e a me 10 giorni di punizione?»   «Bisogna saper parlare» risposi. Non ero mica stato per niente  in Seminario. Avevo imparato a marciare, a fare il saluto ai superiori,  a fare la ginnastica regolare, i giri di pista nel tempo regolamentare.  Non riuscivo a fare nel tempo prescritto il percorso di  guerra: salire sui pali, saltare siepi e fossi, passare sotto il filo  spinato come la pantera, salire sulla pertica, balzare da appiglio ad  appiglio, salire la scala, scendere per la corda annodata, superare muri  ed altro; ma stentavo a salire sul muro più alto. Non mi riusciva il  balzo felino e la presa sulla sommità. Mi dirozzarono, snellirono mi  fecero il “culo”. Alla fine  ero  un soldato. Dovevo imparare la guida. Mi consegnarono ad un Sergente  autista. Era di Forni Avoltri in Carnia. Un giorno mentre guidavo, gridò:  «In seconda, volta a destra». E mi trovai in un cimitero. Avevo  saltato lo smaltitoio (cunète) della strada e sfondata la porta a  destra del camposanto. «Bravo  -  disse - chi fa un capolavoro simile, merita la patente» e «Farai  strada, perché in simili circostanze è meglio entrare ed uscire vivi».  Ordinò: «Marcia indietro» è tutto finì in osteria. Uscii però con  il portafoglio vuoto. Avevo capito l'ultima spiegazione. Non si può  andare a destra se non c'è la strada. E divenni autista. Fui inviato  con gli autieri freschi di patente presso l'8° Regg. Alpino Battaglione  Cividale. «Se siete capaci di guidare una carretta militare, che supera  i quaranta chilometri orari, sapete anche guidare un mulo che raggiunge  cinque orari» ci disse il Capitano degli Alpini. Ma  prima di entrare con le truppe alpine, ci congedarono e ci fecero  passare un periodo in famiglia. Dopo qualche mese, arrivò la cartolina  precetto. Dovevo presentarmi al Distretto Militare di Udine.   In Distretto ci fornirono di documenti, di biglietti ferroviari,  ci diedero il rancio e via in stazione ferroviaria. Con  il treno, in terza classe, arrivammo a Cividale. Entrammo in caserma.   E avvenne la nuova vestizione. Dopo una notte insonne ricaricati  su “carri bestiame - cavalli 8 - uomini 40” arrivammo a Tarcento e  fummo trasferiti nelle caserme di Collerumiz, sul Torre. Qui trovammo i  “veci” che ci fecero fare i salti di prammatica ed i saluti a  ripetizione fino a sera. Erano  “i veci”, residui di battaglioni decimati sui diversi fronti di  guerra. E di nuovo ginnastica, corse nelle strade e quanto disposto dai  sergenti istruttori. Ci consegnarono il moschetto 91/38. «Dovete  imparare a memoria la matricola» disse il sergente. «Da oggi questo è  vostro padre, vostra moglie, il vostro amico, il vostro angelo custode»  continuò l’istruttore. Lo ridusse in pezzi, lo rimontò. Ci disse che  dovevamo imparare il nome di ogni singolo pezzo. Smontarlo e rimontarlo  in meno di un minuto. Più tardi con gli occhi bendati. «Dovete pulirlo  fino a farlo brillare. Oliarlo in modo tale che i pezzi devono scorrere  come pelle di cazzo». Passai  con facilità l’esame fattomi dai “nonni” sul grande piazzale  delle parate. Potevo  portare una piuma più lunga d’aquila e mi fu permesso di foggiare il  cappello come gli anziani e non a tubo come le “burbe”. La vita  dell’alpino differiva da quella di autiere. Il vitto era peggiore, la  pastasciutta era colla frammista a carne macinata e conserva di  pomodoro. C’era qualche patata intera vagante nella brodaglia della  sera. «Il secondo» diceva il cuoco «è compreso nel primo. E il primo  nel secondo». «Basta saperlo assaporare, si sente anche il profumo di vacca vergine nel brodo» diceva. «Il quartino di vino era annacquato perché i giovani non dovevano prendere cattive abitudini e poi l’alcool serviva come disinfettante negli Ospedali Militari» ripeteva. Eravamo quasi tutti dei paesi vicini e andavamo ogni tanto a mangiare a casa. Qui non c’erano i percorsi di guerra. Ogni settimana c’era la marcia in montagna, sui monti dietro le caserme. Si partiva la mattina presto e si tornava la sera. Pranzo al sacco. Stanchi, sudati con le vesciche nei piedi. Zaino, piccozza ed i canti alpini. Infuriava la guerra, ma a Tarcento, si sentiva solo il rumore dei bombardieri che passavano e le bombe che scoppiavano a Udine o nei magazzini militari, o in stazione o sulle carceri o dove c’erano obiettivi militari. Piano, piano diventavamo esperti in armi e ci sentivamo pronti a difendere le nostre case, la famiglia e la patria in pericolo. Divenni istruttore di reclute, anche se il tenente diceva che dovevo dire “alt” e non “a-a-alt”. |