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| RIBELLI Alle  splendide vittorie della guerra lampo, con l’entrata nel conflitto  degli USA e con la notte dell’8 settembre abbiamo fatto come il Re,  siamo scappati dalla caserma. Con un mio paesano: Enore Castellani, ci  siamo trovati nel mezzo di una folla. Centinaia di persone, militari di  ogni corpo, uscivano dai campi di granoturco, dalle strade di campagna,  dai boschi, con muli alla cavezza, carichi di armi, vestiti e zaini. Altri  con carretti pieni di indumenti e generi alimentari ed armi passavano  per le vie e viottoli e sparivano alla vista. Qualcuno sparava in aria col mitragliatore, come nelle feste paesane con i mortaretti. Ci siamo uniti ai fuggiaschi dirigendoci verso casa. Abbiamo attraversato la linea ferroviaria, pancia a terra, fucile puntato, perché nelle vicinanze c’erano militari tedeschi a protezione della strada ferrata.  Continuammo la fuga, tra i campi, i dirupi, la boscaglia ed i  filari di viti, seguiti da ombre silenziose. Finalmente siamo arrivati  sulle alture prospicienti il nostro paese. Tutto era regolare, in pace.  Si udiva solo abbaiare i cani, il muggire nelle stalle, il vento leggero  sperdersi tra i rami del bosco, il battito cadenzato provenire dai  campanili che segnavano le ore alle persone insonni in attesa di persone  care e di tempi migliori. Entrammo nelle nostre case, dopo aver nascosto lo zaino ed il fucile ed il cappello pennato. Il mio letto mi accolse e riposai senza affanni. Domani sarebbe stato un altro giorno. Ricevetti di nuovo la cartolina precetto. Non mi presentai, mi detti alla macchia. Non era possibile rimanere neutrali. Bisognava scegliere. «O di qua o di là».   Nei primi mesi, di giorno si era di qua, nelle notti di là.   C’erano tante cose da fare. Con alcuni compagni prelevammo armi  abbandonate, preparammo rifugi, contattammo persone fidate, passammo  nelle case dei contadini per l’acquisto di derrate alimentari, nelle  latterie per prelevare parte dei formaggi e burro, nei tabacchini per il  ritiro del 10 per cento dei tabacchi. Era necessario quindi procedere  al trasporto in montagna di quanto raccolto, con urgenza, del materiale  e del vitto, alle sedi dei partigiani.  Venivano anche trafugate nei municipi le carte d’identità in bianco, per fornire di documenti di identificazione le persone che ne erano prive. Si chiedeva gentilmente, con la pistola puntata, ai carabinieri di Tricesimo e Buia le armi di ordinanza. Erano ricercate le pistole ed i mitra. Più tardi dai magazzini venivano prelevate scarpe, abiti, liquori, alimentari e quanto necessario per persone, bisognose di tutto.  Venivano consegnati buoni di avvenuto  prelevamento per il pagamento in tempi brevi. Nei primi tempi questo  avveniva di notte e poi anche durante il giorno. Figuravo come  lavoratore della Todt nel costruendo campo di aviazione di Osoppo. Mi  recavo al lavoro due, alle volte tre giorni la settimana. Gli altri  giorni, come da accordi con il capo operaio dell’impresa, figuravo  presente. Il cartellino della Todt mi serviva quale dispensa dal  servizio militare per necessità civili.  Nel  nostro fienile, avevamo una stanza adibita a camera, allora era  disabitata, c’erano due letti e due armadi.   In detta camera si stabilì, con il nostro consenso, un tenente  dell’esercito sbandato nel settembre 1943. Ci aveva detto che la sua  famiglia stava al di là della linea del fronte e che stava formando un  nucleo di giovani per la montagna. Lo vedevamo solo la notte, durante il  giorno non sapevamo dove si recasse e cosa facesse. Girava sempre  armato, si faceva chiamare “Salvatore”. Un giorno mi disse che aveva  formato un nucleo di 10 o 12 giovani e che in breve sarebbero saliti in  una malga sui monti oltre Faedis. Aveva conosciuto anche uno spazzacamino che conosceva tutti in quei paesi perché si recava in tutte le case per pulire i camini. Un certo Roberto Anzil detto “Berto”. Abitava a pochi isolati di distanza e veniva spesso a casa nostra. Berto bazzicava con i “banditi” e con i tedeschi e forse aveva la lingua troppo lunga. Non ho visto più “Salvatore”. Mi dissero che fu trovato impiccato ad un albero nella campagna di Nimis, con il solito cartello sul petto: “Bandit”. Pochi giorni dopo fu sepolto poco lontano nei campi “Berto, lo spazzacamino”. Sulla fossa non c’era scritto niente. In tale maniera i partigiani giustiziavano le spie. Era il mese di dicembre del 1943. |