BUCHENWALDT - Capitolo 2
Destinazione ignota La certezza che il futuro sarebbe stato oscurato da nubi fosche mi venne alla stazione di Udine quando vennero fatti salire altri prigionieri provenienti dalle carceri della città. I volti dei parenti venuti a salutare e i frammenti di quelle poche frasi che riuscii a percepire non mi lasciarono dubbi: Quei miei nuovi compagni erano tutti partigiani e, come tali, passibili della pena capitale. Era notte quando il treno si mosse. Per una specie di misteriosa premonizione avevamo tutti la certezza che l’ignota destinazione era al di là delle Alpi. Stipati nel vagone senza luce, molti vi si erano accasciati per cui qualsiasi movimento doveva essere fatto con estrema cautela al fine di non incespicare in quel groviglio di corpi. In un angolo cinque o sei giovani stavano confabulando ma non potetti distinguerne le parole. Avrei immaginato poco dopo quali considerazioni e quali discorsi stessero facendo. Mentre il convoglio acquistava velocità forzarono la griglia di protezione del finestrino e, l’un dopo l’altro, si lanciarono nel vuoto andando a rotolare sul pietrisco della scarpata. Io li vidi saltare giù, stupito dalla prontezza di quell’azione, ma senza fare alcun tentativo per seguirli. Non potevo spiegarmi il perchè di questo comportamento. Forse era il timore della scorta o di eventuali rappresaglie nei confronti della mia famiglia. Più probabilmente fu il disorientamento e l’incapacità di valutare completamente la situazione in cui mi trovavo. Incertezza, questa, che in quegli anni permeava la vita di ogni giorno; Fu comune a molti e molti pagarono dolorosamente. Quanti di quei compagni di viaggio tornarono alle loro case è impossibile dirlo. Certamente pochissimi e forse sarebbe valsa la pena rischiare il piombo della scorta armata piuttosto che affrontare quello che ci attendeva oltre la frontiera. Sarebbe stato necessario scegliere l’una o l’altra delle parti che si contendevano la legittimità del potere e non era una cosa facile. Per me, inoltre, la stessa situazione familiare era fonte di ulteriori freni e perplessità. Al mio padre, che per motivi di lavoro era vissuto per tanti anni in Baviera, non era sembrato strano riallacciare rapporti cordiali con i Tedeschi di stanza nel Paese. Questo aveva contribuito a fargli ottenere lavori dai tecnici dell’organizzazione Todt, il genio civile tedesco nelle zone di occupazione. Tale fatto non era gradito ai partigiani per cui ogni sera, il sopraggiungere dell’oscurità rappresentava un incubo per la famiglia. Non era una paura dovuta al senso di colpa poichè il nostro non poteva essere chiamato collaborazionismo nel senso spregevole della parola così come veniva adoperata per quei tempi, per cui tutti i membri della famiglia avevano la coscienza tranquilla. Ma quando, di notte, bisognava aprire il portone alle pattuglie partigiane quanta fiducia si poteva avere nel controllo e nella responsabilità dell’uso delle armi da parte di ragazzi di 16, 18 anni? Per fortuna, a parte la consegna forzata di denaro e di beni, non accadde mai nulla. Si può pensare che non sia stata solo fortuna; In qualche modo giovarono a creare rispetto e fiducia nei confronti della famiglia i buoni uffici che Papà Gildo non esitava a metterea disposizione della popolazione del Comune presso il Comandante di zona ogni volta che se ne presentava la necessità. Non si trattava sempre di cose di poco conto o di esposizioni prive di rischio. Quando sulla strada tra S. Floreano e Tomba di Buia, in pieno giorno, furono uccisi dai partigiani cinque soldati tedeschi che portavano il rancio ai loro commilitoni a Rivoli di Osoppo, la rappresaglia tedesca avrebbe dovuto colpire la popolazione nella misura di dieci a uno; atrocità non nuova per quegli anni. La strage fu tuttavia evitata: i centocinquanta civili, rastrellati nel paese e già raccolti nel cortile delle scuole comunali furono risparmiati; soltanto i giovani soggetti al servizio di leva furono trattenuti e inviati a lavorare a Villach, oltre confine. Non si può dire quali considerazioni suggerirono al comandante tedesco di adottare una simile linea di condotta. Certo le perorazioni di mio padre non dovettero esservi estranee e, anche se non determinanti, ebbero sicuramente il loro peso. In quest’equilibrio, così precario tra gli occupanti da una parte e le forze di liberazione dall’altra, la vita degli Ursella correva continui rischi. Io, sul treno, pensavo che in fondo era giusto che almeno uno di noi pagasse, per la fortuna di tutti, benché misera, subendo il trattamento riservato ai partigiani. Se questo pensiero non mi rasserenò, ebbe almeno il potere di indurmi a uno stato d’animo di dolente rassegnazione. Il convoglio procedeva ormai velocemente verso le montagne. All’altezza di Artegna, nella penombra della notte rischiarata dalla luna, vidi snodarsi, dall’altra parte della ferrovia, il distante profilo dei colli di Buia. In quel momento provai una forte emozione: là, ignari del mio passaggio e della mia destinazione, stavano i miei cari. Giungemmo a Tarvisio nella mezzanotte e il treno si fermò per poi ripartire l’indomani mattina. Soltanto quando rientrai dalla Germania seppi che in quel paese due dei miei fratelli lavoravano alle dipendenze dell’Impresa Perini, a diretto contatto con gli uffici tecnici del Comando Tedesco. Se lo avessero saputo avrebbero certamente trovato il modo di liberarmi. Ma quale ulteriore dolore sarebbe stato il non poter entrare in contatto se, nonostante i miei sforzi, non fossi riuscito ad avvertirli della mia presenza. Passò così anche Tarvisio e, nel pomeriggio del giorno successivo, a Villach, al di là del confine, potemmo per la prima volta scendere dal treno. Sotto la neve e in un baraccamento, potemmo provvedere ai bisogni corporali e trovammo conforto alla fame in un mestolo di zuppa calda. Per il resto del viaggio, durato complessivamente cinque giorni e quattro notti, ci fu dato per cibo solo quella zuppa e un rombo di pane scuro. Soltanto un’altra volta potemmo scendere dal treno. A turno e in una stazione secondaria. Dal momento che non poteva bastare, quasi a sancire quelle che sarebbero venute dopo, dovemmo subire quella prima umiliazione di arrangiarsi lì, sul vagone, per trovare sfogo, come bestie, alla prepotenza del bisogno.
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