BUCHENWALDT - Capitolo 3
Buchenwald A Salisburgo, al confine tra l’Austria e la Germania, ci fu il primo terrorizzante contatto con il mostro che stava divorando l’Europa: la guerra. La stazione era piena di convogli militari e il cielo era coperto da miriadi di fortezze volanti americane: gli spostamenti d’aria provocati dalle esplosioni scuotevano il vagone sulle rotaie come se fosse un fuscello. Fortunatamente gli americani dovevano avere un obbiettivo diverso dalla stazione. I prigionieri, tuttavia, non potevano saperlo e si trovarono così soli, miseramente esposti alla morte per mano degli alleati senza poter far altro che pregare o imprecare nel mentre tutti gli uomini della scorta e tutto il personale della stazione li aveva abbandonati per precipitarsi nei rifugi. 1119 novembre tutto ebbe termine a Buchenwaldt, un nome che non avevo mai udito prima ma che tuttavia avrebbe segnato un capitolo tale, nella mia esistenza, da non poterlo più dimenticare. Fummo fatti scendere dal treno e, incolonnanti sotto scorta, fummo accompagnati al primo di una numerosa serie di bassi fabbricati dove, assieme agli altri, venni sottoposto all’ormai consueta liturgia della compilazione dei dati anagrafici. Qui mi fu assegnato un nuovo nome, l’unico che avrei potuto usare e al quale avrei dovuto rispondere finchè fossi rimasto in quel luogo; un numero: il numero 88224. In un magazzino dovetti versare ogni avere: oggetti di valore, orologi, catenine, penne stilografiche venivano catalogate e chiuse in una busta mentre il vestiario veniva accatastato un mucchio informe. Solo pochi giorni dopo, se solo avessi avuto il tempo e la volontà, avrei potuto considerare l’ironia di quell’apparato e pensare a quante di quelle buste, se era intendimento dell’autorità restituirle, non sarebbero state più restituite. Il rituale dell’ingresso al campo proseguì in un terzo stanzone dove, completamente nudi, ci trovammo alla mercè di una decina di barbieri, che, dedicando a ciascuno non più di due minuti, ci spogliarono di ogni singolo pelo del corpo. Non c’era tempo né di stupirsi né di protestare quand’anche fosse valso a qualcosa! Più nudi di quanto potesse renderci la sola mancanza di abiti, fummo sottoposti alla doccia e incolonnati regolarmente a distanza l’uno dalla altro lungo un corridoio largo un paio di metri. Due prigionieri, che un giorno dovettero essere stati uomini come noi, ci attendevano armati di pennello e, l’uno davanti e l’altro di dietro, imbrattavano i malcapitati con disinfettante manifestando nella sincronizzazione dei movimenti una nota abilità professionale. Non per questo l’operazione fu indolore perché dava bruciore nella zona appena rasata. La fine di quella prima tortura giunse con la distribuzione del nuovo vestiario; i singoli capi: giacca, zoccoli, pantaloni e copricapo ci venivano lanciati addosso con furia da direzioni diverse. Una volta ultimata questa operazione eravamo diventati irriconoscibili anche a noi stessi. Sulla giacca cucimmo il nostro nuovo nome inscritto in un triangolo rosso che ci qualificava come prigionieri politici. Altri colori designavano le diverse categorie di detenuti. Quello nero era il più temuto perchè contrassegnava i delinquenti comuni. Imparai questo molto in fretta così come imparai moltissime altre cose indispensabili per sopravvivere in quell’ambiente. Il campo di concentramento di Bunchenwald sorgeva su un terreno collinare in lieve pendio. Era costituito da pochi fabbricati in muratura e da un’infinità di baracche in legno a piano unico. Alte reti delimitavano i baraccamenti in modo che le decine di migliaia di persone che vivevano nel campo risultassero frazionati in gruppi inferiori alle mille unità e ciascuno era ospite di quelle grottesche e immense gabbie per polli. Era il solito vecchio discorso: DIVIDE ET IMPERA! La composizione di ciascun gruppo era molto eterogenea: elementi di varie nazionalità e internati per motivi diversi avevano in comune la sola disgrazia di essere finiti a Buchenwald. Difficile in questo modo la fraternizzazione tra i diversi gruppi che erano già naturalmente divisi dalla babele della lingua. Questo rendeva impossibili le sommosse o, perlomeno, non erano tali da impensierire il comando per numero di rivoltosi. Dei compagni con cui avevo diviso il lungo viaggio dall’Italia, trovai nel mio gruppo solamente tre o quattro persone. L’alloggiamento in cui vivevamo, o meglio, in cui dormivamo era costituito da una lunga baracca di legno con due porte centrali all’estremità. Un ampio corridoio l’attraversava in tutta la sua lunghezza; sui lati, due file di cuccette disposte con il lato maggiore contro la parete, occupavano tutto lo spazio disponibile. In ciascun piano del castello erano alloggiate sette persone con una coperta a mo’ di materasso e un’altra per ripararsi dal freddo. L’esiguo spazio a disposizione costringeva le sette persone a dormire di fianco e alternate, di modo che, ciascuno aveva accanto al proprio volto i piedi del compagno. E’ facile immaginare cosa succedeva quando, quello che dormiva vicino alla parete o anche soltanto nel centro del piano, doveva alzarsi di notte per i propri bisogni o per affrontare una delle tante, infruttuose, battaglie contro i pidocchi. Fui particolarmente stupito nel non constatare, in quelle condizioni, l’insorgere e il diffondersi di malattie infettive. Attribuii questo merito alla barbara disinfestazione ricevuta all’ingresso del campo e alle iniezioni che venivano praticate ai nuovi arrivati nei primi giorni di permanenza. L’alimentazione, in quel periodo, era sufficiente anche se nessuno poteva definirsi “sazio” dopo uno di quei “pasti”. Avevamo bisogno di ogni energia per il lavoro di rimozione delle intelaiature di ferro dalle macerie di una vicina fabbrica, distrutta dai bombardamenti. Recandoci al lavoro, e ritornandone, potevamo vedere all’esterno del campo le villette per i prigionieri di riguardo dove, tra gli altri, aveva trovato la morte la principessa Mafalda di Savoia.
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