BUCHENWALDT   -   Capitolo 4

INDICE  "BUCHENWALDT"

 

Frustate e sangue

Nell’avvicendamento dei turni, la mia squadra passò dallo sgombero dei rottami al Comando-latrine che si occupava della pulizia delle cloache situate a valle del campo. Queste erano grandi vasche di decantazione alle quali affluivano i canali delle fognature che partivano dalle vasche di cemento dislocate all’esterno dei baraccamenti. Queste vasche, scoperte, di circa tre metri di larghezza e dieci di lunghezza, rappresentavano la latrina di un intero isolato. Erano delimitate da un muro di calcestruzzo, alto circa mezzo metro, la cui parte superiore era arrotondata e liscia per potercisi sedere. Una traversa di legno, all’interno, fungeva da schienale per impedire che qualche disgraziato cadesse nella vasca, cosa questa, molto meno improbabile e altrettanto meno comica di quanto si possa immaginare. Ogni mattina quella primordiale latrina registrava il “tutto esaurito” ed era davvero uno strano e triste spettacolo.

Nel primo giorno di pulizia delle cloache mi ero soffermato a scrutare il recinto del campo. Era costituito da tre ordini di alte reti, distanti circa un metro l’una dall’altra e, in quella interna, a quanto si diceva, correva l’alta tensione. Ogni cento metri si ergeva una garitta, alta sette od otto metri, che permetteva alle guardie di esercitare un controllo estremamente rigido, tale da sconsigliare qualsiasi tentativo di fuga. Eppure i Kapò, con malcelata soddisfazione, riferivano spesso che questo o quel prigioniero era rimasto carbonizzato tra le reti o freddato dai mitra nel mentre ci aveva provato.

Accanto alla infermeria di Buchenwaldt si ergeva un fabbricato di forma ottagonale con un camino ampio e basso, sul tipo di quelli che avevo avuto modo di vedere nelle fornaci di calce. Era il forno crematorio. Circolava la voce, mai confermata dato che la conferma era impossibile da parte di chi ci fosse stato, che quell’edificio ospitasse anche le camere a gas. Era un argomento, questo, che tutti preferivano evitare anche per contenere quei sentimenti di ribellione che immancabilmente conducevano a complotti senza speranza e il cui unico risultato, quando le cose andavano bene, erano le frustate a sangue.

Buchenwald funzionava come un’immensa caserma per quanto concerneva l’organizzazione. A livello gerarchico c’erano un’infinità di sottosettori, alcuni dei quali, con scopi speciali, erano situati fuori dall’area del campo. A questi venivano inviati, ed avvicendati, soltanto gli uomini adatti a sopportare i lavori pesanti.

Verso i primi di gennaio del 1945 venni assegnato al sottosettore di Vansleben, presso Lipsia. Il lavoro, qui, consisteva nello spostamento di pesanti piastre di ferro che le forti brinate notturne saldavano insieme in un unico blocco compatto. La pelle delle mani, se non protetta alla meno peggio da pezzi di carta, aderiva alle gelide piastre rischiando di restarvi attaccata. il freddo era tale che alla minima occasione i prigionieri cominciavano a saltellare agitando le braccia verso la schiena e il petto per cercare di ottenere almeno l’illusione di un po’ di calore.

Successivamente venni destinati a un lavoro più specifico, in galleria, a quattrocento metri di profondità. Lavoravamo in una vecchia miniera di sale rimessa in attività da poco tempo allo scopo di ricavare locali per le industrie belliche di Lipsia rase al suolo dai bombardamenti. Quando giunsi qualche reparto già funzionava e altri stavano per essere completati con il lavoro dei prigionieri.

A Vansleben la vita era molto più dura che a Buchenwald. L’inverno rigido e la necessità di portare a termine al più presto i lavori, e sopratutto la diminuzione della razione di viveri, tormentavano i prigionieri in modo inumano. Le giornate cominciavano con il rauco grido dei Kapò: “Aufstehn!”, Sveglia! I prigionieri non avevano neanche il tempo di infilarsi i calzoni che già il Kapò si era sfilata la cintura e la roteava nella direzione di chi indugiava. In una di queste occasioni ricevetti una botta tale in testa da restarne stordito per diverso tempo. Mi riebbi definitivamente soltanto una decina di giorni dopo. Seguiva la colazione con un mestolo di acqua color caffè e quindi l’appello. Una volta che tutti avevamo risposto “hier!”, qui presente!, al proprio numero scandito dal Kapò, venivamo accompagnati, sotto scorta, al montacarichi di discesa nella miniera. Ne risalivamo solo a sera inoltrata per ricevere qualcosa per cena e il solito rombo di pane scuro da dividere in sette persone e che sarebbe dovuto servire fino alla sera successiva.  

 

 

AL  PROSSIMO  CAPITOLO