BUCHENWALDT - Capitolo 5
Come deportati alla Cajenna A giorni alterni veniva data la sveglia in piena notte e tutti ci dovevamo ammassare in fretta nel cortile dove veniva fatto ripetutamente l’appello lasciando lunghi intervalli di silenzio. Spesso la cosa andava avanti per delle ore. Molte volte il motivo di tutto questo era l’assenza di qualcuno o il rinvenimento di rudimentali armi nelle baracche. Al mattino ci rendevamo conto di quello che era successo quando tre o quattro prigionieri venivano esibiti nella portineria della miniera con il viso gonfio e sanguinante per le percosse subite nella notte. Allora si ripeteva nell’animo di ciascuno il solito inutile interrogativo: “Perchè?”. Perchè venivano commesse simili atrocità e perchè c’era chi ne forniva il pretesto? Perchè rischiare inutilmente in tentativi senza speranza che portavano a queste e, talvolta anche a conseguenze molto più gravi? Forse la sopportazione aveva raggiunto quei limiti oltre i quali si poteva cercare, attraverso un gesto di ribellione, la fine come una liberazione. I nervi si logoravano, cedevano, andavano in pezzi perchè il trattamento inumano al quale erano sottoposti uccideva i prigionieri prima nell’anima che nel corpo. Nè gli aguzzini erano solamente i soldati tedeschi. Gli stessi prigionieri dal triangolo nero, che erano tra l’altro anche in numero molto elevato, incutevano paura sugli altri. Erano in prevalenza russi con profilo mongoloide, avevano lo sguardo freddo e facevano tutti quanti oggetto delle proprie angherie e della propria brutalità. I triangoli rossi, i politici, erano pure russi o polacchi ma anche alcuni francesi, slavi e magiari. Così trascorreva la settimana: La domenica, giorno in cui la miniera era ferma, i prigionieri venivano usati per il trasporto al campo di mattoni da una fornace distante all’incirca un chilometro. Questo spettacolo deprimente richiamò più volte alla mia mente un film che avevo visto da ragazzo sui deportati alla Cajenna. Vestiti con abiti a righe bianche e azzurre, i capelli rasati a zero salvo una striscia di riconoscimento di quattro cm sul centro della testa, le duemila persone del campo costituivano un unico anello in movimento dal campo alla fornace. Portavano quattro mattoni a testa per ogni percorso e molti si aiutavano con del filo di ferro appeso a tracolla, anche se tale artificio non era gradito alle guardie. Se scoperti, per evitare le scudisciate, si precipitavano a ridosso di quelli che li precedevano creando un ammassamento di persone simile a un gregge di pecore spaventate. Sembrava persino impossibile che tre o quattro aguzzini potessero aver ragione di un così elevato numero di persone; eppure quella era la realtà!. L’unica possibilità offerta era di conservare, anche nel dolore, la propria dignità. Tra i miei compagni di sventura ve n’era uno, un professore istriano, che suscitava ammirazione per il proprio comportamento. Il suo sembrava quel coraggio che dovevano aver dimostrato i primi Cristiani di fronte alle persecuzioni e io ne traevo stimolo per essere forte e avere fiducia, nonostante tutto. Mi sforzavo di convincermi che un giorno sarei tornato a casa e questa convinzione cercavo di comunicarla anche agli amici. Questi erano Stellio di Trieste, Sergio di Cittanova d’Istria e Renato di Padova. Con Sergio in particolare avevo creato un rapporto quasi fraterno. Poichè entrambi sapevamo usare calibri di precisione, fu assieme a lui che, interrotto il lavoro di scavo in galleria, venni destinato al controllo dei pezzi metallici di serie che venivano prodotti da torni automatici installati nel salone della meccanica. Questo lavoro ci aveva messo a contatto con tecnici civili tedeschi, generalmente anziani, che a mezzogiorno consumavano il pasto sul luogo. Per quanto assurdo possa sembrare, provavo quasi pena per loro: Avevano per pranzo una zuppa di rape abbastanza densa seguita da una carota cruda. Non navigavano, quindi nell’abbondanza, eppure quando mangiavano si formava attorno a loro un cerchio di prigionieri con lo sguardo fisso sul movimento del cucchiaio dal piatto alla bocca. Si può immaginare cosa provavano mentre mandavano giù quella roba. Non potevano fare a meno, alla fine, di lasciare qualche cucchiaiata di zuppa nel piatto da offrire a turno ai prigionieri. Anche io e Sergio beneficiavamo alternativamente della benevolenza di una di queste persone dividendoci quel povero omaggio. In quel periodo eravamo ridotti in condizioni pietose. Le necessità corporali avevano luogo non più di una volta alla settimana: Il mio peso era sceso, dai normali settanta chili, a non più di quarantacinque. Così ridotti allo spasimo dovevamo tener duro perchè sempre più insistentemente trapelavano notizie che la fine della guerra era vicina. Non era dunque quello il momento di lasciarsi andare! La mia più grande paura era quella di ammalarmi. La rudimentale infermeria del campo era in mano ai russi come ogni altro posto di responsabilità. Bisognava guarire senza bisogno di cure se si voleva evitare di morire sul posto o essere spediti chissà dove. Fu provvidenziale per me un baratto che potetti concludere con un prigioniero militare italiano che lavorava in miniera e alloggiava libero all’esterno. Ero riuscito a conservare, delle mie cose personali, un pullover con chiusura a lampo e il regolo. Cedetti all’altro il pullover e ne ebbi in cambio un sacchetto di ceci di circa un chilogrammo. Con sforzo immane razionai, insieme con Sergio, questo supplemento di alimentazione che dovevo sempre tenere nascosto. Custodire questo piccolo tesoro era una continua preoccupazione. Durante il giorno dovevo tenermelo sempre addosso mentre la notte bisognava che ponessi la massima attenzione quando mi alzavo in occasione degli appelli in cortile o per andare in qualche luogo illuminato a liberare la canottiera dai copiosi pidocchi. I pidocchi provenivano dai giacigli e assalivano l’uomo non appena si distendeva. Una volta ne misurai uno lungo quasi mezzo cm. |