BUCHENWALDT - Capitolo 6
Le briciole in sette parti Di sera, amavo conversare con i vicini, di nazionalità polacca. La conversazione si svolgeva in francese, sulla base delle poche nozioni apprese a scuola. I polacchi dimostravano una cultura superiore alla media e avevano un comportamento che denotava una grande nobiltà d’animo. La stima era reciproca, e, poichè facevamo tutti parte del gruppo dei sette che dovevano dividersi il pane, mi affidarono tale compito. Per questo scopo, mi ero costruito una rudimentale bilancia che consisteva in una lama di ferro con un anello in mezzo. Due tondini appuntiti erano agganciati all’estremità della lama. Tagliavo dalla pagnotta una prima porzione, volutamente scarsa, e la infilavo in un tondino come campione. Su questa base tagliavo le ulteriori sei porzioni dividendo, alla fine, anche le briciole in sette parti. Assieme alla zuppa e al pane, il comando passava due sigarette. Erano importantissime perchè il fumo aveva il potere di calmare i crampi della fame molto più delle razioni di vitto; Fu infatti al campo che imparai a fumare. Per quelli per cui fumare costituiva un vizio cronico, il problema di procurarsi il tabacco era ancor più drammatico che non quello di procurarsi il cibo. Alcuni di essi giungevano a cedere parte delle loro razioni per quelle due sigarette. C’erano dei prigionieri russi che, chissà dove, si procuravano dei ramoscelli di piante che, una volta essicati, avevano una certa affinità col tabacco. Li trituravano e con l’aggiunta di qualche altro ingrediente li fumavano nella pipa. Ogni tre o quattro giorni la pipa veniva a sua volta sminuzzata e ciò che ne restava veniva consumato in una nuova pipa per non sprecare nemmeno un po’ del sapore di tabacco di cui la vecchia pipa si era impregnata. Oltre che con i polacchi, mi riunivo spesso con i tre amici italiani. Era il momento più opportuno per dare sfogo alle proprie tristezze, nostalgie, rimorsi. Stelio, triestino puro, parlava sempre delle proprie scalate con gli amici in Valrosandra. Sergio ricordava la madre, vedova, della quale era l’unico figlio e l’unica ragione di vita, e che per potergli dare un’istruzione aveva lavorato come guardarobiera sulle navi di linea. E ricordava il mare di Cittanova, le gite in barca, il profumo e il sapore del pesce arrostito sullo scafo della barca, bollente per il sole. Anche Renato ricordava la casa e la famiglia, ma quasi con rimorso. Figlio unico, non riusciva a perdonarsi quella che ora gli appariva la prima di una lunga serie di colpe: Aver abbandonato la scuola per darsi alla macchia come partigiano. Era spesso preso da un insanabile sconforto e, in quei momenti, disperava di poter tornare a casa, un giorno. La parte più dolorosa e che lo tormentava più di tutto, era il pensiero di non poter più tornare per chiedere perdono alla madre. Io ero invece fiducioso nel futuro e cercavo di comunicare anche agli altri questo mio sentimento. Il mio desiderio, il mio sogno era anche il sogno e il desiderio di tutti; poter tornare a casa un giorno solo. Non per chiedere perdono ma per un desiderio indescrivibile di vedere i miei cari, di manifestare loro tutto il mio affetto, sopratutto verso mia madre per la quale, ora che ero lontano, mi sentivo profondamente debitore in affetto e riconoscenza. Si, pensavo e pensavano tutti quanti gli altri, tornare a casa un solo giorno e poi morire. Fisicamente eravamo degli esseri distrutti e il sentimento comune era di assoluta incredulità nelle possibilità di una reintegrazione in una vita normale; formarsi una famiglia. Renato, che aveva studiato medicina, ci spiegava che i tessuti si erano ristretti e avevano perso elasticità a tal punto che non avrebbero più potuto ricevere e assimilare il cibo normalmente necessario per la vita della nostra età. Partendo da simili presupposti tutti pensavamo che, anche qualora fossimo sopravvissuti, saremmo rimasti infermi per tutta la vita. E intanto sognavano pranzi e cene dalle enormi portate. Io sognai di trovarmi presso la vetrina di un fornaio intento ad ammirare le qualità di pane esposto e di esserne invitato all’interno del negozio per mangiare tutto il pane che avessi desiderato. La realtà del risveglio mi aveva fatto scuotere tristemente la testa. Non c’era speranza che un sogno del genere potesse avverarsi. Era solo il prodotto di una fame continua, atroce e quotidiana a produrre simili sogni. Sogni che capitavano a tutti, prima o poi.
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