BUCHENWALDT - Capitolo 7
Finiti con un colpo di fucile Vennero i primi di aprile del 1945. Il rombo del cannone in lontananza creava un senso di generale nervosismo nel campo. Esso poteva rappresentare l’approssimarsi dell’agognata liberazione. Purtuttavia, ricordando quanti erano morti in quel luogo, nessuno nutriva fiducia sul proprio destino. La mattina del 12 aprile l’“aufstehen” del Kapò ci strappò dai pagliericci con meno durezza del solito. La cinghia non roteò sulle nostre teste, non fummo inquadrati per scendere in miniera. Ci adunammo invece sul piazzale come in attesa di disposizioni, perplessi per quell’inspiegabile allentamento della disciplina. Rimanemmo letteralmente sbalorditi quando ci furono dati viveri in misura del tutto inusitata, quindi uno zaino, una coperta, un paio di scarpe e capi di vestiario. Incolonnati e ancora storditi per quello che stava accadendo, partimmo in marcia senza ricevere spiegazioni. Il giorno successivo, era il giorno del mio compleanno, fu uno dei più duri di tutta la mia vita. A parte soste brevissime, la marcia era proseguita senza interruzione per tutto il giorno e tutta la notte; gli uomini erano a pezzi. Strada facendo facevo considerazioni su tutte le possibili ipotesi che avevano indotto il comando tedesco ad adottare un simile comportamento. Una delle più logiche era quella che, premessa la decisione di non sopprimerci, portandoci via dal campo si mirava a scongiurare la nostra ribellione in vista all’arrivo degli alleati, ribellione che avrebbe avuto conseguenze catastrofiche per quei pochi addetti al campo rimasti al loro posto. Senza alcun dubbio, in una simile eventualità, gli si sarebbero rivoltati contro gli stessi Kapò che, per quanto privilegiati, erano pur sempre dei prigionieri. Il timore avrebbe potuto indurre gli aguzzini a liberare i prigionieri oppure a consegnarli agli americani in cambio della vita. Questa speranza animava molti di quei relitti umani che si trascinava avanti sempre più stentatamente. Io, assieme agli altri amici italiani, mi tenevo piuttosto avanti perchè coloro i quali non riuscivano a stare nel gruppo o si accasciavano a terra, venivano finiti con un colpo di fucile. A complicare le cose si diffuse tra i prigionieri una incontrollabile diarrea, dovuta a un eccessivo pescare nelle razioni abbondanti che avevamo ricevuto. Per evitare di trovarsi isolati dal resto della colonna, ogni qualvolta il ventre li spingeva a liberarsi sul bordo della strada, dovevano correre in avanti per poter quindi rientrare nella loro posizione. In questa circostanza fu la volontà di sopravvivere unita alla moderazione che mi risparmiò dal malanno e mi mise in grado di essere d’aiuto ai miei compagni e in particolare a Renato che sanguinava ogni volta che era costretto a fermarsi. Ci fu una volta che, assieme a Sergio, dovetti correre indietro a cercarlo e quindi trascinarlo a tracolla per parecchi chilometri essendo ormai arrivato al limite delle forze. Fortunatamente Renato si riprese in una pausa successiva e fu quindi in grado di proseguire da solo. Pur nella sua tragedia, la marcia andava via via assumendo un aspetto strano e spettacolare. Incominciata quasi allegramente per l’allentamento della disciplina e la distribuzione dei viveri, si andava facendo via via sempre più dura e il tesoro ricevuto alla partenza si stava rivelando sempre di più un fardello insopportabile. Non appena qualcuno cominciò a liberarsi di qualche peso per poter continuare, fu quasi un comando per l’intera colonna. Da cima a fondo, da una parte all’altra della strada, ci fu un lancio continuo di coperte, zaini, cappotti e perfino zoccoli. A ogni ora che passava, la necessità di alleggerirsi ancora un poco si faceva più pressante e alla fine erano giacche a volare via, pane, barattoli, maglie e in molti casi gli stessi calzoni, beni che al campo erano stati così preziosi. La marcia proseguiva come un calvario. I piedi cominciavano a sanguinare e il procedere implicava uno sforzo di volontà insostenibile per qualsiasi altra occasione. Fu così che trascorse il mio 240 compleanno. Il giorno successivo sorse tiepido e sereno; dal sole determinai l’orientamento e constatai che stavano andando sempre più a nord. A quanto avevo sentito dire da quella direzione, rispettivamente da nordest e da nordovest stavano avanzando le truppe americane e russe. Nel mentre si sentiva sempre più intenso il rombo dei cannoni e il crepitare delle mitragliatrici, cominciavano ad apparire i primi soldati tedeschi in rotta. Avviliti, feriti, cenciosi e che si servivano dei mezzi di trasporto più svariati. Attraversando una distesa verdeggiante scorgemmo infine una colonna motorizzata; fummo sorvolati da un velivolo e, poco dopo, tre o quattro carri armati si mossero alla nostra volta. Un fremito di terrore percorse tutta la colonna di prigionieri al pensiero che potessero trattarsi di tedeschi. Ma poi il terrore diventò stupore incredulo e infine rabbia selvaggia contro le guardie di scorta non appena furono visibili le insegne americane. Gli alleati dovettero adoperarsi in ogni modo per trarre in salvo le guardie dalla furia dei prigionieri. Ci riuscirono e dopo averle caricate sui carri, si riportarono verso la colonna dalla quale si erano staccati. |