BUCHENWALDT   -   Capitolo 8

INDICE  "BUCHENWALDT"

 

 Finalmente liberi

Eravamo liberi ma in balia di noi stessi poichè nessuno sembrava intenzionato a prendersi cura di noi o a soccorrerci. Sfiniti e impossibilitati a muoverci rimanemmo a lungo quasi inebetiti e incapaci di prendere una qualsiasi decisione. Fu un mitragliamento di aerei tedeschi che ci scosse e ci ridiede la forza di disperderci per i campi. Stranamente ci muovemmo proprio in direzione della colonna americana, obbiettivo degli aerei e quindi il punto di maggior pericolo. Disteso dietro una siepe potetti osservare la reazione americana e ammirare il coraggio dei soldati. Come d’incanto la colonna si era arrestata e tutti i militari si erano portati sulla parte superiore dei mezzi rispondendo all’attacco con le mitragliatrici. Tre aerei furono abbattuti, l’attacco ebbe fine e la colonna americana proseguì per la sua strada.

Nel pomeriggio ero ancora disteso nel campo assieme agli altri e cercavo di rendermi conto di quella nuova, impossibile realtà. Essere liberi! Ogni tanto lanciavo uno sguardo a distanza dove si ergeva un campanile, una ciminiera o poche case e non sapevo decidere se raggiungere o no quello che doveva essere un paese. A piccoli gruppi molti dei prigionieri si erano incamminati in quella direzione; alla fine anche io e i miei amici ci avviammo.

Il paese distava circa due chilometri, molti, ridotti com’eravamo. Era quasi buio quando arrivammo; non riuscivamo a fare più di dieci passi senza concederci una sosta. In una casa ottenemmo da alcune donne, le uniche rimaste, un bicchiere di latte zuccherato. Me ne sarei ricordato per sempre. Per tutta la vita non avrei più trovato altro cibo che lontanamente uguagliasse la bontà di quel bicchiere o che facesse rinascere in me un’emozione tanto intensa.

Per la prima notte in paese trovammo riparo nella chiesa; Successivamente ci sistemammo in una stalla per poter avere un giaciglio più soffice. Per poco non fummo anche calpestati da un bue che si era slegato durante la notte. Riuscirono finalmente a trovare un vano tutto per noi. Ammazzammo un maiale - nessuno osava contrastarci - e dopo aver pulito e lavato alla meglio il porcile, ne facemmo una riserva di carne nascosta sotto uno spesso strato di paglia. Renato era molto ammalato e la febbre lo faceva delirare ad ogni colpo di cannone. Voleva andar via subito perchè aveva paura che i tedeschi ritornassero. Non era un timore infondato: tutti temevamo la stessa cosa ma ci rasserenava il rombo del cannone che si faceva sempre più flebile, sempre più lontano.

Stelio era stato perso di vista e il suo posto era stato preso da un giovane friulano, abbastanza in forze e pieno di iniziative, diventò di grande aiuto al gruppetto. Io mi facevo aiutare da lui per provvedere a quanto era necessario poichè anche Sergio era ormai stremato dalla fatica.

In breve venne creata una scorta di viveri sufficiente a una lunga permanenza. All’esterno dell’alloggio venne costruito un focolare in mattoni su cui, muniti di rudimentali pentole, venivano cucinati i pasti. Di carne ce n’era in abbondanza perchè le stalle, pressochè abbandonate, erano zeppe di bovini, suini ed ovini; i magazzini erano ricolmi di farina e patate. Nelle immediate vicinanze c’era una fabbrica di zucchero che aveva subito attirato la mia attenzione e mi ero quindi premurato di fame una scorta con un sacco di juta da cento chili. Diversamente da molti compagni di disgrazia, morti in libertà per aver impostato l’alimentazione prevalentemente sulla carne, il mio gruppetto si cibava quasi esclusivamente di latte e zucchero, cibo che si rivelò ideale per il nostro debole organismo.

Quattro fabbricati, adibiti a stalla e a magazzini, delimitavano un cortile dove, a ridosso dei muri, i prigionieri si affaccendavano ai fornelli. Abili macellai avevano insegnato un po’ a tutti come abbattere e sezionare gli animali. All’inizio venivano uccisi quelli di mole più modesta come capre e maiali in modo da risparmiare le mucche per ricavarne il latte. Anche io imparai presto a mungere. Purtroppo le mucche, in mancanza di personale che le accudisse, ne davano molto poco. Per provvedere alla necessità di Renato, che continuava a star male, ero costretto ad alzarmi di notte perchè durante il giorno i poveri animali erano letteralmente straziati da tanti che, non tanto per se ma per i molti infermi, cercavano il prezioso alimento.

Nel paese regnava il caos più completo; I civili, impauriti dai prigionieri si erano eclissati e le bestie urlavano per la fame. Una alla volta le case erano state devastate nella ricerca di alcolici, vestiti o oggetti di valore. Io mi ci recavo, di solito, dopo che quella furia disumana era passata. Trovavo distrutta ogni cosa, anche ciò che non serviva. Anche considerando le sofferenze immense patite da quegli uomini, non riuscivo a comprendere quel modo di agire. La bestialità dei prigionieri rasentava i limiti della follia. Era simile, se non superiore a quella degli animali i quali, almeno una volta sazi, si calmavano.  

 

AL  PROSSIMO  CAPITOLO