Siamo lieti di presentare ai nostri cari lettori una serie di articoli riguardanti il mancato attentato che Tito Zaniboni, insieme al generale Cappello e ad alcuni buiesi, organizzò nel novembre 1925 per sopprimere Mussolini. Attentato che è rimasto famoso in quanto fu il primo rivolto a Mussolini capo del governo, venne preparato da notissima personalità e fu istantaneamente scoperto da parte della polizia fascista che si dimostrò poi generosamente larga di condanne e di ostracismi ai congiurati. Ed ora, dopo ventun anni, un raggio di luce viene ad illuminare questo torbido periodo di storia. Son passati più di vent’anni e molti avvenimenti sono accaduti in questa nostra Italia, stanca di sciagure. Ma nessuno, credo, può aver totalmente dimenticati i fatti che sto per raccontare e cioè l’impresa di quel gruppo di uomini che, non avendo saputo abbandonare l’Italia perché Mussolini aveva raggiunto il potere, invece di inchinarsi alla sua dittatura le si lanciarono contro cercando di sopprimerla attraverso il suo capo e maggiore esponente. Vecchie amicizie. Questi uomini, tranne l’onorevole Zaniboni, il generale Cappello e pochi altri, sono in gran parte friulani ché nel Friuli e precisamente a Buja s’iniziarono i preparativi del grande tentativo che forse poteva evitare molte delle sciagure e degli orrori che hanno seguito il suo tragico fallimento. Erano gli ultimi mesi del 1925 e Mussolini continuava a gridare sulle piazze del nostro paese. Il popolo, stanco com’era delle troppe chiacchiere, accettava passivamente, pur rimanendo scettico, i suoni della campana mussoliniana; sia perché ormai era l’unica, sia perché il fascismo s’era presentato improvvisamente come cosa fatta. Qualcuno però, che aveva avuto occasione di conoscere molto da vicino Mussolini e che troppo bene conosceva le ideologie politiche di quest’uomo basarsi soltanto sulla vanità personale, non esitò a tentar di troncare in tempo l’atteggiamento pericoloso della massa. Fra questi fu Tito Zaniboni, allora deputato socialista alla Camera. Egli, residente a Roma, si decise un giorno ad allontanarsene per cercare altrove una base sicura e adatta alla preparazione del gesto da tempo accarezzato. Ritornò pertanto, assieme al suo segretario, nel Friuli, a Buja, paese in cui durante la guerra era stato di stanza quale comandante del Btg. Alpino “Tolmezzo” e dove conosceva vari uomini che quanto a fascismo non erano certamente convinti: Angelo Ursella, il quale doveva avere una delle parti più importanti e attive nella congiura; Ferruccio Nicoloso, gli avvocati Mini, Zanuttini ed altri. Vecchie e nuove conoscenze le quali furono immediatamente informate del progetto: erano uomini che si erano sacrificati per un’idea e non solo non sapevano assuefarsi, ma neppur sopportare quella nuova dottrina che non peccava invero di troppa democrazia. Allora era il mese di agosto e subito si iniziò a preparare il piano definitivo ed a procurare le armi perché l’attentato era stato stabilito per il 4 novembre, giornata in cui Mussolini doveva tenere il discorso commemorativo della vittoria. La polizia fascista, però, nutriva già qualche sospetto, ma si limitava soltanto a sorvegliare i complottanti senza porre, almeno apparentemente, soverchio interesse. Passò perciò quasi un mese e il piano definitivo non era ancora ultimato perché il tentativo di un abboccamento generale fallì più volte per la presenza di individui sospetti nelle vicinanze del luogo prefissato. Che la polizia avesse capito che si stava tramando qualcosa di poco opportuno al nuovo regime, era ammissibile: la presenza di un deputato come Zaniboni in un paese, non era cosa da lasciare passare inosservata, ma che così puntualmente sopraggiungesse ad ogni luogo di ritrovo era piuttosto strano. Cominciò a sorgere qualche sospetto. Pure Zaniboni chiese all’Ursella : “Se quei suoi amici…”. No, non era possibile: “Sono friulani” – rispose questi - “li conosco molto bene”. Pur tuttavia i giorni passavano e in paese arrivava sempre “gente nuova”: i villeggianti, sì ma seccatori a cui piaceva gironzolare la notte per le viuzze più oscure, rimanendo sordi all’invito delle colline buiesi. Strani villeggianti. Ognuno lo aveva capito, ma neppur la massima prudenza giocava a togliere o almeno sviare i sospetti perché quei poliziotti avevano davvero il fiuto fino. Frattanto la riunione in cui si doveva discutere molte cose assieme non la si poteva fare. La data fissata veniva incontro a grandi passi e quegli uomini non potevano far altro che guardarsi in faccia attentamente: “E’ uno di noi, dunque”. Ma chi poteva essere: ognuno aveva il proprio passato che subito s’affacciava quale forte garanzia, se non il giovane Quaglia, conosciuto antecedentemente solo dall’onorevole Zaniboni. Ma ciò era già di sufficiente sicurezza. Su un giovane quale Quaglia, poi, era da escludere qualsiasi sospetto: sorridente sotto quei suoi capelli castagni era sempre accondiscendente e mite eccetto quei pochi casi in cui il suo forte ideale patriottico lo faceva uscire in escandescenze contro quei vili che comandavano l’Italia. Spesso dovevano essere i suoi compagni a calmare quei bollori di ardente idealismo giovanile. Convegno a M. Croce. Una sera del mese di ottobre, messi alle strette ormai dal poco tempo rimanente, i principali esponenti del complotto, datosi l’appuntamento, alla sera partirono con la macchina dell’onorevole per Monte Croce. Già era stata fissata una camera ed ordinata una cena in un’osteria sperduta tra le montagne; solo l’Ursella conosceva la posizione esatta. Verso la mezzanotte arrivarono all’osteria montana. La padrona sonnolenta venne ad aprire e le piacque osservare che quella non era l’ora adatta per cenare, che suo marito era già andato a dormire, ma che tutto era già apparecchiato e che presto li avrebbe lasciati soli. Gli arrivati non fecero altro che condividere le sue idee anche, e specialmente, l’ultima: “Perché si sarebbero serviti da se”. Appena occuparono i loro posti si guardarono bene in faccia ed ognuno pensò che quella, forse, era l’ultima volta. Zaniboni spiegò sul tavolo una pianta di Roma in grande scala. Parlò della distanza tra il palazzo, al quale doveva tenere il discorso Mussolini, dall’albergo Dragoni, ove egli doveva prendere posizione con l’arma. E confidò che da parte sua era pienamente convinto della riuscita dell’attentato. Si congratulò, anzi, con l’Ursella per la magnifica arma, un cecchino austriaco a cannocchiale, che aveva procurato e chiese chi altro si sarebbe sentito di seguirlo a Roma. Era già stato deciso che il suo giovane segretario lo avrebbe accompagnato, ma solo per stargli vicino in caso di eventuale aiuto; ancora un’altro uomo occorreva, però, il quale appena udito il colpo fatale, spedisse in varie città d’Italia i telegrammi agli interessati che avrebbero dovuto occupare ogni centro vitale. Zaniboni osservò per un momento l’Ursella e questi sorrise accondiscendente. Dopo aver tracciato in linea generale il compito di ognuno, discussero minutamente ogni cosa. Il colpo doveva riuscire: era stato preparato con troppa intelligenza perché così non dovesse essere. Questa era la convinzione: tutti, però, avevano la sensazione di essere spiati anche se l’osteria era in mezzo ai boschi e i padroni che dormivano. Quando furono per lasciarsi brindarono alla buona riuscita: da quel momento non si sarebbero più rivisti se non “dopo”. Brindarono e sorrisero, ma erano sorrisi nervosi tranne quello del segretario che era apparso il più calmo e sicuro di tutti. “Il lunedì” 29/7/1946
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