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Alle quattro del mattino l’Ursella stanco di attendere il nuovo giorno che tanti avvenimenti doveva portare, s’alza e sveglia la padrona dell’albergo. Paga la cena della sera precedente e la camera per poi avviarsi verso Piazza Colonna e precisamente all’albergo Dragoni in cui la stessa mattinata Zaniboni ed il suo segretario dovevano portarsi con l’arma.

Il piazzale è attraversato di sovente da varie macchine che con i fari accesi andavano e ritornavano nella foschia dell’alba.

Verso le cinque, la macchina di Zaniboni s’arrestava dinanzi al Dragoni. La scorse l’Ursella e riconobbe il giovane Quaglia che per primo scese ed entrò, quasi correndo, nell’albergo. Subito lo riconobbe anche se indossava un pesante cappotto. Zaniboni, invece, attendeva altri minuti, ma poi pure egli scendeva, calmo osservandosi d’attorno.

Solo da quel momento, l’Ursella, si sentì libero da tutti i dubbi che da giorni ormai lo tormentavano: tutto era andato bene, non c’era più che d’attendere. Un altro manifesto vicino a lui portava, oltre che vari fasci, una scritta la quale avvertiva, o meglio, ordinava al popolo romano e italiano che ognuno alle nove, doveva essere presente al discorso che il duce teneva in Piazza Colonna, per commemorare la vittoria dell’Italia sui barbari teutoni.

Alle nove; rilesse più volte questa ora: era solo questione di tempo dunque. Capì che sarebbe stato imprudente soffermarsi ancora su quella piazza: già s’era iniziato un grande movimento di polizia e di soldati fascisti. Ormai il suo compito non era che di attendere lo sparo e di spedire i telegrammi cifrati, ma restare inattivo ad attendere gli apparve d’un tratto il compito più gravoso di tutti gli altri che aveva già sostenuti. Cercò tuttavia di non pensarci sopra, di svagarsi perché il tempo passasse il più presto possibile. Infilò una via camminando quasi inconsciamente tra i passanti ancora assonnati.

La polizia all’erta.

Zaniboni, dalla camera del Dragoni, guardava impaziente nel piazzale: da tutte le vie affluiva in massa il popolo. Per lo più era gente che discuteva guardandosi, però, d’attorno perché presto zittiva appena s’avvicinava qualche camicia nera. Ed erano molti di questi uomini che giravano per la piazza, ma ce n’erano pure di quelli che se anche la camicia nera non l’avevano ognuno tuttavia la riconosceva per tale.  Vari di questi passeggiavano ininterrottamente dinnanzi all’entrata del Dragoni. Li vide Zaniboni facendoli notare al suo compagno. Ebbe, però, la più netta smentita: ”No, non hanno la faccia e poi come sarebbe possibile?” aveva risposto questi con forte persuasione “come sarebbe possibile?”. Non poteva essere, lo sapeva anche Zaniboni, ma quegli individui con troppa insistenza continuavano a passare sotto i suoi occhi.

Più volte osservò il segretario, ma nulla ne deduceva: la sua mente lo riportava alla stessa conclusione che aveva fatto la sera che era partito per Roma, allorchè l’Ursella gli aveva confidato i sospetti: molto era stato giocato su dubbi che avevano troppo poche fondamenta. Non restava che continuare ad agire: sarebbe stato ormai molto difficile scappare.

Non vi era altra risoluzione e più volte cercò di scacciare quelle brutte supposizioni pensando alle molte prove di fedeltà che antecedentemente aveva avute dal sospettato, ma non vi riusciva.

Questi passeggiava alle sue spalle per la prima volta aveva abbandonato il sorriso.

Piazza Colonna ad ogni minuto s’affollava vieppiù: migliaia di persone attendevano l’affacciarsi di quell’ uomo che gridava alla libertà dichiarando nemico chi non la pensasse come lui.

Erano giunte le nove e mezza ma Mussolini non s’era ancora presentato. Ventimila persone, circa, con lo sguardo in alto chiedevano la ragione di quel ritardo al poggio addobbato da tappeti. Molti mormoravano sempre piano però; i militi fascisti apparivano più che mai nervosi; mancava di parola, dunque, il loro duce? Mai e lo dicevano anche, prepotentemente, che il loro duce non poteva mancare alla sua parola. Ma in realtà lo temevano ed allora lanciavano duri sguardi a chiunque sospettavano stesse maldicendo.

Vana attesa.

I minuti correvano e la folla si impazientiva sempre di più: che Mussolini avesse abbandonata l’idea di parlare? Non era il caso di chiederlo; lo capiva la folla perché ormai conosceva abbastanza bene il nuovo duce per sapere che ci teneva troppo ai discorsi. Era accaduto qualcosa di grave dunque e curiosa con lo sguardo alzato continuava a chiederne il motivo.

Dall’ora prefissata erano trascorsi un quindici minuti. L’Ursella con gli occhi attaccati all’orologio seguiva secondo per secondo ma lo sparo non si udiva. Non seppe più trattenersi e ritornò in Piazza Colonna.

“Non era ancora apparso Mussolini?”. “No - gli rispondevano - non ancora”. Ed ognuno sorrideva malizioso. Anche egli alzò lo sguardo al poggio ed attese per qualche minuto. Battevano le dieci e nessuno s’affacciava; un’ondata di mormorii accompagnava i rintocchi.

L’Ursella si avvicinò al Dragoni e guardò al balcone designato per l’attentato. Non vi scorse alcuno. L’ansia e i sospetti ritornarono a turbarlo, più volte alzò lo sguardo: nessuno.

Doveva rimanere vent’anni senza rivedere Zaniboni: questi lo aveva già preceduto nelle carceri dove entrambi dovevano soggiornare per molti anni. Verso le dieci nella camera dell’albergo erano entrati tre di quei “signori” che si aggiravano dinanzi all’entrata e avevano intimato ai due uomini di seguirli. Vari poliziotti erano rimasti di guardia alla camera mentre altri, con gli arrestati abbandonavano l’albergo dalla porta di servizio e partivano con la macchina che ivi attendeva.

Tutto era stato fatto in silenzio.

Il mormorio, in Piazza Colonna, si ingrandiva sempre più; la folla continuava a chiedersi la ragione. Alle dieci e mezza circa finalmente la conobbe: “Per ragioni superiori”. Così almeno aveva spiegato un gerarca che si era presentato al poggio inneggiando varie volte all’assente.

Troppo vaga in vero questa giustificazione perché la folla non uscisse in clamorosi fischi. Solo per l’Ursella fu molto chiara tanto da fargli crollare ogni speranza mentre i dubbi precedenti gli apparivano quali inconfutabili certezze.

 “Il lunedì” 19/8/1946

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