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Tin Pezzot al lave a fuèe Tradizione orale popolare a Buja di Michela Paulzzo Guerra | |
Ho preparato questo intervento con il desiderio di aprire uno scorcio sulla situazione della narrativa popolare oralmente trasmessa a Buia. Trattare di tradizione orale non significa bearsi di variazioni terminologiche ma cogliere sul vivo ciò che il verbo "tradire" etimologicamente ci suggerisce: la consegna di un sapere, una notizia, una memoria storica. Si capisce che la trasmissione orale-popolare è per sua natura infedele, è collettiva e anonima, è soggetta ad una censura preventiva con cui il testo scritto, d'autore, non si misura. Dal punto di vista della tipologia dei materiali raccolti l'operazione non è certo innovativa, dato che altri studiosi o cultori di storia locale se ne sono precedentemente occupati, e forse anche metodologicamente lo è in termini marginali ma la convinzione che ha spinto il mio lavoro in questa direzione è che ogni documento orale sia sempre nuovo, reso permeabile al contesto storico e socio culturale da cui proviene proprio dalla mancanza di supporti cartacei che lo restituiscano stabilizzato e definitivo all'immaginario comune. A questo livello del "ciclo di vita" del documento orale si situa l'intervento del raccoglitore che con l'intento di sottrarre una fiaba, una filastrocca, una testimonianza all'inevitabile oblio cui è destinata, finisce per insinuarsi e, suo malgrado, alterare i meccanismi naturali di creazione, circolazione e fruizione del testo. Buja rappresenta il mio "campo'', di ricerca già dal 1989, quando ho cominciato a contattare i primi informatori per conoscere, direttamente dalla loro voce, gestualità, mimica e prossemica, il patrimonio di racconti e "storie" che ha contribuito ad alimentare infanzie (non solo in senso metaforico, dato che in passato succedeva spesso che alla fame dei bambini si replicasse con una fiaba), allacciare e rinsaldare rapporti familiari e sociali (si pensi alle veglie serali in occasione di lavori stagionali che mobilitavano manodopera particolarmente abbondante), ordire dialoghi tra generazioni. Dal 1989 al 1994 ho raccolto un consistente corpus di testi, alcuni dei quali documentati da più varianti che ne confermano appunto la popolarità. Tranne poche eccezioni, non si tratta di materiali inediti o peculiari, in senso stretto, della tradizione orale locale: ciò che l'indagine palesa efficacemente, tuttavia, è lo stato di conservazione e vitalità della tradizione stessa, il grado d'incidenza della scrittura e degli altri mezzi di comunicazione di massa ma anche della memoria individuale e collettiva indebolita soprattutto dalla mancanza di una pratica costante della narrazione. Tra i materiali rilevati, molte fiabe, novelle, leggende, aneddoti umoristici sul versante della prosa; filastrocche, conte per giochi, preghiere e parodie di preghiere, villotte, su quello della poesia. E interessante valutare non solo il testo in se stesso (per forma, contenuto, stile, lingua) ma anche la pluralità dei contesti della narrazione (spazi e tempi del lavoro o del gioco, del quotidiano o della festa), l'identità dei fruitori (infantili e adulti) e l'idea che ogni singolo esecutore matura del proprio repertorio e delle capacità personali di darne spettacolo, elementi che lo legano strettamente alla comunità di appartenenza, nella misura in cui è proprio quella a sanzionare o meno l'auctoritas di un narratore. A questo punto nasce una riflessione (che meriterebbe i dovuti approfondimenti) su un fenomeno di rilevanza considerevole: la defunzionalizzazione che il testo orale subisce nel corso del tempo, a prescindere da un tendenziale innesto su altri prodotti culturali, fa sì che esso interessi verticalmente diverse classi di età e si strutturi orizzontalmente, sull'asse diacronico, come un macrogenere di per sè fornito di specifici e sufficenti meccanismi di attualizzazione e rinnovamento. L'inadeguatezza di ogni gerarchia di valore entro il sistema letterario dei generi folclorici, che per loro natura tendono a sfumare l'uno nell'altro ed a rifiutare catalogazioni definitive, induce a considerare questa attitudine alla rifunzionalizzazione, specifica della creazione popolare, in tutta la sua portata positiva. Così, l'inserto in rima contenuto originariamente in una fiaba di magia può diventare una filastrocca dotata di completa autonomia, quindi una conta per giochi e infine un indovinello. In questo frangente, senza altro criterio che legittimi la scelta che quello del grado ultimo di compiutezza formale del testo (resa relativa dalla stessa procedura creativa popolare che si serve di componenti note diversamente ricombinate ad inventare soluzioni nuove), propongo una sintesi antologica dei documenti in versi che ho raccolto, riservando futura occasione e maggior spazio ai racconti più lunghi ed alle fiabe. Sin d'ora ringrazio tutti gli informatori che hanno acconsentito ad incontrarmi arricchendo così la ricerca. I documenti raccolti sono stati registrati su nastro magnetico e quindi fedelmente trascritti nella varietà di friulano parlata a Buja. Benchè l'uso delle cadenze, degli accenti e delle quantità vocaliche sia sempre segnato da un margine di soggettività, si è cercato di rendere omogenei i criteri di trascrizione. Non trattandosi di materiali in prosa (tranne parte dell'ultima sezione), la scansione ritmica impressa al racconto dagli informatori è stata tradotta attraverso il segno grafico della / nel rispetto della tipologia del verso e delle pause osservate dai narratori stessi. La griglia di lettura che si propone implicitamente attraverso una ripartizione per generi narrativi è puramente indicativa e si permette d'informare solo riguardo alla funzione "prevalente" che i testi hanno avuto nel passato socio-culturale di chi narra e che è naturalmente portato a non distinguere assolutamente una fiaba da una novella o una filastrocca da una villotta se non per il valore d'uso che ogni singola performance narrativa possiede. Il corpus dei testi presentati e seguito dall'elenco degli informatori le cui figure andrebbero indagate ben al di là delle poche note che qui si danno. La conclusione, anche adeguatissima premessa, è nelle parole di una delle narratrici che ho interrogato, di cui riporto, infine, un eloquente brano di conversazione.
NOTE:
a) I testi riconducibili a questo gruppo ed a quelli immediatamente successivi erano numerosissimi e dovendo operare una cernita ho privilegiato quelli meno noti; questo motiva 1'assenza di "Ursule Parùssule", "Sante striche", "Ae bae / nome scae..." ed altri. Si tratta di narrazioni recitate, non legate necessariamente ad un contesto ludico ma che occasionalmente lo potevano diventare, destinate ad un uditorio infantile. Si veda a questo proposito la raccolta realizzata nel Cividalese da DIPLOTTI V. - FURLAN V., "Par no dasmenteâ". Conte, filastrocche, preghiere popolari friulane, Udine,1993, 2 ed.
b) Di questo testo esistono diverse varianti che differiscono per piccoli particolari frutto dell'abilità creativa e d'improwisazione dei narratori;l'iterazione di "al alce" può essere sostituita da quella di "i cole" con la medesima catena di conseguenze stupefacenti.
c) Di questo testo ho raccolto un'unica variante. Il narratore ha precisato che si tratta di una filastrocca praticamente senza fine che, data la struttura modulare, si presta ad innumerevoli aggiunte. Richiamo 1'attenzione sulla presenza di toponimi locali (Vendoglio e Treppo) spia della tendenza alla contestualizzazione dei motivi ma anche della contaminazione tra tradizioni geograficamente contigue. Lo stesso fenomeno compare nel testo n.l (Venzone), n. 7 (Colloredo sostituisce il più diffuso Milano), n.10 (Madrisio), n.14 (Sottocolle, frazione di Buia). Nei n. l l e n.12 troviamo invece un nome proprio di fiume (Ledra) che attraversa Buia, diventato ormai nome comune per designare corso d'acqua. d) Molto probabilmente questa filastrocca che l'informatrice recita senza ricordare il contesto di appartenenza era in origine calata nella fiaba, particolarmente diffusa a Buia, degli animali alloggiati per la notte, meglio conosciuta in ambito letterario con il titolo di "I musicanti di Brema". e) Cfr. CARRARA D., Filastrocche infantili goriziane, in "Ce fastu?" XI (1935), pp. 196-198. f) "Lune lune" é filastrocca ben conosciuta a Buia, di cui mi limito a riportare due varianti; in altre 1'invocazione iniziale può essere sostituita con "Gnotul gnotul" così come in corpo di testo si può trovare: "ti metarài sun t'un len / el len nol à meòle / ti metarài sule cariòle / le cariòle no à pit / ti metarài sun t'un nit / el nit nol à ucêi / ti gjavarài i bugjêi "oppure" le cariòle `é cence pis / svuéle svuéle in Paradis". g) Più di frequente il testo si conclude senza "Cjòl un nin..." che sembra infatti costituire appendice successiva. Si osservi come nelle filastrocche sia ridondante 1'uso dei diminutivi quasi a sottolineare il pubblico cui sono rivolte: qui "picinìn" e "sacùt" ma altrove anche "furmiùte" (n. 15), "gneuressìt" e "fugùt" (n. 21). h) E evidente una contaminazione tra questo ed il testo precedente, incorporato e dilatato come succede in ogni creazione popolare a trasmissione orale. Punti di contatto anche con il n. 8. Pur non avendo rilevato varianti edite, la filastrocca é affine ad altri testi raccolte in Friuli: cfr. CARRARA D., Filastrocche infantili gorazzâne, op.cit. e QUARZOLA R., Filastrocche raccolte nella valle del Bùt, in "Ce fastu?" LXVII (1991), n. 1, pp. 117-128. i) Sulle "come" popolari raccolte in Friuli, cfr. CICERI A., "Come" per giochi infantili, in "Sot la Nape" XX (1960), n. 2, pp. 1116. Nelle "come", più che in altre filastrocche, é frequente la commistione di italiano, friulano e veneto se non addirittura tentativi di traduzione dal dialetto che producono esiti quanto meno stranianti: ad es., in n. 16: "tre selotti d'àcqua"; in n. 17 e n. 18, al di là dell'aspetto linguistico, "L'uccellin che vien dal mare..." diventa "Andule bàndule" o "Ansule bàndule". l) Sono quelle che generalmente si accompagnavano ai giochi fatti dagli adulti con i bambini più piccoli che ancora non avevano completa autonomia. Si tratta di semplici giochi sul palmo della mano (n. 21) o comunque realizzati utilizzando le mani rilasciate (n. 24 e n. 25) o chiuse a pugno per indovinare dove si nasconde un dato oggetto (n. 22) o per costruire una torre (n. 23). A differenza delllle precedente, chiedono che un'azione si accompagni alla narrazione. In alcuni casi i versi suggeriscono le istruzioni scandendo lo spesso ritmo del gioco (n.26): a questo proposito, anche: "El / grop / di / San / Jop" per guidare il disegno della stella a cinque punte o "Mi amistu / mi bramistu / mi `utu ben / o mi `utu mâl?" per conoscere i sentimenti dell'amato. m) Cfr. le numerosissime parodie di preghiere raccolte in Friuli da D'ARONCO G., Ancora poesie popolari religiose raccolte nel 1946, in "Ce fastu?" LV (1979), pp. 113-120. Come si può notare, i termini della parodia nascono dall'attrito tra la sacralità delle figure rehgiose (Dio, la Madonna, i Santi), delle preghiere o delle invocazioni al giudizio universale (in n. 29, sarebbe: "Dies irae, dies irae! ") e il profano e fisiologico bisogno di mangiare e di lavorare, imperativi che rendono catastrofica la fuga del maiale. In altra variante: "Dies ile dies ile / le purcite iù pe vile / e ié colade iù pe rive / se mangjave no murive." n) Gli indovinelli, che oggi rappresentano una parte molto esigua dei repertori narrativi ricostruiti attraverso ricerche sistematiche sul campo, in passato dovevano suscitare l'attenzione sia di adulti che di bambini, dato che spesso costituivano vere e proprie sfide all'intelletto di chiunque. Corne noto, si tratta di un genere antichissimo che la tradizione orale preserva incapsulato in diverse fiabe di magia o novellistiche: saper sciogliere un indovinello o saper proporne uno irrisolvibile era, ad esempio, prova necessaria per conquistare la mano della principessa ambita. Tra i più noti, quello del gatto e del salame: "Pindulìn ch'al pindulàve / moschetìn che lu cjalàve / pindulìn al cole iù / e moschetìn lu cjape sù." o) In passato, per mettere a tacere le insistenti richieste di fiabe, non solo da parte dei bambini, i narratori possedevano un repertorio di storielle che si chiudevano su se stesse oppure potevano continuare all'infinito procurando noia o sonno; cfr. l'introduzione di NICOLOSO CICERI A., Racconti popolari friulani. Buia, vol. I, Udine, Società Filologica Friulana, 1993, 1 ed. 1968, pp. 7-11.
Testimonianze e contesti - [RICERCATORE] - Cui erial Barbe Cecòn? I narratori AITA Domenica (1914), Avilla: cfr. nota n. 9 BATTIGELLO Noemi (1907-1990), Arrio: n. 1,2,20 FANTINUTTO Giuseppina (1905), Avilla: cfr. nota n. 11 FEDELE Caterina (1918), Urbignacco: n. 31 FELICE Enore (1914), Monte di Buia: n. 16 GHERBEZZA Rita (1903); Madonna: testimonianza GUERRA Edda (1932), Arrio: n. 4-6,8,21-25,27-29 MIANI Gioconda (1910), S. Stefano: n. 19,37 MOLINARO Elena (1940), Ursinins Piccolo: cfr. nota n. 6 PAULUZZO Annamaria (1927), Urbignacco: n. 12-14,32-36 PIEMONTE Delfina (1909), Ursinins Grande: n. 30 PIEMONTE Gino (1908), Arrio: n. 3 VACCHIANO Olga (1902), Ursinins Grande n. 15,26 ZONTONE Adina (1921), Ontegnano: n. 18 ZONTONE Rino (1923), Ursinins Piccolo: n. 11,17
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