La vertenza Avilla-Sottocolle Capitolo 3 |
I Pievani-arcipreti di S. Lorenzo e i Sacerdoti di Avilla nella vertenza
Prima di inoltrarsi nella vertenza vera e propria di Sottocolle, è opportuno fare un breve cenno sull’atteggiamento assunto dal pievano-arciprete Bulfoni e del suo successore Chitussi nei riguardi di Avilla. Bulfoni, come già accennato, fin dal suo insediamento nella Pieve come successore di Venier si schierò apertamente e nettamente contro ogni iniziativa che potesse minare l’integrità della Pieve. Lo fece nei confronti di Madonna e con più determinazione lo esplicò con Avilla. Nel voluminoso carteggio, intercorso al riguardo con l’Arcivescovo di Udine, ribadiva insistentemente le sue ragioni, alcune di principio, altre più pratiche. La prima motivazione era che, per il bene della Pieve e dei fedeli, essa doveva rimanere intatta come lo erano quelle di Gemona, S. Daniele, Latisana e Cividale. Poi asseriva che, dopo la costruzione del Duomo, i fedeli delle borgate periferiche partecipavano più numerosi alle cerimonie a S. Stefano e quindi l’invocato disagio per la distanza dalla parrocchiale aveva un valore relativo. Più volte ebbe ad affermare che cedere alle richieste di Avilla, ignorando la disagevole realtà di Tomba e S. Floreano, i cui abitanti per ogni esigenza religiosa dovevano recarsi a S. Stefano, non era giusto. Infine sosteneva che lo smembramento della Pieve avrebbe comportato la fine del beneficio parrocchiale, che all’epoca era la principale fonte di sostentamento per il Pievano ed il suo clero. Il pievano Bulfoni (e forse anche il suo predecessore Venier) aveva per altro sempre avuto difficoltà ad introitare il quartese dovutogli da Avilla e dintorni. Quando quella chiesa ottenne nel 1902 il sacerdote dedicato, il pievano condizionò la concessione al pagamento di 900 lire annue. Ciò significa che il quartese fino allora incassato era ben poca cosa e Bulfoni prese la palla al balzo per ottenere da una parte ciò che non riusciva ad ottenere dall’altra. Sotto questo aspetto la borgata di Sottocolle fu quella più generosa e leale nei confronti del pievano, versando puntualmente le decime dovute. Possiamo dire che tutto il tortuoso percorso effettuato dalla chiesa di Avilla per affrancarsi dalla Pieve fu continuamente condizionato dal risvolto economico conseguente alla divisione territoriale. Il quartese e le prebende connesse al funzionamento di quella chiesa furono oggetto di contrattazione ogni qual volta Avilla chiedeva qualche cosa in più sulla strada verso l’indipendenza. Bulfoni vedeva in questo traguardo il disastro economico della sua parrocchia e quindi, quando era costretto a cedere qualcosa, lo faceva perché impostogli dall’Arcivescovo e paventando a questi conseguenze estremamente negative per la propria sopravvivenza e quella della Pieve. Mons. Giovanni Chitussi, quando nel 1929 prese in mano di fatto le redini della Pieve, nella sostanza poco modificò la impostazione del suo predecessore. Da uomo pratico, nel momento in cui – fatti quattro conti – si accorse che Avilla e frazioni limitrofe usavano l’arma del quartese per forzare la mano all’arciprete (in poche parole non versavano il dovuto), si dichiarò subito favorevole alla indipendenza di quella comunità. A condizione però che la stessa versasse un contributo “una-tantum” di 5.000 lire e un canone annuo di 400 lire a titolo di ristoro del beneficio della Pieve per la mutilazione che si prospettava nel caso in cui la giurisdizione di Avilla comprendesse anche la borgata di Sottocolle. Diversamente, cioè senza Sottocolle, non avrebbe chiesto nulla come contropartita. Tutto il suo successivo comportamento avverso al Vicario di Avilla e suoi collaboratori si imperniava su questo concetto: “Sottocolle vada dove vuole l’autorità, ma Avilla paghi quanto stabilito”. Nel fare questa proposta, don Chitussi conosceva bene gli orientamenti delle famiglie di Sottocolle, ma forse conosceva anche il loro “censo”, molto interessante ai fini del quartese. Dall’altra parte della barricata va osservato che, man mano che il cappellano-curato di Avilla acquisiva maggiore autonomia operativa, nulla faceva per mantenere con l’arciprete, comunque suo superiore diretto, rapporti di fraterna collaborazione. Anzi, se lui aveva la competenza per compiere alcuni atti e non altri, di fatto esercitava questi e quelli; tutti i sacerdoti succedutisi in questo ruolo dimostrarono aperto distacco, quando non era ostilità, nei confronti del clero di S. Stefano, mentre erano molto accondiscendenti verso le famiglie più influenti di Avilla che di fatto gestivano le risorse della chiesa. Ancora nel 1930 il delegato don Della Stua informava l’Arcivescovo che ad Avilla non esisteva la fabbriceria e che il quartese era gestito “privatamente” dal sacrestano (fam. Monassi). La gente infine, dati i tempi di miseria, coglieva l’occasione di questo dissidio tra chiese per non pagare le decime nè all’una nè all’altra parte in causa. E questo ingarbugliava ancor di più il contenzioso. Passata la burrasca della 1a guerra mondiale, ripresero le petizioni e le iniziative sulla via dell’indipendenza. Di fatto, agli inizi degli anni venti, il cappellano di Avilla si comportava come un parroco: celebrava le liturgie, amministrava i sacramenti, benediva le case, faceva i funerali e introitava il quartese che gli consegnavano. |