Dal "mai di Pauli" all'Europa Passato e futuro della Friuli Laminati Speciali di Andreuzza di Celestino e Mirella Comino | |
Oltre 130.000 tonnellate annue di prodotto finito, di cui il 70% in acciai speciali e per trafila, destinati ai mercati nazionali ed esteri; 4 squadre di operai impegnate a rotazione in tre turni giornalieri per tutto l’arco della settimana, 70 dipendenti, in buona parte locali ma anche extracomunitari bene inseriti nella realtà di lavoro: i numeri che fotografano oggi la Friuli Laminati Speciali S.p.A. descrivono un’azienda in piena salute in cui, con la sincronia di un meccanismo ad alta precisione, si è raggiunta la capacità di impiegare ottimamente le risorse tecnologiche, finanziarie ed umane disponibili. Tanto ottimamente da centrare, nel corso del 2000, uno degli obiettivi più ambiti in campo produttivo: quello della certificazione ISO 9002, una sorta di “marchio di qualità” rilasciata dall’I.Q.Net (International Quality Certification Network, cui aderisce, insieme all’Italia, una trentina di Paesi di tutte le parti del mondo) che pone l’azienda a livello internazionale, in termini di correttezza procedurale, nella realizzazione dei suoi prodotti. E’ difficile immaginare che la grande, ordinata ed efficiente struttura di oggi, capace di ospitare impianti ad alto livello di informatizzazione, di muoversi con la dovuta attenzione per la sicurezza e per l’ambiente e di assicurare il pane a tante famiglie, abbia cominciato il suo percorso oltre un secolo e mezzo anni fa in un vecchio mulino che girava nelle acque della Roggia Alta, o “Roe di Bernart”, ad Andreuzza. “El batafier da l’Andreuce nol spegle pui el so neri te Roe di Bernart che lu lenzeve a misdì. Al reste di lui il rivuart te memorie dai anzians. Cui lu vevial metût-su? Al ere stât il vecjo Checo Vattolo (muart tal 1886), pari di Pauli. Al ere vignût di Mulinis e fermât cul fradi a Tombe di Buje. Di lì, bessôl, al jere passât in Ontegnan, po al jere finît in Andreuce. Al veve comprât un dirit de aghe dai Barnabas… Tal 1845 il vecjo Checo al veve metût-su une farie dulà che prime e jere une see e di chel fari ’e reste une concession dal governo muc… Al fò però el vecjo Pauli a dai pui fuarce, parceche al ingrandì el mai…”[1] In un inedito del ’72, pubblicato postumo col titolo “El Mai di Pauli”[2], Maria Forte (1899-1979), ricostruiva con il conforto di pochi, ma documentati riferimenti (concessioni, atti di compravendita, testimonianze locali) i primi passi di quella che sarebbe entrata nel terzo millennio come un’azienda di livello europeo: l’arrivo della famiglia Vattolo da Mulinis di Tarcento, l’acquisto, da parte di Francesco (Checo), di una concessione per lo sfruttamento delle acque della Roggia Alta, che insieme al resto del sistema idrico di canali locali costituiva allora una importante risorsa energetica, la trasformazione di una segheria in una fucina, in cui il Vattolo esercitava il mestiere di fabbro ferraio con regolare licenza rilasciata dal governo austriaco. Poi l’acquisto di un grande maglio da parte del figlio Paolo, che avrebbe preceduto nel mestiere dei “Batafiers” almeno due generazioni della famiglia. Forse l’aspirazione a grandi cose era in embrione già in quel leggendario maglio. Si trattava, dice la Forte, di un marchingegno alto ottanta centimetri e con un manico lungo quattro metri, capace di “meravigliare la gente”[3] con la sua estremità di ferro a forma di testa d’asino, che picchiava da mattino a sera contro l’incudine sottostante al ritmo di 200 colpi al minuto. Si alzava di soli quaranta centimetri ma aveva una forza straordinaria ed il rimbombare dei suoi colpi arrivava a svegliare i ranocchi nei fossi fino a grande distanza. Lei, sempre Maria Forte, da bambina lo vedeva come un mostro spaventoso che si muoveva da solo e che capiva soltanto la voce del suo padrone; ma quella macchina doveva essere comunemente considerata come “qualcosa di favoloso per un paese come Buja”[4] dal momento che la sua lunga attività, durata dal 1845 al 1927, è rimasta nella memoria della gente del posto con toni da leggenda ed il suo padrone, che ne conosceva ogni segreto, diventava nel parlare comune “Mestri Pauli”, “maestro” nell’arte di lavorare il ferro. Smontato e finito nell’anonimato di altre fucine, prima a Caporetto, poi chissà dove, il maglio lasciò il posto ad un nuovo impianto destinato a specializzarsi sempre più attentamente nella produzione di forche. I quattro figli di “Mestri Pauli”, Riccardo, Francesco, Pietro e Santo Vattolo, cogliendo con lungimiranza i segni dei tempi, capirono che era necessario puntare su linee produttive specifiche, capaci di assicurare sempre il massimo livello di qualità. I Vattolo di Andreuzza, i “Batafiers” arrivati tanti anni prima da Mulinis di Tarcento insieme ai Batafiers di Tomba, diventarono così “chei des forcjis”, quelli delle forche, capaci di uscire a testa alta anche dal difficile periodo della guerra. Siamo ancora alle prese con una storia di famiglia, povera di dati statistici ma ricca di ricordi legati alla personalità dei quattro fratelli, alla loro totale dedizione al lavoro che li faceva sempre presenti nelle officine lambite dalla Roggia Alta, sempre attenti a cogliere al volo, se necessario ad inventare di testa propria, tutte le innovazioni tecnologiche che si facevano largo soprattutto nel campo della laminazione. E fu proprio grazie alla felice intuizione dei fratelli che, una volta finita la guerra ed avviata con nuovo ottimismo la ripresa dei nostri paesi, alla fabbrica di forche si aggiunse il primo laminatoio: un impianto spartano, costituito da un forno e tre gabbie in cui il lavoro era interamente manuale, con tutti i disagi delle alte temperature che si respiravano per poter afferrare e guidare con il solo aiuto di un paio di tenaglie il ferro incandescente. Erano i primi anni ’50 e in quella che non era più una fucina artigianale, né era ancora una realtà industriale, si produceva tondino per l’edilizia e la carpenteria leggera. Meno di dieci anni dopo, con il miracolo economico che ormai dettava precise regole di mercato e richiedeva scelte adeguate nella produzione, tutta la struttura disponibile doveva rivelarsi insufficiente. Il locale in cui era cresciuta l’attività dell’officina veniva ampliato a 1240 mq[5], l’impianto veniva potenziato con la costruzione di un nuovo forno e con l’aggiunta di due gabbie e veniva progressivamente adattato alla sola produzione di laminati piatti di tipo mercantile, che si erano rivelati tecnicamente più compatibili con le materie prime reperibili in zona e con le caratteristiche strutturali delle macchine in uso. Una solenne inaugurazione, benedetta dall’Arcivescovo mons. Giuseppe Zaffonato in persona, ed accompagnata dalle autorità locali (sono riconoscibili, nelle foto che documentano l’avvenimento, mons. Domenico Urbani arciprete di Buja, don Saverio Beinat, allora parroco di Avilla, e il cav. Pietro Menis) segnava la nuova fase di crescita verso la quale si stava felicemente muovendo l’azienda. E, dovendo stare al passo coi tempi, non era certo possibile fermarsi. Le nuove esigenze indicavano ormai la necessità di produrre di più, quindi di lavorare in tempi più ridotti e con migliori automatismi. L’aggiunta di uno sbozzatore, capace di iniziare il processo di laminazione senza il faticoso intervento dell’uomo all’uscita del metallo dal forno, permetteva l’utilizzo di billette di maggiori dimensioni, a tutto vantaggio dei tempi di produzione. Il passaggio delle consegne, intorno al ’60, ai figli di Pietro, Francesco e Santo (Riccardo coi figli aveva da qualche anno seguito una strada propria, sempre nella produzione di laminati), ed in particolare ad Enore Vattolo, unico maschio tra gli eredi, vedeva ormai un’azienda moderna, capace di occupare una quarantina di operai di Buja e dintorni, che vedevano così allontanarsi la piaga dell’emigrazione da cui il paese usciva dopo anni di difficoltà economiche. Era un’azienda che solo una decina d’anni più tardi sarebbe riuscita a produrre 70 profili diversi, di cui 5 a sezione quadrata, con quantità che potevano superare abbondantemente i 500 quintali al giorno[6]: cifre che farebbero sorridere la realtà di oggi, assestata su numeri dieci volte più grandi, ma che trent’anni fa, quando l’informatizzazione era ancora una leggenda, rappresentavano una situazione di tutto rispetto ed indicavano soprattutto una concreta capacità dell’azienda di adeguarsi in tempi brevi alle necessità di specializzazione che il mercato segnalava. A migliorare la produzione intervenivano parallelamente alcuni importanti investimenti resi possibili dal nuovo assetto della proprietà: ai Vattolo, infatti, si era aggiunta la partecipazione di imprenditori bresciani con cui da una parte l’azienda chiudeva un’epoca storica che aveva visto come protagonisti i discendenti dei vecchi “Batafiers”, dall’altra si adattava a quelle regole economiche in base alle quali conta la capacità di restare competitivi per crescere e non solo per sopravvivere. Con il nuovo ossigeno portato dai soci bresciani furono infatti possibili un nuovo ampliamento dei capannoni e l’installazione di un treno di laminazione “in continuo”, a gabbie allineate e di una placca di raffreddamento: un impianto che permetteva di ridurre ulteriormente, e di molto, i tempi di lavoro e di aumentare l’automazione eliminando fra l’altro il pericolo di numerosi passaggi fino allora affidati all’attenzione di chi lavorava. Contemporaneamente la Roggia Alta, le cui acque erano state per centinaia d’anni fonte di energia per mulini e battiferro e fonte di ispirazione per Maria Forte e Checo Vattolo nelle loro poesie, veniva chiusa per permettere la costruzione dell’autostrada Udine- Tarvisio. E dovendo continuare a rievocare costi, anche non solo in denaro, da pagare allo sviluppo, va detto che forse per l’azienda uno dei momenti più dolorosi, benché indispensabili a far quadrare i conti, era stato già nel ’72 quello della chiusura della produzione di forche, la qualità delle quali sarebbe rimasta incomparabile, ma anche insostenibile dal punto di vista economico. Il terremoto del 6 maggio 1976 si abbatteva su una Vattolo Ciessebi S.p.A. che aveva affrontato sacrifici e gettato le basi per grandi sogni, ma si trovava a fare i conti, nel giro di un solo minuto, con la prospettiva di doversene andare in luoghi più sicuri. Il sisma non aveva provocato, fortunatamente, cedimenti strutturali di grave entità, né tantomeno era stato causa, come in altre fabbriche vicine, della morte degli operai che a quell’ora erano al lavoro con il turno serale, ma il disastro si misurò immediatamente nei danni procurati agli impianti che erano appena usciti da nuovi, ovviamente costosi, lavori di ammodernamento. Allora, dopo quella catastrofe, fu la determinazione di tutte le maestranze, sostenuta dalla fiducia dei soci bresciani e dalle scelte politiche effettuate in favore della salvaguardia delle realtà produttive, a far ripartire l’attività a tempo di record. Non più di “Ventotto giorni per ricominciare”[7] furono quelli che operai, dirigenti, impiegati e proprietari utilizzarono per riprendersi dalle tragedie personali, talora gravissime, e rimboccarsi le maniche, ciascuno secondo le sue possibilità oggettive. Meno di un mese dopo il 6 maggio gli impianti ripartivano: tra mille difficoltà, con un nuovo terremoto in agguato per tutti il mese di settembre, ma ostinatamente ripartivano, sconfiggendo la paura e la voglia di andarsene. Soltanto dieci anni più tardi, tra il 1985 e il 1986, nuovi interventi rivoluzionavano la linea produttiva: il treno di laminazione veniva completamente computerizzato, eliminando così del tutto la fatica manuale e creando condizioni di utilizzo ottimale delle risorse sia tecnologiche che umane. La produzione, affiancata da una divisione meccanica in grado di intervenire in proprio nella gestione degli impianti, salì a quattro volte tanto rispetto a dieci anni prima ed il mercato, gestito in massima parte a Brescia, trovò sbocchi sempre maggiori soprattutto all’estero. Nuovi lavori di ampliamento e di ammodernamento dei capannoni avevano nel frattempo dato all’azienda un aspetto di modernità ed efficienza che aveva sfumato le tracce di quelle dure condizioni di lavoro in cui si erano mossi, tra scorie e caligine gli operai di un tempo. L’azienda poteva ben dirsi, sotto l’aspetto produttivo e dell’immagine, una realtà d’avanguardia. Ma, come spesso accade, il raggiungimento dei traguardi migliori non mette al riparo dai rischi di crisi. E la crisi era in agguato, sottoforma di difficoltà amministrative, tanto che all’inizio degli anni ’90 ci fu il rischio di mettere la parola fine su un percorso in crescita durato quasi un secolo e mezzo. L’intervento dell’attuale proprietà Banzato di Padova, già leader nell’industria siderurgica del Veneto, riaccese letteralmente i motori dopo un periodo di inattività che sembrò certamente interminabile a chi nella ferriera di Andreuzza aveva per tanto tempo trovato lavoro. Ricostituite velocemente le squadre che avevano dimostrato affiatamento ed operatività negli anni migliori, si ricominciarono le prove di laminazione, puntando però ormai decisamente sulla produzione di acciai speciali a scapito di quelli mercantili che avevano fino allora distinto la produzione della ferriera. Era il marzo del 1993. Di lì a poco, in giugno, era già necessario passare a due turni di lavoro, che sarebbero stati portati a tre nel novembre dello stesso anno. Un’ulteriore aggiunta di tempi utili alla produzione si sarebbe resa necessaria nel ’97, con la creazione di una quarta squadra in grado di assicurare la rotazione del personale in servizio per tutto l’arco della settimana, sabato e domenica compresi, per 24 ore su 24. Il resto è un rapido susseguirsi di scelte, interventi ed adattamenti degli impianti per star dietro alle richieste emergenti: ampliamento della gamma di profili da mettere sul mercato, miglioramento delle modalità di confezionamento in barre e in rotoli, destinati alle trafilerie o alle industrie di produzione di macchine agricole, miglioramento della qualità stessa dell’acciaio in termini di elasticità, resistenza e tutto quanto segnalato per un impiego ottimale presso i destinatari finali. I dati tecnici relativi a queste informazioni direbbero poco a chi non mastica abitualmente il lessico degli addetti ai lavori di un’industria siderurgica, ma il ritmo di attività della Friuli Laminati Speciali di oggi parla da solo e parla più di una lingua. Descrive una realtà che, con una certificazione internazionale di qualità ed un mercato sempre più solido in Italia e sempre più lanciato in Paesi come la Gran Bretagna e la Germania, è ormai abilitata a credere in un efficace slogan augurale che accompagnò nel 1988 la rinascita del centro di Buja e dell’economia locale: anche a questa azienda, dunque, “secoli di futuro!”
[1] “Il battiferro di Andreuzza non specchia più il suo colore nero nella Roggia di Bernardo che lo lambiva a sud. Resta di esso il ricordo nella memoria degli anziani. Chi l’aveva avviato? Era stato il vecchio Francesco Vattolo (morto nel 1886), padre di Paolo. Era venuto da Mulinis e si era fermato col fratello a tomba di Buja. Da lì, era passato da solo ad Ontegnano, poi era finito ad Andreuzza. Aveva comprato un diritto di sfruttamento dell’acqua dei Barnaba… Nel 1845 il vecchio Francesco aveva avviato un’officina dove prima c’era una segheria e di quel fabbro rimane una concessione rilasciata dal governo austriaco. Fu però il vecchio Paolo a dargli più forza, perché ingrandì il maglio…” [2]“Il maglio di Paolo” l’articolo della Forte è pubblicato su Buje pôre nuje n. 4 del 1985. [3] V. Il mai di Pauli cit. [4] ibidem [5] Il dato è ricavato da una bozza di atto di regolarizzazione della Società datata 1970. [6] Dati ricavati dal prospetto riassuntivo della produzione mensile del luglio 1972. [7] “Ventotto giorni per ricominciare” di Sante Osso, Buje Pôre Nuje n 15 del 1996, edizione straordinaria per il 20° anniversario del terremoto, pag. 112-113. |