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2.1 La municipalità.

L’indipendenza da Venezia, anche se la sua autorità è solo sostituita da quella dell’esercito francese, appare come una liberazione, l’autonomia raggiunta consente a Padova, come alle altre città dell’ex dominio, dopo secoli di soggezione, di essere protagonista delle scelte riguardo alla propria storia, attraverso una febbrile attività politica, economica, finanziaria e culturale tesa alla costituzione di un nuovo stato. Nel momento in cui si trova libero dall’influenza veneziana, il territorio di Padova vede ancora gli eserciti francese e austriaco che si confrontano senza aver trovato un accordo diplomatico, tantomeno dunque con una reale prospettiva di indipendenza. Le città più che altro approfittano di una situazione incerta e della debolezza della politica veneziana, appoggiandosi alle truppe francesi, per voltare le spalle alla città di S. Marco e costituire un governo provvisorio, rivoluzionario, di ispirazione democratica. Con l’avanzare dei francesi, le città venete una dopo l’altra dichiarano ufficialmente la propria indipendenza dalla Dominante. A Padova e in tutto il Veneto l’esperienza democratica si sviluppa grazie alla presenza dell’esercito, lo stesso che ne accelera una crisi finanziaria senza precedenti. A risolvere questa congiuntura sono rivolti tutti gli sforzi del ceto dirigente padovano nel breve periodo di permanenza al potere[1].

La città di Padova diviene subito centro di iniziative politiche, e all’interno della sua municipalità democratica emerge il progetto di annessione alla Repubblica Cisalpina, allo scopo di consolidare la condizione di libertà appena ottenuta. C’è anche chi pensa alla costituzione di uno stato a sé stante, che si distacchi il più possibile dal passato regime, questo scopo è perseguito con grande passione dai democratici padovani dal momento in cui, ben prima dell’effettiva caduta del governo repubblicano, i rettori veneziani abbandonano le città della Terraferma e i consigli cittadini interrompono ogni attività politica. Il vuoto istituzionale viene subito colmato da una forma politica ben sperimentata in Francia ma che in veneto risulta inedita, istituita con l’avvallo dell’autorità francese che disponeva di ogni potere: la municipalità, o consiglio cittadino ristretto, di cui entravano a far parte cittadini padovani di ogni condizione sociale, è l’organo di governo della città, istituzione in cui si esprime la sovranità popolare. Nonostante le procedure di scelta dei suoi membri non raggiungano forme di consultazione popolare mature e siano diverse da città a città, a Padova come in tutte le altre, la presenza stessa della municipalità rappresenta un fatto rivoluzionario, anche guardata sotto l’aspetto della componente sociale che la costituisce, più variegata e rappresentativa di quella dei consigli cittadini d’antico regime. Questi infatti, a immagine del Maggior Consiglio di Venezia, avevano serrato l’accesso alle cariche cittadine a oligarchie del tutto simili a quella veneziana, allo scopo di conservare una sorta di autonomia: nulla di simile alle municipalità che concedono rappresentanza politica a fasce di società finora emarginate. A Padova l’amministrazione generale dello stato si organizza in otto comitati, le cui finalità mettono bene in evidenza quali siano gli ambiti politici ritenuti strategici, ad esempio la sicurezza generale, cui spetta anche l’educazione popolare alla democrazia. Alla pubblica istruzione sono affidati compiti di riorganizzazione del sistema scolastico e universitario, si mette in evidenza in tale ambito un atteggiamento nuovo di fronte alla cultura e alla trasmissione del sapere, ora facenti capo a istituzioni gestite e finanziate dallo stato. I comitati militare e sussistenze coordinano gli approvvigionamenti delle truppe francesi stanziate in città, quello di santità è volto alla salute di cittadini e animali, all’economia e alle attività commerciali o bancarie pensano il comitato economia pubblica e finanze con il comitato agricoltura, commercio, arti, mestieri e acque. Anche le podestarie e i vicariati del padovano ricevono i frutti della rivoluzione in atto, diventando sedi di municipalità cantonali e andando verso la fine del particolarismo amministrativo tipico dello stato marciano, da questo momento infatti non si registrano più giurisdizioni speciali in concorrenza tra loro nel territorio.

Nel giugno dello stesso anno, Bonaparte introduce una nuova suddivisione dell’area veneta che vede ridisegnati i confini del territorio di competenza delle maggiori città, e istituito un organo di governo centrale del medesimo. Il Governo centrale del padovano per la prima volta conta tra i suoi membri esponenti del contado, superando così una secolare alterità che poneva città e campagna su piani distinti[2].

L’esercito francese, come anche quello austriaco, fa ricadere tutto il peso del proprio sostentamento sulla popolazione ospitante, a questo proposito in area padovana la municipalità cittadina e il Governo centrale cercano di mettere ordine per evitare sequestri indiscriminati, e garantendo un equo indennizzo a quanti corrispondano beni ai francesi[3]. Le prime requisizioni avvengono a danno di enti ecclesiastici, privati per lo più di metallo prezioso[4]. Anche le somministrazioni di generi alle truppe francesi gravano pesantemente sull’economia cittadina e territoriale, si richiedono generi alimentari in quantità molto superiori a quelle generalmente presenti sul mercato, con pagamenti il più delle volte rinviati nel tempo. Le iniziative di rinnovamento adottate dalla municipalità per far fronte ai costi della rivoluzione sono l’occasione per verificare la forza innovativa del nuovo stato, giorno dopo giorno la rivoluzione del 1797 a Padova si esprime in provvedimenti che modificano l’assetto politico, amministrativo, giudiziario ed economico dello stato marciano. Per prime tocca alle istituzioni politiche e di governo, subito dopo ad essere gradualmente e profondamente rinnovati sono due settori nevralgici della vita dello stato: pubblica amministrazione e giustizia, per instaurare un più moderno rapporto con la macchina statale. Infine i mutamenti avvengono in tema di economia e fiscalità, abolizione dei dazi sui generi di prima necessità, limitazione drastica o soppressione di fedecommessi e manomorte, formulazione delle linee guida di una riforma della fiscalità che possa essere strumento di eguaglianza tra tutti i cittadini[5].

Un ambito di riforma che richiede grande impegno da parte dei municipalisti e dei centralisti (membri del Governo centrale del territorio) è quello della giustizia, l’intenzione è quella di avvicinare il sistema giuridico ai principi di libertà e uguaglianza sospirati dai democratici. Oltre a questo, la riforma della giustizia si rivela come un modo per acquistare la benevolenza dei cittadini, visto il malcontento generato dall’ordinamento precedente. A monopolizzare le energie della municipalità padovana è il tema della giustizia civile poiché già dalla fine di aprile non è più possibile fare riferimento ai tribunali veneziani in sede di appello, per la necessità di garantire processi e sentenze in tempi relativamente brevi viene istituita una Camera delle istanze, in particolare per le cause che richiedono giudizi solleciti, come i divorzi e i matrimoni nulli, la patria potestà sui figli, gli affari urgenti in tempo di fiere o mercati. Anche la materia criminale viene rinnovata, con l’istituzione a Padova e Rovigo di due tribunali criminali di prima istanza e affidando agli uffici criminali dislocati in ogni cantone l’iniziativa di processo, infine solo a Padova è presente un tribunale di appello. Un altro aspetto importante è l’intenzione da parte dei democratici padovani di punire i reati commessi dai funzionari contro la pubblica amministrazione, istituendo un tribunale specifico per quel tipo di reati, il Tribunale nazionale. Questa attenzione al corretto funzionamento della burocrazia statale rispecchia il fatto che questa sia considerata l’asse portante della rivoluzione, e che si voglia costruire attraverso di essa un tipo di potere politico che non sia avvallo di antichi privilegi ma garanzia di libertà ed eguaglianza tra cittadini.

Accanto ai provvedimenti di carattere strutturale volti a definire e modificare l’assetto stesso dello stato, vi sono quelli indirizzati a modificare il tradizionale rapporto dei cittadini con le istituzioni, comprese quelle religiose. A questo proposito fondamentale è la rivendicazione, da parte della comunità dei cittadini e dei fedeli, del diritto, peraltro di antica tradizione, di nomina diretta del proprio parroco e del vescovo, una misura invasiva nei confronti della Chiesa che interpreta il desiderio della comunità di prendere parte alle sue dinamiche in modo diretto[6].

La rivoluzione dei vecchi assetti statali è portata avanti anche nel campo dell’economia, con provvedimenti di risanamento delle pubbliche finanze, iniziative nel mondo commerciale per quanto riguarda i prezzi, l’esercizio dei mestieri e con facilitazioni per l’evoluzione del mercato immobiliare. Segni di novità si palesano anche negli interventi che modificano o cassano dall’ordinamento giuridico determinati istituti ritenuti idonei a una società di tipo aristocratico e non a un governo più democratico. Si costruiscono le fondamenta di un profilo giuridico del diritto di proprietà ritenuto più adatto a una società in evoluzione e in forte via di secolarizzazione. Questi provvedimenti sono adottati anche allo scopo di assecondare una crescita economica senza la quale sarebbe difficile superare la forte crisi della finanza pubblica. In ogni campo dell’economia e delle attività gli interventi sono sempre ispirati a una politica tesa a favorire il maggiore sviluppo economico possibile, eliminando ogni piccolo aspetto che riveli il passato di antichi privilegi[7].

Strettamente legati alla politica fiscale sono da considerare gli interventi adottati per eliminare dall’ordinamento giuridico fedecommesso, primogenitura e maggiorascato. Tali istituti del diritto successorio, dalle forti connotazioni antidemocratiche, miravano alla tutela dell’integrità del patrimonio testamentario, non consentendone in nessun caso la suddivisione, né l’alienazione. Strumento privilegiato della classe aristocratica di antico regime, sono giudicati responsabili dell’immobilismo e della mancata evoluzione dell’economia veneta, poiché impediscono di disporre liberamente del patrimonio, limitando fortemente la circolazione di tali beni sul mercato. Il provvedimento che detta la fine dell’istituto del fedecommesso fissa i limiti temporali oltre i quali non sarà più possibile recuperare i beni soggetti, assicurandone il pieno possesso ai loro detentori. Altrettanto radicata è la persuasione della necessità di intervenire nel campo della proprietà ecclesiastica. Come il patrimonio familiare è destinato a rimanere estraneo al mercato, così può accadere alle proprietà degli enti ecclesiastici costituiti da beni di manomorta, in quanto tali inalienabili. Anche in questo caso l’istituto ha causato la crescita smisurata dei patrimoni ecclesiastici, che solo marginalmente contribuiscono all’economia statale. Parte di queste proprietà sono state impiegate nella concessione di prestiti perpetui con stipulazione di livelli censuari, ovvero in cambio dell’ipoteca di un fondo si esige una prestazione di denaro, il censo. I beni di manomorta non divengono oggetto di nessun tipo di operazione all’interno del mercato fondiario, a meno che non possa venir meno l’obbligo di pagamento del censo, in caso di estinzione del debito.  A Padova più che in ogni altra città della Terraferma, si sceglie di percorrere la strada della secolarizzazione dei beni ecclesiastici, già a partire dalla fine del 1797, riproponendo un indirizzo politico che il governo marciano più volte aveva perseguito a tutela dell’interesse dello stato. La manomorta è colpita duramente tramite demanializzazione e introducendo la possibilità di affrancazione della proprietà fondiaria dai vincoli che la legano alla potestà ecclesiastica o di famiglie aristocratiche. Attraverso un decreto del governo centrale, quindi, si affrancano tutti i livelli da ogni tipo di aggravio per fare in modo che il livellario ne diventi il proprietario effettivo. I due provvedimenti ispirati a una politica di sempre maggiore liberalizzazione dei patrimoni ecclesiastici e familiari, volta a eliminare ogni sorta di vincolo sui beni, capaci di modificare rapporti economici consolidati da secoli, incontrano l’ostilità di quanti vedono in pericolo l’integrità del proprio patrimonio; ma le aspettative legate alle possibili affrancazioni sono alte sia per quanto riguarda le entrate di denaro, sia per l’impulso agli scambi che ne deriverebbe nel mercato fondiario[8].

Parallelamente i democratici padovani si vedono costretti ad introdurre modifiche radicali nel rapporto dei contribuenti con l’erario nazionale, e ad operare una riforma della fiscalità al fine di garantirsi non solo maggiori introiti ma anche condizioni di uguaglianza dei cittadini nei confronti del fisco. A differenza delle istituzioni politiche, rimpiazzate nel giro di pochi giorni, la struttura finanziaria veneziana non può essere sostituita in breve tempo, per questo si opta per introdurre una fiscalità parallela inizialmente riguardante l’imposizione indiretta, ovvero il prelievo daziale[9]. All’indomani dell’ingresso dei francesi a Padova la municipalità emana un proclama che sopprime il dazio sulle attività commerciali e altri tre sui consumi nel tentativo di accattivarsi la benevolenza della popolazione e mettere in cattiva luce l’ordinamento veneziano precedente. Gli interventi in materia di imposte sono chiaramente volti a gettare le basi di una riforma fiscale che possa portare maggiore ricchezza nelle casse nazionali, e l’urgenza di individuare una fonte di gettito costante di denaro porta a intervenire nel campo della tassazione indiretta. La strada più semplice sarebbe quella di inasprire i dazi, ma visto che la municipalità al suo insediamento ha preferito abolire alcune imposte ritenute odiose, almeno inizialmente non allarga l’imposizione indiretta. Questo avviene solo in occasione dell’emergenza legata al commercio del grano, per regolarne i flussi, attraverso il dazio su uva e vino che da sempre garantisce un ingente gettito al pubblico erario, e con il piano di razionalizzazione della distribuzione e del consumo del sale. In questo campo non c’è la volontà di intervenire radicalmente sul sistema, sono corretti solo alcuni aspetti senza tuttavia proporre alternative. L’attenzione è volta a creare le condizioni adatte a sviluppare il commercio dei generi senza scoraggiarlo con tariffe daziarie tropo pesanti, e dall’altra parte garantendo alla popolazione derrate sufficienti a un prezzo equo[10].

Riforme vigorose sono invece introdotte nella tassazione diretta, elaborando nuove imposte e abolendo quelle tradizionali. La novità più significativa è l’abolizione della distinzione tra beni allibrati a fuochi veneti o a fuochi esteri, si tratta di un provvedimento che accoglie il principio fondamentale in base al quale il gettito delle imposte dirette deve rimanere nel territorio dove si trova il bene gravato, indipendentemente da chi ne sia il proprietario. Unificare i criteri di tassazione dei beni allibrati a fuochi esteri e a fuochi veneti, significa rimediare al fatto che le imposte dirette in Terraferma gravano su una porzione di fondi ormai molto limitata, visti i massicci investimenti veneziani su questi territori. Il meccanismo a forte valenza geografica impone che ogni bene posto a Padova e nel Padovano debba essere gravato da tributi destinati esclusivamente alle casse della città. Nel maggio 1797 un provvedimento emanato dalla municipalità padovana comunica che chiunque, laico o ente ecclesiastico, che avesse dovuto pagare a Venezia decima e campatico, in quanto allibrato a fuochi veneti, su beni posti nel territorio di Padova, debba ora versare la medesima contribuzione nella cassa nazionale di Padova. Si sancisce in questo modo il distacco netto e definitivo da Venezia, il superamento dell’antico regime e la modernizzazione dello stato con la fine della sudditanza anche economica, obbligando i veneziani a pagare le tasse a Padova[11].

La distinzione tra imposte dirette e indirette, ovvero tra gravezze e dazi, rimane inalterata, quello che cambia è il rinnovato interesse della municipalità per le imposte dirette, ritenute più idonee a garantire all’erario un flusso di denaro determinabile e sicuro, anche se meno ingente. Per far fronte al deficit di cassa di dimensioni straordinarie dovuto al mantenimento dell’esercito francese, il comitato delle finanze della municipalità impone un taglione, imposta straordinaria che colpisce indiscriminatamente la ricchezza dei contribuenti, calcolata sulla base delle classi di reddito. A pochi mesi dal suo insediamento la municipalità ottiene anche di avviare le procedure per la compilazione di un nuovo estimo generale, dal momento che i dati desumibili dall’ultimo estimo del 1668 non sono ritenuti affidabili. La difesa padovana di questo nuovo estimo si trasforma nella difesa delle risorse economiche, anche potenziali, legate al proprio territorio, alla terra unica ricchezza da difendere. Già alla fine dell’estate dunque, una serie di interventi in materia fiscale e tributaria sono volti a mettere in moto un forte prelievo straordinario, allo scopo di garantire all’erario cittadino quanto poteva essere incassato in forza della vecchia fiscalità veneziana. Pur mantenendo dunque una certa continuità con il passato, con il nuovo estimo generale del 1797, che segna il definitivo superamento del meccanismo di contribuzione della Serenissima legato a un sistema di privilegi, si rende possibile una vera e propria rivoluzione fiscale. Nonostante l’efficacia delle nuove misure adottate, già a metà settembre la situazione finanziaria diventa difficile, al punto di costringere la municipalità all’imposizione di una nuova tassa straordinaria. Questa volta la quota corrisposta è a titolo di prestito, per questo non si sollevano forti obiezioni, un ultimo provvedimento viene preso alla fine di novembre, il testatico, interpretabile come richiamo all’idea che ogni abitante, indipendentemente dalla sua situazione patrimoniale, deve essere considerato contribuente dello stato. Il governo centrale si limita d’ora in avanti a pochi altri interventi volti a mantenere obbedienza ai decreti già emanati[12].

 Il governo centrale accanto a una politica di prelievo fiscale straordinario assai esigente ed efficace nei confronti dei contribuenti, cerca di fronteggiare la crisi finanziaria ricorrendo alla vendita di grandi proprietà ecclesiastiche, dopo la loro secolarizzazione e la dichiarazione di proprietà dello stato. Questa soluzione era già stata più volte sperimentata dallo stato marciano, al fine di regolarizzare e limitare l’accrescimento dei patrimoni degli enti ecclesiastici a danno del mercato fondiario, in occasione della necessità di fronteggiare ingenti spese militari nel 1600 durante la guerra di Candia, e negli anni ’60 del Settecento durante il periodo veneziano delle riforme. In questa direzione si muove il governo centrale del padovano, quando, obbedendo al giurisdizionalismo più rigoroso, alla fine dell’estate 1797 decide di accorpare al patrimonio municipale i beni di alcuni enti ecclesiastici situati nel territorio di propria competenza. Visto il clima favorevole a un’operazione di questo tipo, e i precedenti significativi, con un consenso generalizzato il governo adotta le misure di demanializzazione dei beni ecclesiastici e il loro trasferimento a proprietari laici[13].


[1] Ibid., pp. 42-43.

[2] Silvano G., Padova 1797: laboratorio di una rivoluzione, p. 5-9.

[3] La storia delle requisizioni francesi in territorio veneto è molto ben documentata, l’imponenza della documentazione è probabilmente dovuta al fatto che la richiesta di beni da parte dell’armata d’Italia viene motivata da fattori contingenti di estrema necessità o da ragioni di strategia militare: avvenuta la consegna i francesi rilasciano una ricevuta di quanto ottenuto, facendo ben sperare in un possibile futuro indennizzo.

[4] Id., Padova democratica (1797), pp. 53-54.

[5] Id., Padova 1797: laboratorio di una rivoluzione, p. 28-29.

[6] Ibid., p. 17-21.

[7] Id., Padova democratica (1797), p. 119.

[8] Ibid., pp. 96-102.

[9] Id., Padova 1797: laboratorio di una rivoluzione, p. 24-25.

[10] Silvano G., Padova democratica (1797), pp. 105-116.

[11] Ibid., pp. 66-71.

[12] Ibid., pp. 72-96.

[13] Ibid., pp. 223-233.