RITORNA AL TESTO PRECEDENTE 11 SUCCESSIVA

Cultura e scienza

 3.1 L’attività scientifica in Italia nel 1700.

L’Italia del Settecento è tradizionalmente considerata arretrata rispetto alla cultura scientifico-filosofica europea, e il divario è realmente netto per certi versi. Il caso italiano presenta tuttavia diverse condizioni di sviluppo scientifico nelle diverse aree: la Toscana[1], con i centri di ricerca di Firenze e Pisa, fino al 1670 è tra i maggiori centri di attività sperimentale. In seguito gli esponenti del galileismo “storico” non rinnovano gli strumenti matematici obbedendo a una sorta di filosofia del linguaggio scientifico di tipo umanista, causando il declino della ricerca in campo fisico e matematico. E’ l’Emilia-Romagna[2], con Bologna, ad avere fino al Settecento il più produttivo centro matematico italiano. Padova e il Veneto[3], dal 1710 subentrano a Bologna come maggior centro scientifico. Qui inizia l’elaborazione delle discipline matematiche in rapporto alle nuove metodologie. La Lombardia e lo Stato sabaudo[4] fino al Settecento hanno un’attività scientifica ridotta e poco qualificata, solo il collegio gesuitico di Brera, di fine Cinquecento, è attraversato dalle nuove correnti del pensiero scientifico; già nel Seicento la cultura scientifica del collegio era di buon livello, a prova della penetrazione dei temi filosofici moderni nella cultura gesuitica.  In Piemonte la riforma dell’istruzione introdotta negli anni ‘20 dà risultati scientifici di qualche rilievo solo attorno al 1740, fino a quel momento si può dire assente qualsiasi forma di ricerca. Roma e lo Stato Pontificio[5] costituiscono un caso a sé stante. Ci sono profonde differenze tra zone a didattica scientifica ristretta, pregiudiziali in merito allo sperimentalismo, e i gruppi culturali interni alla curia e agli ordini, con personalità portatrici di temi e impostazioni molto eccentriche rispetto alla cultura ufficiale. L’influsso galileiano e la diffusione dei suoi testi sono molto ampi in contesto ecclesiastico, e creano gruppi di sperimentalisti che operano occasionalmente. Nel Regno di Napoli[6] si riflette la ridotta presenza della matematica nell’assetto culturale meridionale, si può accostare la scuola naturalistica al resto d’Europa solo dopo la stabile ristrutturazione dei concetti filosofici di base.

Nell’età postgalileiana in certi settori della cultura scientifica italiana agiscono dunque fattori frenanti non attribuibili alla comunità degli studiosi nel suo complesso o ai gruppi dirigenti. In generale non è corretto confrontare la “scienza” italiana con quella europea per la non omogeneità della situazione italiana.

L’evoluzione del discorso matematico tra 1667 e 1750 consiste nella progressiva sostituzione della geometria analitica classica con gli strumenti algebrici, in modo sempre più esteso. Queste innovazioni provengono dall’estero, dal momento che il lavoro degli studiosi italiani è caratterizzato da un arcaismo dovuto al consapevole rifiuto delle nuove impostazioni in particolare da parte dei galileiani toscani: in questo caso dunque la tradizione galileiana diviene forza frenante. L’adozione della geometria analitica e dell’analisi avviene in Italia lungo una discriminante di tipo generazionale, nel primo Settecento, in due centri autonomi di tradizione galileiana ma separati dal gruppo toscano: Bologna e Padova. Altro polo di innovazione in campo matematico sono i collegi religiosi degli scolopi o dei gesuiti. I migliori istituti hanno un’evoluzione netta precedente a quella delle università, qui si formano personalità di studiosi tecnicamente all’avanguardia che contribuiranno a realizzare l’adeguamento della cultura italiana a quella del resto d’Europa nel secondo Settecento[7].

Il giudizio riguardo al ruolo della Chiesa cattolica nei confronti dello sviluppo scientifico del Settecento è stato spesso di carattere ideologico, condizionato più da considerazioni di principio, come la presunta inevitabilità di contrasto tra la dottrina cattolica e la filosofia dello sviluppo sottesa alle nuove ricerche, che all’effettiva presenza o assenza di personalità religiose nella didattica e nell’indagine scientifica del tempo. Il contrasto tra Chiesa cattolica e scienza moderna assumerà i connotati ideologici moderni solo in seguito, e cioè nel moto illuministico; di fatto però, la valutazione di inconciliabilità tra istanze innovatrici e valori cristiani, tra scienza e fede, manca del tutto negli scienziati seicenteschi: religiosi come Cavalieri e Castelli sono molto vicini a Galileo, altri, come lo stesso Galileo, criticando l’impalcatura metafisica storicamente sovrappostasi ai valori cristiani e proponendo un concetto di ragione “naturale”, non intendono estendere la critica a quei valori. Il radicamento dell’ideologia illuminista ha fatto sì che la cultura accademico-religiosa sia stata considerata come un blocco compatto resistente alle innovazioni, invece che come una realtà composita, coinvolta in varie modalità nella ricerca attiva. Ai vertici ecclesiastici già dal Seicento è impossibile rinvenire una linea di ostilità nei riguardi della ricerca scientifica, piuttosto momenti di ostilità nei confronti di dottrine filosofiche intese come risultato di ricerca scientifica e alternative ai canoni scolastici[8].

La maggioranza degli aderenti al gruppo galileiano provengono dagli ordini ecclesiastici rivolti ai ceti medio-umili, con finalità assistenziali (e anche dal clero secolare). Sempre imponente è l’impatto culturale dell’impostazione della didattica e della ricerca scientifica nella Compagnia di Gesù: i suoi collegi formano quasi l’intero ceto dirigente e l’opinione colta del periodo. Legami epistolari e frequente circolazione dei docenti tra le sedi assicurano l’adeguamento culturale dei collegi più decentrati, e sono strumento anche di controllo dei risultati ottenuti o di ricerca collettiva. La cultura gesuitica tende a conservare la ripartizione medievale di metodi e competenze, ciò non implica il fatto che questa struttura culturale non abbia fornito importanti contributi, particolarmente in ambiti non strettamente legati alla cosmologia generale. La fedeltà gesuitica all’aristotelismo scolastico non porta a contestazioni di principio nei confronti delle nuove scoperte, ma al tentativo di dimostrare l’insussistenza dei fenomeni stessi o di spiegarli compatibilmente con l’aristotelismo. La condanna del copernicanesimo da parte della Chiesa ad esempio, sia nel decreto del 1616 ispirato dal gesuita Bellarmino che nel 1633 nel processo galileiano, è diretta essenzialmente alla tesi della sua verità fisica, e non alla possibilità di avvalersene come strumento di calcolo; ciò mostra il limite concettuale proprio dell’astronomia gesuitica, ma anche l’esistenza di un’area entro cui le è possibile muoversi con profitto. Il fattore disgiuntivo tra gesuiti e ricercatori “moderni” è palese quando la ricerca si imbatte in fatti anomali rispetto ai postulati aristotelici-tolemaici, che impongono un’analisi strutturale dei dati[9].


[1] Baldini U., L’attività scientifica nel primo Settecento, in Storia d’Italia, Annali 3, Scienza e tecnica nella cultura e nella società dal Rinascimento a oggi, a cura di G. Micheli, Einaudi, Torino, 1980, pp. 470-473.

[2] Ibid., pp. 473-476.

[3] Ibid., pp. 478-479.

[4] Ibid., pp. 479-482.

[5] Ibid., pp. 482-485.

[6] Ibid., pp. 485-486.

[7] Ibid., pp. 491-499.

[8] Ibid., pp. 513-515.

[9] Ibid., pp. 523-524.