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3.4 Le istituzioni scolastiche.

Nel corso del XVIII secolo le istituzioni scolastiche, i contenuti culturali e i metodi di trasmissione del sapere, cioè l’organizzazione didattica e pedagogica della scuola, cambiano profondamente in Italia facendo intravedere nei tratti essenziali l’assetto della scuola moderna. Il momento di maggiore crisi si può individuare nei decenni centrali del secolo, tra gli anni sessanta e settanta, in corrispondenza di alcuni eventi decisivi come la soppressione dei gesuiti e l’ondata riformistica che interessa in quegli anni tutti gli stati della penisola. Un vasto moto di uomini e idee che prende forma intorno alle polemiche di inizio secolo intorno alle lingue e alle letterature nazionali e si consolida negli anni Trenta in seguito alla diffusione delle teorie scientifiche newtoniane, nei dibattiti che esse suscitano in ambienti colti ed eruditi, costituisce un forte movimento di opinione favorevole al radicale riordino del sistema scolastico. I provvedimenti dei governi italiani in campo scolastico alla metà del Settecento, pur incontrando difficoltà e resistenze, per la forte carica giurisdizionalista e antigesuitica che li connota, si realizzano in un clima culturale predisposto a riceverli, costituendo quasi una risposta normativa a istanze già presenti non solo negli ambienti colti e illuminati dell’epoca, ma tra gli stessi accademici e insegnanti a diretto contatto con la realtà scolastica. Prima ancora che nei dispacci imperiali e nelle regie costituzioni infatti la riforma è messa in atto direttamente nei programmi scolastici nelle lezioni degli insegnanti, nella nuova mentalità scientifica che riflette un generale interesse verso una formazione culturale che privilegi le conoscenze utili e tecniche[1].

Ciascuna congregazione religiosa che si rivolga all’istruzione ha sviluppato negli anni di esperienza un proprio metodo e modello pedagogico, una tradizione didattica propria e una manualistica originale. Ciò si spiega in generale con la rivalità e la competizione tra gli ordini che ricavano vantaggio e prestigio dal disporre di propri strumenti didattici, inoltre la scelta di percorrere sentieri diversi in merito alla didattica e alla pedagogia dipende dalla differente condizione sociale e culturale i cui si trovano ad operare: i testi in uso nei collegi per nobili dei gesuiti di certo non potevano essere adatti agli orfanotrofi dei Somaschi o alle scuole di quartiere degli Scolopi  o a quelle provinciali dei Barnabiti. Bisogna però precisare un fatto: la diffusione in Italia e in Europa delle scuole dei gesuiti è decisamente maggiore rispetto a quella degli altri ordini, il bacino di utenza dei loro collegi travalica i confini nazionali e il metodo pedagogico da loro adottato, il modello dell’emulazione, è uniformemente praticato ed efficace, ciò costituisce motivo di prestigio agli occhi dell’opinione pubblica e contribuisce al grande successo delle istituzioni educative della compagnia. L’esperienza pedagogica dei Barnabiti assume tratti innovativi rispetto alla collaudata tradizione dei gesuiti, e costituisce un modello educativo alternativo sul lungo periodo in grado di competere con quello sul piano della istruzione superiore e scientifica. Il bacino di utenza delle scuole dei Barnabiti ha dimensioni provinciali, in quanto rivolti al ceto cittadino dell’imprenditoria urbana o dei possidenti rurali del territorio circostante: per questo non sono previsti nella loro organizzazione convitti o pratiche pedagogiche per l’educazione dei nobili. Il tipo di istruzione proposta nelle loro scuole assume una spiccata valenza pratica, rivolta all’acquisizione di conoscenze utili all’esercizio delle professioni o le competenze tecniche per lo sfruttamento economico del territorio[2].

Le discussioni sulla scuola e sulla necessità di una riforma complessiva alimentano il dibattito che si sviluppa in Italia su questo nei primi decenni del Settecento. Con modalità e impostazioni differenti intervengono su questo argomento quasi tutti gli esponenti della cultura e del mondo accademico italiano: da Gravina a Scipione Maffei, da Vico a Celestino Galiani, per non parlare del Muratori. Tuttavia le considerazioni di questi letterati hanno di mira per lo più le istituzioni scolastiche superiori, le università gli studi pubblici, le accademie, di cui lamentavano la condizione di decadenza. Quasi mai si occupano dell’organizzazione scolastica secondaria, dei collegi e delle scuole pubbliche, esprimendo, come è naturale, le istanze di rinnovamento e le ispirazioni di un ceto di intellettuali nei confronti delle istituzioni educative superiori[3].

Pur considerando le notevoli differenze che intercorrono tra i programmi di riforma dei vari governi italiani, bisogna notare come essi prevedano sempre la creazione di una magistratura centralizzata ed accentratrice: a Venezia viene creata la commissione ad pias causas, la Giunta per gli studi a Milano. Queste istituzioni, direttamente dipendenti dal governo centrale, non avevano solo il compito di preparare ed avviare le riforme, ovvero non erano organismi temporanei creati ad hoc, e legati alla fase di studio e realizzazione dei provvedimenti, ma diventano l’organismo centrale permanente di direzione e amministrazione delle scuole. Attraverso questo meccanismo di centralizzazione burocratica ed amministrativa i governi intendono raggiungere gli obiettivi di uniformità dell’insegnamento e organicità tra i vari gradi dell’istruzione[4].

Più avanti, la rilevanza che durante il periodo rivoluzionario, i governi attribuiranno all’istruzione, sia come strumento di rinnovamento della società che come mezzo per conservarla intatta nelle sue strutture di base, è in linea con il generale interesse alla scuola e alla problematica educativa che ha caratterizzato tutti gli Stati nel Settecento. In questo senso sono diversi gli stimoli che influiscono sul dibattito in materia, un filone di pensiero è quello tedesco, di matrice luterana, che giunge in Italia attraverso gli ordinamenti di Maria Teresa del 1774 applicati alle scuole lombarde, mentre quello francese, che riceve apporti significativi nel periodo rivoluzionario, avanza assieme alle armate napoleoniche, ed ha in comune con il precedente alcune linee generali come la necessità di costruire un sistema di istruzione pubblica che possa evitare la nascita di correnti anarchiche, e la convinzione che il superamento dell’ignoranza significhi superamento della divisione in classi[5]. I temi di fondo del dibattito francese penetrati in Italia riguardano i testi fondamentali da adottare nelle scuole[6], inoltre è materia di dibattito il controllo della scuola da parte delle autorità, l’importanza di insinuare attraverso la scuola la morale, l’amor patrio, i doveri del cittadino. La scuola è importante perché “l’istruzione è come un ramo di potere del Governo, (…). Essa si potrebbe chiamare il potere direttivo dell’opinione. Essa dunque in ordine è il primo dei poteri, poiché l’opinione precede e dirige le leggi, l’esecuzione e i giudizi; è il più nobile dei poteri, perché influisce sull’animo immediatamente con la persuasione; è anche il più importante di tutti, perché salvata l’opinione, altri poteri si possono rigenerare, guastata l’opinione tutto è perduto.[7]

I governi napoleonici considerano l’istruzione elementare come una dei primi e più urgenti compiti dello stato, sul modo di organizzare e scuole e i contenuti della didattica emergono soluzioni diverse, ma comune è la spinta verso l’alfabetizzazione. Durante la Restaurazione sarà chiaro che il cambiamento introdotto dal governo francese è irreversibile, ormai non ci sono dubbi sul fatto che si debba promuovere l’istruzione popolare e sul fatto che debba essere il potere pubblico a farsene carico. La scuola diventa strumento di direzione delle coscienze dei sudditi. Ma la prima difficoltà di ordine pratico che si incontra nella creazione di una rete scolare pubblica estesa su tutto il territorio di uno stato è la non disponibilità di un adeguato corpo insegnante. L’assioma settecentesco che il parroco fosse il naturale maestro dei fanciulli affidati alle sue cure pastorali, negato sul principio dal governi napoleonici, nei fatti risulta difficile da superare. La formazione culturale dei maestri elementari nel 1815  è ancora in progetto, e i fanciulli sono affidati a sacerdoti o laici privi di qualifica didattica. I corsi di didattica cominciano a essere impartiti solo alla fine degli anni ‘30 prima di allora nel Lombardo-Veneto l’unico manuale di didattica disponibile per i maestri è quello di Josef Peitl, che il lombardo Francesco Cherubini ha molto stentato a tradurre dal tedesco e ad adattare alla tradizione italiana[8].

Il sistema scolastico lombardo-veneto si ispira molto alla tradizione teresio-giuseppina e sancisce l’esclusiva competenza del potere laico in materia scolastica[9]. Ma sottolineare il forte controllo statale che gli è stato impresso, non ne fa derivare un carattere più aperto e moderno. La quasi totalità dei testo adottati cui gli insegnanti si devono scrupolosamente attenere, è tradotta dal tedesco, e in ogni ordine di scuole è obbligatorio l’uso del Manualetto doveri dei sudditi verso il loro monarca, una sorta di catechismo politico assolutistico e reazionario[10].


[1] Bianchi A., Scuola e lumi in Italia nell’età delle riforme (1750-1780), La Scuola , Brescia, 1996, p. 11.

[2] Ibid., pp. 41-42.

[3] Ibid., pp. 45-47.

[4] Ibid., p. 53.

[5] De Vivo F., Riflessi della presenza dei Francesi nella scuola padovana, pp. 163-164.

[6] Ovvero un abbecedario repubblicano, un libro di calligrafia, uno di aritmetica, il testo della Costituzione e due catechismi repubblicani.

[7] 27 novembre 1797, Piano di direzione, disciplina ed economia delle pubbliche scuole elementari di Padova. Cit. in De Vivo F., Riflessi della presenza dei Francesi nella scuola padovana, p. 168.

[8] Berengo M., Cultura e istituzioni nell’Ottocento italiano, a cura di R. Pertici, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 80.

[9] Il regolamento del dicembre 1818 prevede un biennio per i fanciulli e le fanciulle tra 6 e 12 anni obbligatorio per quanti risiedono in comune dotato di scuola. Facoltativo il quadriennio di elementari maggiori propedeutici al ginnasio, e un triennio di scuola elementare tecnica che rimane sulla carta. I maestri devono aver compiuto 20 anni ed essere approvati in un esame statale.

[10] Ibid., pp. 82-83.