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4.1.3 Padova tra antico regime e regno napoleonico.

I provvedimenti pubblici di riforma dell’istruzione adottati dalla Serenissima nel Settecento hanno uno sviluppo più limitato nelle città della Terraferma rispetto agli stessi nella città di Venezia, e l’ammodernamento delle istituzioni scolastiche non avviene[1].

Un’antica istituzione educativa padovana sono le “pubbliche scuole” strutturate su tre livelli, le scuole infime, di conti e superiori (di retorica e umanità), con uno scarso numero di frequentanti, dovuto al fatto che i giovani di bassa condizione si accontentano del livello di istruzione minimo per poi proseguire la propria attività in bottega o in uno studio mercantile.

La prima disposizione in materia di ordinamento scolastico nella città di Padova da parte dei francesi avviene nel settembre 1797 e mira all’uniformazione delle discipline e dei metodi di insegnamento, per favorire una uniforme educazione dei cittadini, attraverso l’introduzione di nuove scuole normali. Queste sono una sorta di ginnasio-liceo classico della durata di sei anni, sostanzialmente modellate attorno alla Ratio studiorum dei Gesuiti, con l’ammissione subordinata alle conoscenze di base, saper leggere e scrivere, inoltre, nonostante la città di Padova non ne abbia mai fatto parte, è materia di studio la Costituzione della Repubblica Cisalpina.

Il panorama culturale padovano è del tutto peculiare data la presenza dell’Università, dominatrice della vita culturale, e incentrata sul ruolo dello Studio e del Seminario. La ricerca scientifica è gestita e monopolizzata nel secondo ‘700 dallo Studio padovano, centro propulsore da cui si irradia la vita culturale veneta, perseguendo duplici obiettivi, di utilità pratica nel rispondere alle esigenze del territorio, e di sviluppo delle discipline teoriche. L’istituzione è aperta agli stimoli culturali dei lumi francesi, soprattutto in merito all’insofferenza per il governo veneziano, e molti professori universitari, soprattutto di discipline scientifiche, sono riuniti nella loggia massonica costituita nel 1772 e soppressa nel 1785[2].

La decadenza dello Studio padovano che si riscontra nel Settecento dà origine a diversi tentativi di riportare l’Università all’eccellenza di un tempo. Questa situazione di degrado è dovuta a una cattiva gestione dell’istituzione da parte di coloro che ne sono responsabili, e da alcune disfunzioni  strutturali, ad esempio l’esistenza di cattedre superflue, l’assenza di altre, un calendario accademico mal congegnato e scarsamente impegnativo. Per quanto riguarda la politica di gestione dell’università, fino al 1760 è manovrata dai Riformatori dello Studio di Padova, magistratura veneziana creata ad hoc, cui spetta anche il compito di nominare i professori, che non permette al Senato di entrare nel merito della direzione dell’Università. L’ordine dei Riformatori è fortemente conservatore e, anche nei momenti in cui la crisi dell’istituto si fa evidente, rimane sempre impermeabile all’introduzione di soggetti provenienti dal nuovo patriziato veneto, e tende a limitare i danni e ad apportare le modifiche necessarie a risolvere i problemi senza arrivare mai a discutere un piano di riforma radicale come quelli avviati a Torino e Bologna. Un atteggiamento di questo tipo naturalmente non può invertire la tendenza alla diminuzione delle immatricolazioni che affligge l’Università[3].

La riforma universitaria del 1761 ad opera di Bernardo Nani e Lorenzo Morosini, dura un anno, ma viene rilanciata nel 1768; prevede la riforma delle cattedre, con la soppressione di quelle obsolete, operazione che ha dei precedenti significativi nel 1715, l’introduzione di nuove materie di studio e la valorizzazione delle materie scientifiche e mediche rispetto a quelle teologiche, è in questo periodo che viene introdotta una cattedra di agricoltura pratica, il collegio di veterinaria e più tardi la scuola di ostetricia, l’introduzione dell’italiano oltre al latino nelle lezioni, la riforma dei collegi per gli scolari, l’avvicendamento tra lezioni pubbliche e private, l’unificazione del corpo docente e l’adeguamento degli stipendi dei professori. Questo progetto viene ripreso nel 1771 e completato nel 1772 attraverso il potenziamento culturale e scientifico: nel 1773 la biblioteca diventa strumento di ricerca, nel 1779 è istituita l’accademia patavina di scienze, lettere e arti volta alla creazione di un polo scientifico indipendente in grado di collaborare concretamente con l’amministrazione statale. Nel panorama delle riforme del 1771 ha un posto particolare lo Studio, anche se la maggiore preoccupazione è rivolta alle scuole primarie, concepite progettualmente come condizione dello sviluppo verso gli studi superiori universitari[4].

In contrasto con l’instabilità politica di Padova (si succedono infatti almeno quattro regimi nell’arco di poco più di otto anni, cinque considerando anche la breve occupazione militare francese del 1801), si pone la sostanziale immobilità dell’assetto istituzionale della sua Università, che rimane aperta nonostante i continui rivolgimenti politici, conservando intatti i propri ordinamenti risalenti all’età veneziana, eccezion fatta per pochi ritocchi ad opera della municipalità democratica del periodo giacobino, peraltro immediatamente revocati all’arrivo degli austriaci.

I progetti riformatori delineati prima a Padova e Venezia, poi a Vienna, sono destinati a rimanere lettera morta, dal momento che in questi anni le energie e le risorse delle autorità che si succedono sono tutte rivolte e assorbite dalla sfera  militare, dalla guerra in corso oppure in preparazione.

I progetti di riforma dell’Università padovana ispirati dal regime giacobino del 1797 e più tardi dal governo austriaco traggono ispirazione da istanze molto diverse tra loro ed è interessante esaminarne il contrasto. Mentre Vienna si pone l’obiettivo di “austriciser Venise”, non solo omologando l’Università di Padova a quelle imperiali ma adattando al modello austriaco tutta l’istruzione superiore del Veneto appena acquistato, il governo giacobino promuove la redazione di un Piano degli studi dell’Università di Padova che, pur rispettando la tradizionale autoregolamentazione dell’istituto, intende attribuirle un ruolo paradigmatico nel contesto politico-sociale che si va configurando, assegnando all’Università il compito di saldare l’eredità culturale illuministica ai valori rivoluzionari. Il comitato di pubblica istruzione della Municipalità ha il compito di redigere il Piano degli studi; costituito nel maggio 1797, il comitato è formato da due membri del consiglio comunale (un docente universitario di medicina e il medico Francesco Fanzago cui è affidata la presidenza), altri tre professori universitari, due insegnanti di altri istituti padovani e un segretario.

Il 25 settembre del 1797 il governo centrale approva una serie di regolamentazioni interne all’Università, nel frattempo il comitato ha presentato la parte teorico-filosofica del Piano, e aspetta di mettere a punto quella legislativa, che precisa quali e quante siano le cattedre da istituire, la materia di studio specifica per ognuna, i doveri degli insegnanti. Le “interinali discipline” approvate dal governo riguardano alcune modifiche dell’assetto universitario, ad esempio l’introduzione dell’italiano quale lingua della didattica, ispirate da uno scritto del più noto componente della commissione, Melchiorre Cesarotti, i Provvedimenti di vario genere per la miglior istruzione e per il buon sistema dell’Università. L’attuazione del Piano degli Studi, prevista per l’anno 1797-98, non è affatto sollecita, anzi viene procrastinata perché troppo complessa e  dispendiosa per il pubblico erario, ma si prevede di dare alle stampe il documento una volta completato e approvato dal governo centrale, perché possa essere presentato a Bonaparte e ricevere il beneplacito per la messa in opera. Cosa che lo stesso Napoleone si premura di impedire, firmando il trattato di pace che consegna il Veneto, e quindi Padova, agli austriaci[5].

Dal gennaio 1798, con la presa di possesso del Veneto da parte degli Asburgo, si ha una netta inversione di marcia nel processo di riforma degli statuti universitari. La linea adottata dall’amministrazione austriaca è quella di una integrale restaurazione dello status di antico regime, il progetto abbozzato dai giacobini padovani non viene recuperato, anche se rimane nell’orizzonte politico viennese l’intenzione di prendere in mano la riforma dell’Università di Padova.

Per vedere realizzata una riforma dell’Ateneo bisogna attendere gli anni 1805-1806, ovvero il ritorno del dominio francese e la formazione del Regno d’Italia. In questo momento però il quadro politico è mutato e la città di Padova si vede privata dell’autonomia e delle libertà di cui aveva goduto prima in epoca medievale in quanto città-stato, poi nel periodo giacobino, quando l’Università poteva tentare di autoriformarsi tramite l’opera di un comitato di istruzione pubblica, che era sì un organo municipale, ma di cui facevano parte in larga maggioranza docenti dell’ateneo, e che rifletteva in primo luogo le istanze e gli interessi corporativi di questi ultimi. La riforma napoleonica del 1806 ristruttura completamente lo Studio padovano, applicando la legge sulla pubblica istruzione e i piani degli studi e di disciplina nazionali, varati a Milano tra 1802 e 1803[6].

Sia nel caso dell’Università napoleonica che in quello della riforma mancata da parte del governo giacobino, per quanto si evince dai Provvedimenti del Cesarotti e dal suo contributo al Piano degli studi, è forte il nesso tra la politica e l’istituzione universitaria: non solo quest’ultima è concepita come funzionale alla politica, ma l’istruzione stessa, in ogni sua forma e grado, è considerata oggetto di intervento da parte dello stato. Il concetto di pubblica utilità di matrice illuministica pone l’istituzione al servizio dei bisogni dello stato, niente di più contrario al concetto di università come “società scientifica”, al centro invece della tradizione accademica tedesca. Storicamente i docenti universitari dell’Ateneo padovano non hanno mai goduto di un quadro istituzionale di riferimento, in cui far valere le proprie istanze corporative, data questa tradizione non c’è da meravigliarsi se la miniriforma del 1797 non ha pensato di modificare i rapporti di forza tra Ateneo e potere politico a vantaggio dei professori, ma anzi ha sostituito i Riformatori dello Studio di Padova veneziani con un direttore di dipartimento del governo centrale, e il Senato della Repubblica marciana con lo stesso governo centrale per quanto riguarda l’autorità di nomina dei docenti. Addirittura la riforma auspicata dal Cesarotti doveva togliere ai professori anche le cariche di vertice dell’Università, assegnate loro dai Riformatori nel 1738 a spese degli studenti. In sostanza la posizione dei giacobini padovani si può paragonare alla volontà da parte del Regno d’Italia napoleonico di controllare ogni grado dell’istruzione attraverso una gerarchia di cariche di diretta emanazione dell’autorità centrale[7].

Tra i due modelli di Università, quella giacobina del Cesarotti e quella napoleonica, ci sono però anche forti divergenze: innanzitutto in merito alla suddivisione di compiti tra il mondo delle Accademie, cui spetta la ricerca scientifica, e l’Università, che si limita a divulgare un sapere consolidato, teorizzata e proposta dal Cesarotti, il quale accoglie anche la divisione tra lezioni ex cathedra e “private”, respinta dagli ordinamenti francesi, riducendo drasticamente di numero le prime per favorire le lezioni “private” in cui si ammettono domande e opportune delucidazioni sugli argomenti.

L’Università napoleonica si presenta come un corpo di materie di insegnamento ben organizzato e suddiviso in classi, in quanto al contenuto scientifico, e in facoltà ai fini della formazione professionale, aspetto quest’ultimo che non viene preso in considerazione da Cesarotti. L’Università dei giacobini padovani è un’Università chiamata alla ricerca scientifica nell’ambito di un progetto enciclopedico, che tutela tutte le discipline razionali e filosofiche, poiché tutte contribuiscono al bene dell’uomo, della società e della natura, al contrario l’Università napoleonica riconosce il proprio metro di giudizio nella utilità diretta degli studi, e trasforma i professori universitari da ricercatori autonomi a impiegati pubblici[8].


[1] De Vivo F., Riflessi della presenza dei Francesi nella scuola padovana, p. 165.

[2] Preto P., L’Illuminismo veneto, in Storia della cultura veneta, Il Settecento, vol. 5 I, a cura di Neri Pozza Editore, Vicenza 1985, p. 35.

[3] Del Negro P., L’università, in Storia della cultura veneta, 5 I, pp. 47-58.

[4] Ibid., pp. 71-72; Soppalsa M. L., Scienze e storia della scienza, in Storia della cultura veneta, 6, pp. 494-495.

[5] Del Negro P., L’università di Padova tra l’utopia giacobina e l’omologazione napoleonica, in Istituzioni e cultura in età napoleonica, a cura di Brambilla E., Capra C., Scotti A., FrancoAngeli, Milano, 2008, pp. 419-421.

[6] Ibid., pp. 421-422.

[7] Ibid., p. 423-425.

[8] Ibid., p. 426-428.