4.3.1 I licei napoleonici.
La riforma della pubblica istruzione nella Repubblica italiana porta la data del 4 settembre 1802, giorno in cui è adottata la corrispondente legge francese, varata quattro mesi prima. A dispetto dell’identità di nomi e istituti, è da sottolineare la profonda diversità di contesto che distingue il sistema italiano da quello transalpino, soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra scuole statali e collegi religiosi. I collegi religiosi in Francia sono stati fatti sparire all’indomani della rivoluzione[1], le scuole statali quindi non subiscono la concorrenza dei collegi ormai dal 1792, quando con la soppressione di tutti gli ordini regolari, compresi gli ordini insegnanti, e con l’esclusione della religione cattolica dalle scuole, si decreta la scomparsa delle scuole confessionali cattoliche. Il sistema dei collegi religiosi in Francia viene sostituito in una prima fase da scuole centrali e scuole superiori statali, in seguito la grande legge napoleonica del 1802 va a ridisegnare il complesso delle scuole centrali, facendoli diventare licei a internato. Il modello cui si rivolgono i neonati licei imperiali è quello delle antiche facoltà di Arti, e coprono le discipline del biennio filosofico della medesima facoltà, comprendendo logica, fisica, metafisica scolastico-aristotelica, le stesse affrontate nell’ultimo biennio di studio nei collegi religiosi. Il sistema dei licei francesi dunque, contiene un implicito ritorno al passato nella scelta di adottare il modello educativo basato sull’internato, quello dei collegi-convitti dei Gesuiti. Il personale insegnante non è religioso ma laico, e il curriculum degli studi è profondamente modificato: come per le scuole centrali un ruolo importante è dato alle scienze e alle lingue moderne, a discapito del latino e delle materie umanistiche, i simboli religiosi sono sostituiti da quelli militari, come il suono del tamburo e l’uniforme da cadetti[2].
In Italia, i licei nati in attuazione alla legge del 4 settembre non sono collegi-convitti ma piuttosto una sorta di piccole università. Pur accogliendo le direttive francesi in merito all’aggiornamento delle discipline, organizzano i licei in maniera diversa, facendone non dei collegi ad internato ma scuole per soli esterni; questo perché in Italia i collegi religiosi a convitto esistono ancora e sono numerosi e fiorenti, gestiti dopo la soppressione della Compagnia di Gesù da altri ordini, Scolopi, Barnabiti, Somaschi e da altre congregazioni insegnanti costituite spesso da ex gesuiti. La vera originalità del caso italiano sta nel fatto che vengono riciclati con il nome di licei tutte le università minori degli Antichi Stati inglobati nella Repubblica italiana (Reggio Emilia, Modena, Mantova, Ferrara…), quelle che il piano “nazionale” francese voleva sopprimere, per conservare come tali solo le Università più grandi (Pavia e Bologna); ma saranno conservate anche l’università di Padova, dopo la riconquista del Veneto nel 1806, Torino, Genova e Pisa, a testimonianza del fatto che questa istituzione in Italia è giudicata molto poco potente[3]. Lo scarto più netto tra la situazione italiana e quella francese sta proprio in questo: le Università francesi alleate ai Parlamenti sono grandi corporazioni conservatrici contrarie a ogni forma di assolutismo illuminato, ma laddove l’articolazione corporativa e cetuale della società è più debole, e questo è il caso italiano, l’assolutismo illuminato diventa realizzatore di iniziative di riforma. Inoltre la caratteristica della Repubblica italiana di comprendere al suo interno province autonome e città stato che coltivano l’antico orgoglio municipale, fa sì che si creino all’interno delle istituzioni statali, nicchie di potere custodite dalle oligarchie dirigenti. La legge del 4 settembre lascia a ginnasi e licei una certa elasticità nell’elaborazione del piano di studi, questo fatto, unitamente alla cessione della direzione di questo livello di studi ai consigli dipartimentali, crea scuole secondarie a misura di città capoluogo. In questo contesto, la classe dirigente inserita nelle professioni liberali o negli uffici intermedi dello Stato, ha tutto l’interesse a creare dei poli “universitari” locali, per inserirci i propri figli, o per accrescere il prestigio della propria “patria”[4]. Una terza differenza sta nel fatto che in Italia manca una tradizione anticuriale paragonabile a quella che matura in Francia nell’età dei Lumi, di conseguenza la realtà dei collegi religiosi e degli ordini regolari insegnanti viene lasciata intatta, ad eccezione dello scioglimento della Compagnia di Gesù, anche durante il Triennio giacobino; in Italia le soppressioni di congregazioni regolari si limitano a colpire quelle contemplative, conservandole anzi, se si impegnavano ad aprire scuole. In Italia la realtà dei collegi è ricca e molto diffusa, rispetto a questi, sono i nuovi licei ad essere guardati con sospetto e diffidenza, inoltre i collegi sono completamente al di fuori del potere conoscitivo dello stato, sottratti ad ogni controllo da parte di una autorità che non sia quella ecclesiastica. In Italia accanto ai collegi religiosi, a fare concorrenza alle scuole statali ci sono i seminari vescovili, che per tutto il Settecento, e in particolare dopo la soppressione dei Gesuiti, non sono scuole teologiche specializzate ma normali scuole di ginnasio-liceo, pubbliche e aperte a studenti esterni, dotate di un convitto che accoglie soprattutto laici, a rette modeste, e una minoranza di borsisti da avviare al sacerdozio.
Al culmine dello scontro tra Napoleone e il papato, nel 1809-1810 si apre una nuova ondata di soppressioni, che colpisce in Francia, senza fare eccezioni, tutte le corporazioni religiose. Di riflesso in Italia solo dal 1811 al 1813 si procede allo scioglimento di tutti gli ordini religiosi, compresi quelli insegnanti, ma questo non significa soppressione dei relativi istituti bensì recupero e secolarizzazione. Scopoli, direttore di pubblica istruzione, li trasforma in licei-convitti statali, lasciando spesso al suo posto il corpo di insegnanti ex religiosi, benché a titolo individuale. In Italia dunque il processo di rinnovamento del settore dell’istruzione avviene attraverso un graduale inserimento all’interno della compagine statale dell’insieme degli istituti scolastici religiosi, fino a quel momento monopolio direttivo e conoscitivo della Chiesa. Alla fine dell’esperienza napoleonica in Italia ancora la direzione di pubblica istruzione non punta all’obiettivo dell’estinzione dei collegi privati, ma cerca un equilibrio tra realtà statale, privata ed ecclesiastica, linea perseguita in seguito anche dall’Austria nel momento dell’acquisizione del Lombardo-Veneto. Lo stesso Scopoli, confermato nel
In Italia il corpo insegnante è ancora costituito da sacerdoti appartenenti a congregazioni regolari, anche se come in Franca i licei napoleonici del Regno italico cominciano ad avviare all’insegnamento nobili dilettanti e giovani promettenti. I licei-convitti organizzati tra 1808 e 1811, che si rifanno al modello francese e non si possono più considerare mini università, incontrano grande ostilità, poiché manca del tutto la preparazione culturale per affidarsi a un sistema scolastico laico sotto il profilo direttivo, del personale e delle discipline di insegnamento. La nascita della nuova carriera di professore laico deve attendere ancora qualche tempo, giacché in seguito alle soppressioni del 1811-1813, durante
L’anno 1807 è quello che vede l’istituzione del liceo-convitto, accanto al liceo senza convitto, modellato sul corrispondente liceo imperiale francese, una sorta di alternativa laica e statale alle scuole religiose, inoltre con i decreti di quest’anno lo Stato avoca a sé tutte le rendite particolari applicate a licei e università, si procede al riordino e all’uniformazione delle cattedre su tutto il territorio nazionale e viene perfezionato il percorso formativo che conduce i giovani dal ginnasio all’università. Le cattedre liceali sono fissate nel numero di nove, il corso è triennale. Alcuni interventi tra 1807 e 1813 mettono in evidenza quale sia la strategia di fondo perseguita dalla direzione generale di pubblica istruzione, ovvero promuovere e affermare la suola statale nella società e nell’opinione pubblica, in aperta contrapposizione con gli istituti privati ed ecclesiastici che fanno ancora concorrenza. Questo si attua, all’interno degli istituti, attraverso uno stretto controllo governativo sul reclutamento del corpo docente, la disciplina degli studenti, la gestione economica delle scuole, sui libri di testo adottati e i metodi didattici[7]. A questo proposito dal 1810 si moltiplicano gli interventi su metodi e contenuti dell’insegnamento. Gli ultimi anni del Regno sono caratterizzati da un incessante lavoro di cernita e valutazione dei libri di testo, che va nella direzione di un controllo politico dell’istruzione pubblica, ma anche di un miglioramento della didattica. La situazione in cui ci si trova ad operare è quella di un insegnamento fatto di lezioni impartite con il metodo della mera dettatura, per l’incompletezza o per la mancanza di testi di riferimento, con scelte didattiche difformi tra le scuole nelle stesse materie di insegnamento. Per la cattedra di storia, ad esempio, manca un testo completo e aggiornato cui fare riferimento; nell’ottica di una nuova autonomia della disciplina, la commissione preposta decide di confermare l’utilizzo del testo di Bossuet[8], completato con aggiunte relative ala storia contemporanea, e corredato dalle tavole cronologiche di Blair. Le proposte sui testi scolastici vedono la luce in un decreto del 5 novembre 1813 cui è allegato l’elenco dei titoli definitivamente approvati dalla commissione, di quelli sospesi in attesa di revisione e correzione, e di quelli tollerati in attesa di sostituzione. Per quanto riguarda i docenti, in questo periodo si assiste a una crescente professionalizzazione e omogeneizzazione della categoria, che conserva comunque una certa difformità al suo interno, se non altro per la svariata provenienza dei suoi membri. Il corpo degli insegnanti che opera nel
[1]
Entrambe le istituzioni vengono abbattute dalla rivoluzione francese, odiate come simboli di conservatorismo e privilegi, tra 1790 e 1792 tutte le antiche forme dell’istruzione superiore vengono distrutte per essere in seguito riformate; in Italia, al contrario, le università non incontrano movimenti rivoluzionari forti al punto da demolirle, inoltre, nel corso del Settecento, hanno conosciuto un riformismo più o meno deciso da parte dei sovrani illuminati. In Italia le esperienze riformatrici sono state capaci di aggiornare il sistema delle Università introducendo novità strutturali e didattiche, questo avviene in modo evidente a Torino e Pavia, in minor misura a Pisa, Bologna, Roma e nella stessa Padova. Mai in Italia si è pensato a una totale abolizione delle Università, anche nel periodo di più forte svecchiamento del sistema, durante il Triennio giacobino, il sistema universitario pare più bisognoso di rinnovamento che di radicale ricostruzione. In Brambilla E., I licei e l’Université impériale, pp. 433-435.
[2] Ibid., pp. 439-441.
[3] Ibid., pp. 441-443.
[4] Pagano E., I licei italici tra iniziativa statale e realtà urbane, in Istituzioni e cultura in età napoleonica, p. 455.
[5] Ibid., p. 470-471.
[6] Brambilla E., I licei e l’Université impériale, pp. 451-453.
[7] Pagano E., I licei italici, p. 458. Per i libri di testo da adottare nelle scuole cfr. Appendice, lettera al podestà di Udine, 28 luglio 1808.
[8] Jacques-Bénigne Bossuet, Discours sur l’histoire universelle, del 1681.
[9] Pagano E., I licei italici, pp. 466-467, dati riportati da p. 467.