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I seminari

5.1 I seminari tra Cinque e Seicento.

La storia della formazione del clero e dei seminari in età moderna si può delineare attraverso tappe e momenti significativi che ne segnano l’evoluzione. Due elementi in particolare sono significativi nel cammino dell’istituzione dei seminari: l’applicazione dei decreti tridentini a Milano da parte di S. Carlo Borromeo, il quale elabora un regolamento per i suoi seminari che sarà preso ad esempio e modello di tutti i successivi regolamenti dei seminari italiani; la spiritualità della scuola francese, che sarà la base più significativa su cui si fonderà la spiritualità sacerdotale in Italia.

La tradizione della formazione sacerdotale in epoca pretridentina si rivolge all’esempio di sant’Agostino vescovo di Ippona, che trasformò la sua casa in una comunità presbiterale, dove monaci, chierici e sacerdoti conducevano vita comune: si forma così l’uso di praticare un periodo di convivenza con il vescovo o con un prete, che avrebbe preparato il chierico a ricevere gli ordini sacri. Sorgono così le scuole parrocchiali, che i papi si premurano di regolamentare per quanto riguarda l’età minima di accesso al sacerdozio, e la cultura da acquisire riguardo a lettura e scrittura, storia sacra, cerimoniale e canto liturgico. L’esigenza di non avviare al sacerdozio persone culturalmente sprovvedute porta alla formazione di scuole specializzate alla formazione dei chierici, inizialmente connesse con i monasteri, poi vescovili e cattedrali. In seguito si arriva alla creazione presso tutte le chiese cattedrali di una scuola gratuita assegnata ad un maestro riservata non solo alla formazione dei chierici ma anche ai giovani che non possono permettersi di pagare gli studi. Le scuole cattedrali dirette maestri di rinomata cultura e che attirano alunni in gran numero ricevono il titolo di Studium Generale, assieme alla facoltà di conferire titoli accademici. Da questi a partire dal XII secolo si formano le università, con le frequentatissime facoltà teologiche, e presso le università nascono i collegi atti ad ospitare gli studenti che vengono da fuori città, tra questi, coloro che intendono diventare sacerdoti sono invitati a osservare norme di vita quotidiana stabilite allo scopo. Si pongono così le premesse per quella che sarà in seguito la prassi comune di formazione dei futuri sacerdoti[1].

Il modello decisivo che ispira i padri conciliari nell’elaborazione del decreto tridentino è offerto da sant’Ignazio, che fonda a Roma nel 1551 il Collegio Romano e l’anno successivo il Collegio Germanico. Il Collegio Romano nasce come una “Scuola di Grammatica, di Humanità e di Doctrina Christiana” gratuita, diretta dai padri gesuiti, cui due anni dopo viene aggiunto l’insegnamento della teologia, nella quale si intende offrire agli studenti una formazione il più possibile completa: culturale, spirituale e della salute fisica. Il Collegio si ispira al modello universitario, e fornisce titoli accademici. Il Collegio Germanico vuole essere invece il luogo di formazione per il clero diocesano tedesco, fondato nel 1552 per dare la possibilità ai sacerdoti di questa nazione di crescere nel clima della severa ortodossia romana. Nelle sue Costituzioni, che il papa approverà nel 1584, è introdotta una novità che sarà poi ripresa dai padri tridentini: la presenza, accanto al rettore del collegio e ai confessori, dei direttori spirituali. Anche in Inghilterra il card. Pole, convoca nel 1555 un Sinodo nazionale che emana una serie di decreti nei quali per la prima volta si parla di seminari, da istituire obbligatoriamente in ogni diocesi, anticipando in buona parte quelle che saranno le indicazioni del Concilio di Trento[2].

Il problema della formazione del clero viene trattato dai padri conciliari soprattutto nel 1563, quando una specifica commissione è incaricata di stendere un progetto di riforma, che subirà i correzioni e modifiche prima di giungere all’assetto definitivo, approvato all’unanimità nel luglio dello stesso anno. Il Concilio, che impone a ogni vescovo di fondare un seminario nella propria diocesi, non obbliga i chierici a frequentarli, di fatto rendendo questo nuovo tipo di formazione una proposta non vincolante, tanto che ancora a lungo i sacerdoti diventeranno tali seguendo il sistema tradizionale. Inoltre, passati i primi decenni di entusiasmo post-conciliare, nei quali molte diocesi provvedono ad avviare l’opera dei seminari, lentamente queste istituzioni vanno a decadere, per mancanza di alunni, per carenza di fondi adatti a mantenerli, o per disinteresse da parte dei vescovi. Se alcuni hanno subito avuto successo, ciò dipende quasi unicamente dalla volontà e dalla capacità organizzativa dei vescovi che li hanno diretti[3].

L’immediato proliferare di seminari subito dopo la fine del Concilio in Italia, si deve anche al forte impatto dell’opera di Carlo Borromeo, già segretario pontificio, che decide di dedicarsi completamente all’attività pastorale, e soprattutto a quello che considera lo strumento essenziale per una migliore formazione dei futuri sacerdoti: il seminario. Nel fare questo, il Vescovo stende un regolamento per dirigere la vita dell’istituto e di quanti entrano a farne parte, strutturandolo attorno ai tre cardini della formazione del sacerdote: l’esercizio della pietà, lo studio e la disciplina. Per ciascuno di essi, san Carlo indica le linee essenziali e il metodo concreto attraverso cui attuarli. La vita del seminarista deve essere cadenzata da periodici esercizi di pietà, a cominciare dal momento in cui entra in seminario, con una settimana di esercizi spirituali. La maggior parte delle ore della giornata è dedicata allo studio, fondamentale importanza è data alla conoscenza del latino, premessa necessaria allo studio della filosofia e della teologia. Il Borromeo prevede di identificare man mano le attitudini di ogni seminarista, al fine di indirizzare ognuno verso gli studi adatti al tipo di carriera ecclesiastica che andrà ad intraprendere. A questo proposito, ogni candidato viene sottoposto ad un esame prima di ricevere l’ordinazione sacerdotale, per verificare la sua preparazione ma anche l’idoneità a compiere quel passo, inoltre sulla base di questo esame ogni individuo viene indirizzato verso una determinata “classe”, condizione di vita e di ministero strettamente connessa alle sue capacità. Quanti hanno spiccate qualità oratorie e conoscono ottimamente i casi di teologia morale, vengono avviati alla prima classe, tra questi ci sono i futuri insegnanti, i vicari foranei, i dignitari ecclesiastici. La seconda classe accoglie i meno bravi in teologia morale, ma perfetti conoscitori del catechismo romano, la terza classe comprende quanti sono in grado di comporre semplici spiegazioni del Vangelo, amministrare e spiegare i sacramenti. Quanti non sono portati per lo studio delle lettere, ma sono in grado di spiegare al popolo i sacramenti e l’essenziale per la salvezza, vanno a comporre la quarta classe, anche a loro sarà possibile affidare qualche ruolo pastorale in casi di carenza di sacerdoti, o solo temporaneamente. Il Borromeo però è contrario all’esclusione dal sacerdozio di quanti sono carenti solo intellettualmente, e per questo prevede una quinta classe composta da quanti non avrebbero mai ottenuto responsabilità pastorali dirette. La conoscenza minima indispensabile da acquisire, con lo studio della filosofia e di almeno un biennio di teologia, è il catechismo, i casi di coscienza, la Sacra Scrittura e la retorica ecclesiastica[4].

La fondazione di seminari da parte delle diocesi italiane continua per tutto il Seicento,  nonostante buona parte dei preti continui ad essere formata al di fuori di questi. Spesso i seminari sono solo convitti adibiti ad abitazione, e i chierici per le lezioni si rivolgono a scuole esterne, in altri casi i seminari ospitano oltre che i futuri sacerdoti, anche alunni esterni, permettendo allo stesso modo sia agli uni che agli altri di vivere presso la famiglia di origine e frequentare il seminario solo per le ore di lezione. Inoltre in molte diocesi il clero addetto alla cura d’anime è in netta minoranza, ciò si può imputare alla mancata capillarità della formazione all’interno dei seminari, così in questo periodo fioriscono congregazioni religiose, o gruppi di sacerdoti, che si impegnano nell’apertura di corsi di predicazione e case per esercizi spirituali rivolti a chierici e preti. Queste istituzioni hanno un modello di riferimento in Francia, dove la pratica degli esercizi spirituali è diventata la forma di preparazione principale all’ordinazione sacerdotale. In Francia l’opera di alcuni vescovi da vita a un modello di formazione dei futuri sacerdoti che avviene attraverso due istituzioni: il seminario minore (le petit séminaire), in cui si studia soprattutto Umanità e Filosofia, e il seminario maggiore (grand séminaire), che si occupa di preparare direttamente al servizio sacerdotale. La formazione teologica data ai seminaristi non è di alto livello, ci si preoccupa di fornire più approfonditamente la casistica morale per i confessori e soprattutto le attività pratiche: servizio divino, amministrazione dei sacramenti, canto sacro, cerimonie, catechismo, oratoria sacra[5].

Il modello carolino e quello francese sono in sostanza quelli cui fanno riferimento i responsabili della formazione del clero in Italia, Francia e Spagna. In Germania invece, la formazione sacerdotale avviene secondo il vecchio rapporto tra seminario e scuole di Stato, ovvero i seminari restano collegi residenziali i cui ospiti frequentano le università statali, e non si giunge mai a costruire un sistema di seminari concepiti come realtà autonome per la formazione del clero. Anche i programmi di studio sono pressoché analoghi in tutte le regioni: umanità e retorica, filosofia, teologia morale, alle quali presto si aggiungono lingua greca oltre che latina, storia ecclesiastica (inizialmente ridotta alla storia sacra), diritto canonico e civile, calendario liturgico.


[1] Guasco M., La formazione del clero: i seminari, in Storia d’Italia, Annali 9, La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea dal Medioevo all’età contemporanea, a cura di G. Chittolini e G. Miccoli, Einaudi, Torino, 1986, pp.635-636.

[2] Ibid., pp.640-641.

[3] Ibid., pp.642-647.

[4] Ibid., pp.649-652.

[5] Ibid., pp.656-661.