Renzo Vidoni |
PROCLAMA AI COSACCHI Proclamma emanato dal Ministro per l'est, Rosenberg, alla fine del 1943: "In riconoscimento dei servizi da voi resi sul campo di battaglia di questa immane fra tutte le guerre, per rispetto dei vostri diritti sulla terra che fu imbevuta del sangue dei vostri padri e che vi è appartenuta per mezzo secolo, in riconoscimento del vostro diritto all'autonomia, riteniamo giusto e nostro dovere promettere a voi, cosacchi del Don, del Kuban, del Terek e altri eserciti, nonché a quei russi che con voi hanno combattuto contro i sovietici, quanto segue: 1)la vostra autonomia che ha fatto la vostra storia e la vostra fama; 2)l'intangibilità del possesso della terra da voi acquisita con il vostro lavoro e quello dei vostri avi; 3)qualora gli eventi bellici dovessero rendere temporaneamente impossibile il ritorno nella terra dei vostri padri, noi faremo risorgere la vostra vita di cosacchi nell'Europa orientale, sotto la protezione del Fuhrer, ponendo a vostra disposizione la terra e tutto ciò che è necessario per una vita autonoma." Ho voluto trascrivere questo proclama, perché ciò potrà rendere più facile l'interpretazione degli eventi. Innanzitutto è chiaro che con questo i tedeschi volevano assicurarsi al massimo la lealtà del popolo cosacco, garantendo l’autonomia, e in caso di "eventi bellici non controllabili" e di impossibilità a far ritorno alle terre natìe, provvisoriamente promisero loro una "nuova terra promessa". Uno dei documenti storici del luglio 1944, sempre del maggiore Muller, riporta che in un incontro a Trieste tra il comandante delle S.S. tedesche del Litorale Adriatico, Odilio Globocnik, l'Ataman (capo) cosacco Domanov, ed un rappresentante del ministro Rosemberg, si decise che la "nuova terra promessa" sarebbe stata il Friuli. Ufficialmente fu battezzata dai tedeschi "Kosakenland in Norte Italien". Ai tedeschi interessava sì la lealtà dei cosacchi, ma più di tutto interessava loro mandare questa armata contro i partigiani e cosi assicurarsi le importanti vie di comunicazione tra il litorale adriatico e la Germania. Per diversi mesi nell'estate del 1944, la Carnia, cioè il Friuli alpino, era divenuto territorio libero con governo proprio, completamente sotto il controllo dei partigiani. Così pure una fascia del Friuli orientale era divenuto zona libera. Tutto questo per i tedeschi era una grande spina nel fianco, le circostanze belliche del momento non permettevano loro di disporre di truppe, preziose altrove, per il controllo di queste zone, perciò l'arrivo dei cosacchi fu una manna scesa dal cielo dell'est... Nel frattempo l'armata cosacca era in continuo movimento, in continua ritirata; raggiunse la Polonia, dove unità armate furono impiegate per la repressione della popolazione del ghetto di Varsavia che era eroicamente insorta contro il giogo nazista. * * * Nell'agosto del 1944 i primi scaglioni di cosacchi arrivarono alla chetichella in Friuli. Furono immediatamente impiegati dai tedeschi nel disastroso assalto ai paesi di Torlano, Faedis, Nimis e Attimis, nel "Territorio Libero Orientale", dove devastarono, rapinarono, bruciarono letteralmente questi villaggi, uccidendo vecchi inermi e giovani del posto. Ricordo chiaramente ancora oggi quelle tragiche giornate. Mi trovavo sul versante occidentale delle Prealpi carniche, oltre il fiume Tagliamento. Ero un giovane partigiano della Osoppo. Io e altri quattro amici, coetanei e compagni di scuola, stavamo distesi, appoggiati sui gomiti reggevamo il mento con le mani, sull'estremo costone della montagna, e commentavamo questa tragedia. A quel tempo, la nostra Patria era sui monti! Per due giorni si sentì l'eco continuo dei cannoni che bersagliavano quei poveri paesi; la notte sembrava una continua alba rosso-cupo; di giorno, lingue di fumo dalle diverse località s'innalzavano grigie per poi formare un'unica enorme nuvola scura. "Fra poco toccherà a noi" pensavo, malgrado l'entusiasmo della giovinezza. Gli amici, senza parole, asserivano. Un senso di tristezza vagava nell'aria. "Arriverà la fine anche per noi, ma quando?". Alcuni giorni dopo, fui attaccato da una febbre reumatica e fui subito ricoverato presso le suore del paese di Forgaria, ove ebbi le più attente cure possibili. Il vice comandante del battaglione mi venne a trovare e mi consigliò di riportarmi in pianura perché "nella presente situazione, dobbiamo avere dei partigiani in piena efficienza". Alcuni giorni dopo, un mio amico mi portò gli effetti personali e assieme a lui, che si trovava pure malandato, ci incamminammo verso la pianura. Con l'aiuto di guide-staffetta, arrivammo al nostro paese senza alcun incidente. Miglioravo di giorno in giorno e con disinvoltura cominciai a gironzolare per il paese. La meta preferita era la fontana della piazza del municipio, dove ci si raggruppava per commentare gli eventi del giorno, per trasmetterci qualche messaggio o qualche ordine da eseguire. Un giorno, una vecchietta ansimando e additando verso una curva della salita che porta al centro, disse ad alta voce: “A son i sìngars, e rìvin i sìngars...” (Sono gli zingari, arrivano gli zingari...). Ci guardammo in faccia e, spontaneamente, ci mettemmo a ridere. Dalla curva alla piazza sono circa 300 metri e quindi una rapida discesa, che porta sul Piazzale del mercato, al centro di Buia. Ed ecco arrivare davanti ai nostri occhi increduli carrette incolonnate con i rispettivi conducenti, stracariche di ogni sorta di mercanzie: pignatte che dondolavano appese all’altezza delle ruote, bambini seduti sui sacchi, pagliericci, donne con gli stivaloni, qualche mucca malnutrita legata ad una stanga e qualche capra seguivano la colonna. I conducenti erano omoni con barbe lunghe, con i colbacchi in testa, parabellum a tracolla, bombe a mano penzolanti dal cinturone, bandoliere alla Zorro incrociate sulle spalle dei lunghi pastrani: una processione con divise dai diversi colori, con gradi mai visti prima, con copricapi d’astracan neri o grigi di differenti forme, larghe spalline. Immediatamente un tanfo acre, un odore non identificabile impregnò la piazza e la via che percorrevano: questo il nostro primo contatto visivo e... olfattivo con i cosacchi. I carri e le carrette dalle sponde oblique, tipici delle steppe russe, con i loro cavalli ed intere famiglie, chissà quante migliaia di chilometri avevano già percorso, alcuni venivano dal Don, altri dal Terek, ecc. attraverso l’Ucraina, la Bielorussia, la Polonia, per poi arrivare, in treno, fino alla stazione della Carnia, loro meta, la nuova patria: la “cossackia” o “kosakeland” in tedesco. La colonna che venne smistata per Buia, lungo il suo tragitto trovò qualche problema... La prima carretta, passato il centro del paese, proseguì la sua strada imbucando disinvolta la discesa che porta al Piazzale del mercato. Non passò molto tempo che forti grida e imprecazioni si sentirono in tutta la zona. Il conducente, attaccato ad una sponda del carretto, sdrucciolando disperatamente, cercava di trattenerlo mentre il povero cavallo non riusciva a frenare a causa del peso e dell’elevata pendenza. La povera bestia continuava a scivolare sul sedere, con le zampe posteriori in avanti, il timone con il tipico arco proiettati verso il cielo, fino a che il tutto andò a sbattere fragorosamente contro il muro del negozio della fruttivendola Sante Gin. Immaginabile il risultato, ogni cosa era sparpagliata da un lato all’altro della strada: pignatte, fucili, patate e ogni sorta di cianfrusaglie. La carretta era rovesciata, la donna dolorante era seduta su un gradino, il cavallo zoppicante cercava di liberarsi dalle briglie che il conducente disperatamente tirava continuando ad imprecare con la sua vociona risonante: una scena tragicomica! Diverse altre carrette fecero la stessa fine, fino a quando un conducente, prima di iniziare la discesa, mise tra i raggi di una ruota un robusto palo che gli permise di arrivare con successo in fondo. Tutto ciò perchè i carri della steppa non erano muniti di freni a serraglio, come i nostri carri agricoli. Per giorni e giorni, si vide questa masnada venire ad accamparsi in ogni spazio libero e bivaccare alla “zingaresca”. Poi, un po’ alla volta, senza tanti complimenti, cominciarono ad insediarsi nelle case, occupando camere da letto ed altre stanze a loro piacimento. Facevano spesso evacuare i legittimi proprietari oppure condividevano la casa con loro. Il fieno per i cavalli veniva prelevato giornalmente dai fienili. Le proteste non servivano a nulla. Per il cosacco il fieno era una cosa preziosa, forse più della moglie, perchè il suo cavallo aveva precedenza su tutti. Il cosacco parlava al suo cavallo, parlava continuamente e sembrava che tra di loro si capissero come tra esseri umani. In poco tempo, tutti i paesi della pedemontana orientale e occidentale, furono occupati da questi sgraditi ospiti. Circolavano sempre più frequentemente le notizie di fatti e misfatti compiuti da questa gente: sbornie, rapine e furti di ogni genere. La nostra popolazione viveva in un continuo stato di terrore. Le orde di Gengis Khan erano resuscitate tra noi, in Friuli. * * * Nei primi giorni di ottobre, precisamente l'8 ottobre del '44, avvenne ciò che da diverso tempo si prevedeva: l'attacco tedesco al territorio libero della Carnia. L'operazione era chiamata "Waldaùfer". Dai confini dell'Austria a nord, da Tarvisio fino a Gemona sul versante orientale, da Sappada a Maniago su quello occidentale e da tutta la pedemontana a sud, iniziò l'operazione di accerchiamento. Erano circa 40.000 uomini, formati da reparti delle S.S., dall'esercito regolare tedesco, da formazioni fasciste, dalla X Mas e da una moltitudine di cosacchi; tra le formazioni partigiane della "Garibaldi" e della "Osoppo", circa 2.000 uomini. Diversi i combattimenti. Nella Valle del Tagliamento, il primo giorno gli attaccanti cosacchi persero 200 uomini, ma l'anello si stringeva ogni giorno di più. Dopo i primi giorni di combattimento, la tattica partigiana era di sganciarsi e, possibilmente, ritornare alle proprie case. Alcune settimane dopo l'inizio dell'attacco tedesco avvenne la fine del "Territorio Libero della Carnia". Numerose le perdite degli attaccanti, minime le perdite da parte partigiana. Da qui iniziò un nuovo capitolo della storia: l'insediamento della "cosackia" o "cosakenland" nella "Terra Promessa". Ogni vallata, ogni paese, ogni frazione e perfino ogni abitazione isolata, vennero date in mano ai cosacchi, come già promesso nel proclama del ministro Rosemberg. Tolmezzo divenne la capitale. Il comando tedesco s'insediò con i suoi uffici di collegamento, anche per tener d'occhio ogni movimento dei nuovi alleati. L'insediamento avvenne secondo le tradizioni cosacche, sia nelle strutture politico-militari, sia in quelle amministrative. Circa 40.000 cosacchi, tra militari, familiari e borghesi, erano suddivisi nei ranghi dei tre maggiori gruppi etnici, cioè del Don, del Kuban e del Terek, con 10.000 cavalli e 20 cammelli e, capillarmente, si insediarono su tutto il territorio carnico, nella pedemontana e nel Friuli orientale. L'Ataman (così si chiamava tradizionalmente il capo dei cosacchi) era P. Krasnov. Krasnov era già in età avanzata, 78 anni, noto scrittore e generale del già grande esercito del Don, aveva combattuto contro i bolscevichi durante la rivoluzione del 1917 e, come tanti altri, si era insediato a Parigi. L'Ataman Krasnov, proveniente da Berlino con tutto il suo seguito e la moglie, si insediò a Verzegnis, paese vicino a Tolmezzo, nel febbraio del 1945, per governare la sua gente e la nuova "cossackia". Era la vera immagine della vecchia Russia Zarista, con sfoggio di uniformi e metodi pomposi e ... nostalgici, con il simbolo dell'aquila reale sul suo lungo sciabolone (regalo dell'ultimo zar), ma con poco senso dei fatti del momento. Invece l'Ataman di campo Domanov, cioè il vero capo militare, era generale d'armata cosacca fin dal suo inizio. Domanov era già generale dell'Armata Rossa, decorato ma fatto prigioniero dai tedeschi, era passato nelle file collaborazioniste e al comando dell'Armata Rossa. Ai maggiori gruppi etnici si aggiungevano un folto numero di minoranze, soprattutto caucasiche, che erano organizzate in unità con distinte denominazioni: la Georgia, il Turkestan, l'Armenia, l'Arzebaijan ed i Tartari del Volga (questi ultimi comunemente chiamati Mongoli, per i loro caratteristici occhi a mandorla). La religione era prevalentemente ortodossa, ma diverse unità di minoranza erano di religione mussulmana. Molti i Popi (preti ortodossi) e i Muezzin (sorta di preti islamici), al seguito dei loro popoli. Nella nuova "Cosacchia", l'insediamento aveva preso radici con le strutture tradizionali, ravvivate al massimo. "Kozacja Zemlia" (terra cosacca) era la testata del loro giornale, portavoce ufficiale del popolo della "Cosacchia". Il tenente Boloyrev, era il direttore responsabile. L'Atman Krassnov scriveva regolarmente articoli di fondo per la causa cosacca. Una pagina era dedicata alla letteratura e il resto a cronaca locale e militare. Furono stampati 44 numeri della "Nuova Cossakia". Questo giornale è di enorme valore per gli storici, che possono ancor oggi attingere notizie e verificare certi eventi storici e correggere certi miti che la "vox populi" aveva creato con la fantasia. Avevano un loro tribunale a Tolmezzo, anche un loro ospedale con primario e staff al completo che fu, in seguito, trasferito ad Ovaro, dopo un bombardamento alleato. In diversi altri centri c'erano degli ambulatori e perfino un "lazzaretto" per la cura e quarantena di malattie infettive. Istituirono scuole. A Tolmezzo, presso l'istituto tecnico, istituirono otto classi per 75 alunni. Stando alla stampa cosacca, fu uno dei più grandi avvenimenti della loro storia, perché all'inizio del loro continuo peregrinare i loro bambini non poterono avere un adeguato insegnamento. Altre scuole sorsero a Verzegnis, a Cavazzo e in altri centri della nuova "Cossakia". Il coro cosacco ebbe degli enormi successi nell'ambito delle sue presentazioni. Lo si vide a Trieste con ospite d'onore il comandante del Litorale Adriatico Gen. Odilio Globocnik, al teatro Puccini di Udine, ad una tournée in Germania dove riscosse degli strepitosi successi. Quasi ogni paese (stanitsè) aveva il suo coro. A Tolmezzo, avevano anche una scuola di danza, una di filodrammatica e una scuola per adulti. Durante le feste natalizie, sempre a Tolmezzo, per creare buoni rapporti con la popolazione locale, diedero dei concerti, dei balli e allestirono una mostra artigianale, invitando la popolazione locale con i bambini. L'Ataman da campo Domanov, nel suo discorso d'apertura della mostra, mise in evidenza il valore di questa attività, per potersi comprendere reciprocamente di più. Nei diversi centri abitati, si videro sorgere diverse botteghe artigianali: fabbri, falegnami, sarti, sellai, tintorie, pelletterie, lavanderie e tutto ciò che la fantasia poteva creare. Il comando fece dei grandi sforzi per incoraggiare i tanti civili cosacchi a seguire l'insegnamento dei diversi mestieri. Aprirono una cooperativa: ognuno poteva partecipare e vendere ciò che voleva, da oggetti artigianali a indumenti, a vivande. Dovevano il 10% alla cooperativa. Presso il forno della "Cooperativa Carnica", una squadra di cosacchi provvedeva al rifornimento del pane per tutta la truppa ed per i civili cosacchi. A Paluzza un laboratorio di falegnameria era in piena attività, così anche a Villa Santina. Ad Ovaro avevano una bottega di maniscalco ed una di carradore. Ad Invillino c'era la scuola allievi ufficiali, con 120 cadetti. Un agronomo aveva già prelievato degli appezzamenti terrieri nelle valli e nei "stanitcy" della "nuova Cossakia", per lo sviluppo agricolo. Malgrado l'enorme differenza geografica tra le loro grandi pianure e la zona montana carnica, avevano ugualmente preso provvedimenti per lo sfruttamento di ogni piccolo appezzamento. In ogni"stanitzè" era un continuo barattare e mercanteggiare. I cosacchi, per qualche ragione, disponevano di tanto sale, al contrario della povera popolazione locale che doveva sacrificare e barattare anche cimeli cari per venire in possesso di questo comune condimento. D'altro canto le popolazioni più fortunate, se così possiamo chiamarle, erano quelle in cui gli occupanti erano di religione mussulmana. Come si sa, per loro la carne di maiale è peccato anche solo toccarla. Per questo motivo barattavano con fieno ed altro la loro razione di salsicce, di salami e lardo. Ben presto iniziò la "cosaccazione" della loro nuova terra. Ad esempio, lo "stanitse" di Alesso, venne ribattezzato "Novocarkassk"; quello di Cavazzo "Krasnodar"; quello di Trasaghis "Novorossijk" e così anche le vie assunsero nomi cosacchi. Ricordiamo che i paesi, le borgate o gli agglomerati di case si chiamavano "stanitse", il distretto "kazckjstan", il nuovo stato cosacco "cosackia" e "kazakenland" in tedesco. Come si vede, non passò tanto tempo che i cosacchi si installarono completamente proclamando la loro nuova patria. Geograficamente la Carnia superiore era nelle mani delle minoranze caucasiche, il resto comprese le zone pedemontane ed orientali del Friuli, erano suddivise fra i tre reggimenti cosacchi. Sin dal loro arrivo, le popolazioni locali non sapevano chi questa gente fosse e come dovevano accettare queste orde di Taras Bulba. L'odore nauseabondo che emanavano dal loro alito e dai loro panni impregnati di sudore e sporchi dello sterco dei loro cavalli, divenne il distinto odore definito "puzza di cosacco". Dopo diversi atti di violenza e in seguito alle sbornie che prendevano, il vino e la grappa sparirono dalla circolazione. Al massimo, alcuni abitanti della zona, cercavano di barattare questi loro prodotti dopo averli ben annacquati. Ben presto, però, i cosacchi se ne accorsero e allora iniziarono a provare la "merce" prima del baratto. Versavano la grappa su di un piattino e con un fiammifero l'accendevano ed in base al colore della fiamma, sapevano la qualità della grappa. Tutto ciò creava discussioni anche violente, specialmente se la fiamma non arrivava o si spegneva immediatamente. Gli indiani del Nord America usavano lo stesso sistema con i mercanti di pelli. Con il passar del tempo, le popolazioni locali dovettero sopportare i soprusi di questa gente. Dai diari dei parroci e di altre persone che annotarono gli eventi, risulta che non c'è paese della Carnia, del Friuli orientale o della Pedemontana, che non abbia visto atrocità, omicidi, ruberie e violenze commesse da questa gente. Non che tutti fossero delle bestie, tra le loro file c'erano diversi "emigrèes" della rivoluzione russa, gente ben istruita e per bene, specialmente tra gli ufficiali, che vedevano in questa armata la possibilità di far ritorno nella vecchia patria.Moltissimi di loro parlavano più di una lingua, specialmente il francese. Nelle loro file, c'erano anche degli avanzi di galera, degli avventurieri e dei delinquenti comuni che, con la scusa dei "partezani", commettevano ogni sorta di malefatte. Per i cosacchi la parola "partizan" significava immediatamente terrore. Erano lì per quello, nella nuova patria, per combattere questo invisibile nemico. Loro, guerrieri per tradizione, abilissimi cavallerizzi, avrebbero combattuto senza nessuna paura contro orde simili a loro o contro eserciti di qualunque nazione su un campo di battaglia, vedendo il nemico in faccia. Ma i "partizani" erano tutt'altra cosa. I cosacchi sapevano benissimo quello che avevano provato nel loro peregrinare, nelle loro tappe in Ucraina, nella Bielorussia, dove i partigiani locali avevano dato loro filo da torcere, infliggendo tante perdite. Qui, nella nuova patria, ebbero la stessa accoglienza da parte dei partigiani italiani.
* * * Col passare del tempo e dopo che le popolazioni locali iniziarono a tollerare questo invasore, si notò una certa tregua. L'inverno 1944-1945 arrivò anticipatamente. Forti nevicate imbiancarono le valli prima del solito, riducendo di molto l'azione dei partigiani. Regnava una tregua non dichiarata. Tutti cercavano di sopravvivere e tutti si accomodavano alla meglio. Una delle maggiori cause di scontento, particolarmente nella Carnia, era il prelevamento del fieno. L'unica risorsa di sopravvivenza in questi paesi montani era il patrimonio zootecnico. Vedendoselo prelevare giorno dopo giorno, con continue inutili proteste, non si sa a che grado di esasperazione e fino a che punto la situazione si sarebbe deteriorata se non fosse arrivata la tanto desiderata fine della guerra. Nei paesi occupati, la vita continuava alla meno peggio. Le donne carniche badavano alle loro faccende giornaliere, le "babuske" (donna paesana russa) altrettanto. Si trovavano spesso insieme, per necessità, nella piazzetta a prelevare l'acqua dall'unica fontana. C'era una similitudine tra le due donne: entrambe portavano il fazzoletto in testa legato sotto il mento e portavano vestiti con gonne lunghe e scure. Erano simili, tranne che per gli stivali che indossavano e per l'odore che emenavano le "babuska". Si trovavano lì alla fontana, il centro nevralgico del paese, per raccogliere acqua, per lavare qualche utensile di cucina o qualche panno. Non si parlavano. Si guardavano, forse scambiandosi qualche accenno di sorriso. Si comprendevano. Era un comunicare di sofferenza, di dolori, di madri, di vedove. La "babuska" era forse una vedova, il cui marito era sepolto nel vicino cimitero o, addirittura, in una fossa senza segno, chissà dove. Oppure era madre di un atletico e baldanzoso giovane, con il ciuffo di capelli penzolante sotto la visiera del suo berretto militare, anche lui morto in terra friulana, sepolto da qualche parte. La madre friulana, o sposa, con un uguale fazzoletto legato sotto il mento, con il vestito scuro, il cui marito, o figlio, erano sepolti chissà dove, senza croce e senza alcun segno, senza un fiore, là nella steppa del Don. Nella steppa della stessa gente che era arrivata fin qui, in Carnia, nel Friuli, nei nostri paesi, nelle nostre case. Gemellaggio di dolori, come ebbe a dire lo scrittore Carlo Sgorlon. Non c'è paese in Friuli che non abbia lasciato più di uno dei suoi figli nelle steppe. Alpini in prevalenza, mandati a combattere nelle lontane terre russe. Ironia volle che lo stesso popolo che ivi abitava, capitasse tra le nostre dimore, veramente un gemellaggio di ironia. Ci furono tanti episodi tristi e feroci, ma ce ne furono anche di compassionevoli e pieni di comprensione. Ricordo un ufficiale del Don, una persona distinta, che parlava bene il francese e che, ogni volta che mi incontrava, voleva parlarmi. Parlava continuamente dell'Italia, di "cultur", delle nostre belle città, di Venezia, Roma, Firenze, della nostra bella lingua, degli artisti, di architettura. Era una persona colta e fine. Con il passar del tempo, iniziò a confidarsi. Voleva sapere della situazione bellica, cosa ne pensavo. Il loro giornale parlava sempre di vittoria finale dei tedeschi. Voleva sapere se era vero. Non mi fidavo completamente ed ero sempre cauto nelle risposte. Un giorno mi venne a cercare e si mise a piangere come un bambino. Aveva saputo che i russi avanzavano. Avevano sfondato il fronte. "Presto essere qui. Io non volere andare in Russia. Non volere Stalin.". Gli spiegai che entro poco tempo le forze alleate sarebbero arrivate nel nostro territorio. Non ci credeva tanto. Mi confidò che avrebbe preferito uccidersi piuttosto che... Cercai di calmarlo. Gli proposi di disertare, di andare con i partigiani che avevano già accolto un gruppo di disertori cosacchi nelle loro formazioni. Gli dissi che avrei potuto trovargli un contatto se lo avesse voluto. "Ci penserò" mi rispose. Cercai di farlo desistere dal proposito di farla finita assicurandolo che tutto sarebbe andato bene. Lo rividi il giorno dopo. Parlammo lungamente del proposito di disertare e gli offrii ancora la possibilità di trovare un contatto. Era molto serio e triste. "Io non volere tornare in Russia. Non volere Stalin.". Levò dalla tasca della giubba un portasigarette d'argento e me lo diede tenendomi la mano. "Questo io regalare. Ah cultur, cultur italiana. Io vedere domani.". Ci salutammo. Non lo rividi più. Mi rimase solo il portasigarette d'argento che ancora conservo. Quando lo vedo ricordo lungamente dell'ufficiale e del "tempo dei cosacchi". * * * I cosacchi hanno la reputazione di essere dei cavallerizzi bravissimi. Negli accampamenti si vedevano ogni giorno le esercitazioni con questi animali. Giovani, bambini e adulti. Tutti sui cavalli, al trotto, in piedi sul dorso, disinvolti come quando noi andiamo in bicicletta. Con un balzo andavano a terra e con un altro balzo erano di nuovo in sella. Spettacoli da circo equestre. Un giorno vidi una decina di cavalli galoppare all'impazzata nel prato. Ad un tratto, da sotto il ventre, vidi sbucare contemporaneamente dei giovani cosacchi per poi vederli riscomparire sul fianco e di nuovo apparire sul dorso. Tutto mentre i cavalli correvano al galoppo e soprattutto senza né selle né briglie. Affascinante era vedere come i cosacchi confezionavano le sigarette. Erano avidi fumatori. Durante il periodo della guerra, oltre alle tante scarsità, esisteva anche quella della carta. Il giornale era diventato un lusso da barattare. Chi possedeva anche vecchi giornali poteva barattarli con sale o altro. Il cosacco prendeva un foglio di giornale e lo piegava e ripiegava fino a farlo diventare un pacchetto di 4 centimetri circa. In una tasca della giubba, teneva il tabacco sciolto ed il foglio ripiegato del giornale. Con la mano, mentre parlavano, cavalcavano o facevano qualsiasi altra attività, levavano dal taschino il giornale ripiegato, strappavano dagli orli un pezzo di carta e, non so come, deponevano del tabacco sul foglietto iniziando ad arrotolarlo tra le dita per poi portarlo sulla coscia e finire l'arrotolamento e completando l'incollatura con la lingua. In un baleno il "papiroski" era penzolante dalle loro labbra per essere acceso. Quando accendevano i "papiroski", così da noi scherzosamente battezzati, s'innalzava una fiamma dai mille colori. Dipendeva molto dal tipo di giornale. Ad esempio, la "Vita Cattolica" produceva una fiamma più viva che il "Popolo del Friuli", ma questo dava più fumo nero del "Gazzettino". Molti cosacchi avevano le sopracciglia bruciacchiate, così anche le dita che tenevano le sigarette. L'aroma della loro miscela di tabacco, aggiunta all'alito di aglio e cipolla, più la grappa e il vino, più i loro panni impregnati di sudore e di cavalli: ecco da cosa veniva la "puzza di cosacco". Durante il periodo del "boicottaggio", cioè dalla decisione degli abitanti locali di non barattare grappa e vino, si videro diversi atti di disperazione. La farmacie furono prese d'assalto perché i cosacchi scoprirono che vendevano alcool denaturato. E così anche le barberie. Ebbi l'occasione di assistere ad una scena assai comica, che nello stesso tempo sarebbe potuta diventare tragica. Tre grossi e robusti cosacchi, già ubriachi, entrarono in una barberia locale e, a tutti i costi, volevano l'alcool. Non trovando alcuna bottiglia, presero lo spruzzatore e, non riuscendolo a stappare, si alternarono sulla sedia con la bocca spalancata, mentre un altro cercava di spruzzare un po' del liquido nella bocca. Naturalmente, data l'instabilità degli operatori ubriachi, qualche spruzzata finì negli occhi e nelle narici del malcapitato. Questi, urlando selvaggiamente e imprecando chissà chi, saltò dalla sedia e, come un orso, iniziò a sbattere ciecamente contro tutto ciò che gli capitava a tiro. Tutti e tre si picchiarono, praticamente demolendo il locale del povero barbiere che, miracolosamente, riuscì a darsela a gambe, rifugiandosi nella vicina canonica. Se i cosacchi entravano nelle case e non trovavano il loro liquido preferito, mettevano tutto a soqquadro, alzando le tavole dei pavimenti, demolendo le pareti divisorie, fino a scavare negli orti e nelle stalle, per trovare la preziosa "vodka o vina". Naturalmente quando la popolazione venne a conoscenza del comportamento di queste orde, si affrettò a creare nascondigli, per salvare quel poco di valore che possedevano ancora. Per non farsi identificare, molte osterie e caffé tolsero le insegne. Le genti di diversi paesi, trai quali i più colpiti furono Trasaghis, Alesso, Avasinis e Bordano, ebbero 24 ore di tempo per evacuare le dimore. Questa povera gente dovette sfollare verso altri paesi d'oltre Tagliamento, dove venne fraternamente accolta dalla popolazione del posto che condivise l'alloggio e il poco cibo disponibile. * * * Comeglians, paese dell'alta Carnia, era presidiato da un contingente di georgiani, con a capo il principe "Pridon Zulikize". La poplazione di questo paese ha serbato tanti bei ricordi e tanta gratitudine per questo gruppo. Erano persone ben istruite, gli ufficiali appartenevano all'elite e alla nobiltà georgiana. Erano lì solo per poter, un giorno, tornare nella loro amata Geòrgia. Sognavano il loro paese indipendente, senza appendici politiche, né bolsceviche né naziste. L'aver aderito alla causa del nazismo era solo un atto macchiavellico, speravano, solamente, di raggiungere, tramite questo accordo, l'indipendenza. Non volevano essere identificati come cosacchi (gente che, per tradizione, era abituata ai saccheggi, ai combattimenti e alle orge) con i quali, dicevano, non avevano nulla in comune. Mantenevano ottimi rapporti con la popolazione e cercavano di aiutare e collaborare al massimo. Un esempio della loro collaborazione: prima di muoversi per fare una puntata o attaccare qualche zona dove era stata segnalata la presenza di partigiani, il comandante, alla chetichella, avvertiva qualche persona di fiducia che, a sua volta, faceva il possibile affinchè la notizia arrivasse alle persone interessate. Quando i georgiani arrivavano, tutto era tranquillo e non c'era segno di partigiani. Per il comando tedesco era sufficiente che i georgiani avessero eseguito l'ordine. Per la popolazione ed i partigiani, era altrettanto gradito questo comportamento. Era ovvio che i georgiani erano delle persone intelligenti che sapevano come usare il compromesso per convivere, nel miglior modo possibile con la gente del posto, senza inutili perdite di vite preziose. Non credevano al comunismo, ma neanche alle promesse naziste, mentre i cosacchi credevano e speravano, fino alla finale capitolazione, nelle armi segrete dei nazisti e nella vittoria. Quel che contava per i georgiani, era solo una Geòrgia libera e indipendente. Alcuni giorni prima della fine delle ostilità, si aggregarono con tutto il contingente di 370 uomini ai partigiani. Insieme combatterono un'accanita battaglia ad Ovaro, sbarrando la strada ad un forte ed armatissimo contingente cosacco, in missione punitiva al paese di Comeglianis. Le perdite cosacche furono ingenti, mentre i georgiani persero solo 7 uomini. * * * Un bel giorno, con la fanfara in testa, arrivò un corteo di cosacchi in piazza a Santo Stefano di Buia. Ognuno depose, a fianco del Duomo, le proprie armi. Il Duomo aveva le porte spalancate e tutti i componenti il corteo entrarono in chiesa non prima di aver fatto il segno della croce, con larghi e maestosi gesti. Due Pope erano in piena regalia in attesa sull'altare maggiore, grandi come giganti, con in testa la mitra dorata a forma di cipolla, con lunghe e folte barbe. Sembravano dei Mosè. Non appena il Duomo si affollò, arrivò un landau con una scorta di cavalleggeri al seguito. Scese una signora velata di nero, un uomo anziano in alta uniforme con la sciabola al fianco, la cui punta sbatteva ad ogni gradino del sagrato ed una giovane donna dai lunghi e biondi capelli e dalla carnagione lattea. Chi la vide da vicino, ci assicurò che era bellissima. Un sogno! Giorno indimenticabile. La popolazione locale non osava avvicinarsi, aveva timore a causa delle precedenti cattive esperienze. Ma, non appena l'eco dei canti liturgici si diffuse, si avvicinò cautamente da ogni angolo, come attratti da una forza irresistibile, dalle voci stupende, fuse in un magnifico coro. La popolazione rimase stupefatta da queste voci, da quei "bassi" che facevano tremare le vetrate, da quel misticismo estraneo alle nostre funzioni, da quella coreografia nuova per le nostre funzioni. Il piazzale di fronte il Duomo iniziava ad affollarsi, la gente sembrava aver vinto il timore iniziale rinforzata da quello spettacolo di raccoglimento nella chiesa. Ma, forse più di tutto, era soggiogata dalla bellezza di quei canti. Chissà! In quel momento, improvvisamente, ci si dimenticò dei sentimenti di avversione per quei maleodoranti invasori. Quando la funzione terminò ed i militari cosacchi uscirono per far ala ai novelli sposi, spontaneamente si levò un forte e progressivo applauso. Il landau, con la bellissima scorta, si avvicinò al gradini del Duomo. I due Pope, con gesti pomposi e maestosi, impartirono l'ultima benedizione agli sposi e li accompagnarono al landau, seguiti dalla dama velata di nero ed al vecchio dalla lunga sciabola. Non appena essi presero la via per Artegna, i cosacchi, militari e borghesi, iniziarono a cantare, a suonare e a ballare. La piazza divenne una enorme balera. Due atletici giovani, con il ciuffo di capelli penzolante sotto la visiera del berretto (segno che erano scapoli), arrivarono con le fisarmoniche per iniziare uno spettacolo con le loro caratteristiche "Prisianka". La "prisianka" è quella tipica danza durante la quale si battono i tacchi sul pavimento, si flettono le ginocchia, si proietta, a ritmo cadenzato, e alzandosi di tono, si raddoppia lo sgambettio con salti mortali e con acrobazie. Tutto questo senza l'aiuto delle mani. Altri giovani, dai ciuffi di capelli penzolanti, alternandosi, davano spettacolo di frenesia. Finché anche i due fisarmonicisti entrarono in scena piroettando e saltando e, sempre suonando, si esibirono in una serie di salti mortali arrivando al centro in piedi, attorniati da altri che, formando un cerchio perfetto, continuavano la danza ritmata dalla musica. La popolazione locale, applaudendo calorosamente, incitava i ballerini al bis. Tutti cantavano, tutti accompagnavano cadenzando la musica con le mani. La festa si protrasse fino all'ora del crepuscolo. Sembrava tornata la pace. Ma, purtroppo, non era ancora così! Con questa straordinaria giornata, il popolo ebbe anche la sua giornata di gloria. La gente si chiedeva "Ma chi sarà quella bellissima fata? E chi era la dama vestita in nero con il vecchio? Chi era il fortunato marito?" Queste domande non trovarono risposta. Anche oggi non sono riuscito a sapere chi fossero. Più passavano le giornate e più la fantasia della "vox populi" si allargava: "Una principessa polacca, la bella bionda, un governatore cosacco, il vecchio dalla lunga sciabola, la moglie, la dama in nero. L'angelo biondo è stato rapito a Cracow per ordine dell'Ataman per darla in sposa al figlio, che ne era innamorato pazzo. Il |