Renzo Vidoni |
LA LORO FINE Il 6 maggio 1945 gli inglesi arrivarono a Tolmezzo. Il quartiere generale della 36a Brigata di fanteria fu installato nello stesso palazzo dove pochi giorni prima c'era stato quello cosacco. L'8 maggio una jeep di cosacchi con la bandiera bianca arrivò presso il distaccamento del colonnello Malcom dell'ottavo reggimento "Argyir, provenienti dall'Austria. La missione cosacca era composta dal generale Vasiliev, l'interprete Olga Rotova ed il giovane Nicolay Krasnov, nipote dell'Ataman Petr Krasnov. Furono accompagnati a Tolmezzo e cortesemente ricevuti dal generale Arbuthnot. Dopo diverse ore di colloquio, il generale inglese li invitò a pranzo. Desiderava avere notizie dettagliate più personali dei delegati, specialmente dal giovane Krasnov. Questi spiegò che da bambino aveva seguito il padre durante la rivoluzione russa del 1917 e si era rifugiato in Jugoslavia. Lì fece carriera come militare nell'esercito yugoslavo, finché fu catturato dai tedeschi. I tedeschi gli offrirono di arruolarsi nelle loro file, ma lui si rifiutò perché sarebbe stato destinato nell'Africa del nord a combattere contro gli inglesi. Si arruolò, invece, nelle fila cosacche. Il generale Vasilev volle sapere da Arbuthnot se, in caso di resa, sarebbero stati considerati prigionieri di guerra. Il generale inglese rispose positivamente nel caso in cui fossero stati presi in combattimento, ma non applicava questa regola nel momento in cui si fossero consegnati volontariamente. L'interprete Rotova, prima di andare, chiese anche che opinione avesse il generale dei sovietici. Questi rispose che, almeno per il momento, erano considerati alleati, anche se non degli amici. Gli inglesi fecero capire alla delegazione che la prima cosa da prendere in considerazione doveva essere il disarmo. Cortesemente si separarono e la delegazione cosacca fece ritorno in Austria. Fatto il rapporto all'Ataman capo e agli altri ufficiali del quartier generale cosacco, l'Ataman Krasnov si fece dubbioso. Si rendeva conto che gli inglesi non potevano rispettare coloro che erano stati alleati dei loro nemici: i tedeschi. Così volle che la loro posizione fosse chiarita e che garantissero la tutela di chi si fosse consegnato nelle loro mani. Immediatamente scrisse una lettera che fece circolare come petizione inviata subito al generale Alexander, una vecchia conoscenza fin da tempi di Pietrogrado, quando era ancora un ufficiale presso l'Ambasciata britannica, in veste di attaché militare. Inoltre egli ed il generale Skuro, ai tempi della rivoluzione comandante della famosa divisione "selvaggia", e tantissimi altri vecchi ufficiali, erano insigniti della più svariate decorazioni e onorificenze inglesi. Re Giorgio V aveva consegnato personalmente a Skuro l'ordine del Bagno. Inoltre le navi inglesi e francesi li avevano messi in salvo dopo l'ultima resistenza dell'armata bianca. Si calcola che il 60% degli ufficiali dell'armata cosacca erano dei vecchi emigrès, o loro figli, sparsi nelle capitali d'Europa. Intanto nella vallata del fiume Drava i campi cosacchi iniziavano ad organizzarsi. A Lienz si installò il comando. A Peggentz, dove c'erano diversi "lagers" dell'esercito tedesco, si accampò la massa, così anche nei paesi limitrofi, sempre nella stessa vallata. Sembrava più una colonia che un campo di prigionia. A comandare e dirigere tutta questa operazione, fu delegato il maggiore Rusty Davis, un gallese. Non conoscendo il russo si prese, quale interprete, un capitano cosacco di nome Butlerov. Questi parlava perfettamente l'inglese, essendo cresciuto con la nonna di origine inglese. Butlerov era discendente di una famiglia di giacobini che si rifugiarono in Russia, ma che la rivoluzione aveva riportato a Parigi. Il nome, originariamente, doveva essere stato Butler e "russificato" con la desinenza "ov". Davis e Butlerov ebbero ottimi rapporti e tra loro fecero un nodo di amicizia. Tutto procedeva liscio, nel migliore dei modi. Le preoccupazioni dei vecchi ufficiali cosacchi, però, s'intensificavano. Non potendo avere risposte ben precise sul loro futuro, si preoccupavano per tutta la loro comunità. Una domanda senza risposta era sempre presente. La loro paura maggiore era quella di essere dati nelle mani dei sovietici. Vivevano nel terrore che ciò potesse avvenire, ed avevano tutte le ragioni per avere questo timore. Nel trattato di Yalta era stato richiesto ed ottenuto da Stalin che tutti i cittadini di nazionalità russa in mano alleata, una volta finite le ostilità, venissero rimandati alla loro nazione d'origine. Nel trattato era stato stipulato che coloro i quali avevano acquisito una nazionalità estera e quelli che erano emigrati prima del 1920, non avrebbero dovuto essere considerati cittadini russi. Herols Mc Millan (primo ministro inglese) al tempo delle ostilità era commissario politico per tutto il teatro del Mediterraneo. Egli stesso, il 27 luglio 1944, molto tempo prima che i cosacchi si arrendessero alla forze inglesi, aveva chiesto al Foreign Office quale fosse l'esatta interpretazione del trattato in merito ai russi, nel caso in cui fossero caduti in mano alleata, nella zona di sua giurisdizione. La risposta, in data 5 agosto 1944, confermava che: "Fino a quando non ci sarà una clausola definitiva, si doveva procedere secondo le istruzioni correnti e, in caso di difficoltà, comunicare immediatamente con il Foreign Office.". Il 9 febbraio 1945 il commissario Mc Millan ottenne la risposta e l'interpretazione ufficiale da lui richiesta. La linea che il Foreign Office aveva adottato era che, secondo le leggi britanniche, tutti i cittadini di nazionalità sovietica dovevano essere rimpatriati. Ogni persona che non fosse di cittadinanza sovietica non avrebbe dovuto essere rimpatriata, a meno che non lo avesse richiesto. Quindi la definizione era stata chiarita una volta e per sempre. Nel frattempo, il generale delle forze sovietiche in Austria, maresciallo Tolbukhin, invitò il suo collega, generale Keightly del V corpo d'armata inglese con sede a Klagenfurt, a fargli visita per fare la sua conoscenza e condividere l'esperienza della vittoria delle loro eroiche forze. La delegazione inglese fu accolta con interminabili brindisi di vodka e degustazioni di caviale. Durante questa visita fu fatta una pressante richiesta da parte sovietica per ottenere la consegna delle forze cosacche in mano loro. La risposta fu alquanto vaga, ma il giorno seguente fu inviato il brigadiere generale Tyron Wilson per chiarire sia i problemi amministrativi, sia quelli logistici, causati dal costante afflusso, nella loro zona, di rifugiati di differenti nazionalità.
La delegazione di Tyron Wilson fu ricevuta con molta cortesia e, come di consuetudine, con un'interminabile serie di brindisi. Quando il brigadiere chiese al generale sovietico che cosa intendesse fare a riguardo del rimpatrio dei cittadini russi, questi gli consegnò un foglio su cui erano scritti i nomi di coloro che assolutamente dovevano essere consegnati. IL brigadiere se lo mise distrattamente in tasca e, dopo l’ennesimo brindisi, ripartì. Il giorno seguente si recò dal suo superiore, generale Arbutnot, e consegnò la lista con il relativo rapporto. Quando il generale lesse la lista che conteneva i nomi di Krasnov, di Skuro, di Domanov, di Gherey ed altri ufficiali, esclamò indignato: "Lo si farà sul mio cadavere!". Intanto nel campo cosacco gli ufficiali superiori insistevano per avere notizie sulla loro posizione. L'Ataman Krasnov preparò un'altra petizione ed una lettera da inviare al generale Alexander, puntualizzando che la maggioranza degli ufficiali non era di nazionalità russa, che tanti di loro non erano neanche nati in Russia o, al massimo, erano andati via da bambini e che non volevano essere rimpatriati. Speravano nelle buone intenzioni degli inglesi, molti ufficiali erano decorati con le più alte onorificenze della corona inglese, credevano all'amicizia che era sempre esistita tra le due case regnanti e speravano che gli inglesi avrebbero potuto trovare, nel loro vasto impero, un territorio dove il popolo cosacco avrebbe potuto riprendere la vita tradizionale e continuare pacificamente con le sue abitudini. Verso la metà di maggio, improvvisamente arrivò a Klangenfurt, in aereo, il ministro del teatro del Mediterraneo, Harold Mc Miliari. Presso il comando d'armata si incontrò con il generale Kaightly e parte della Staff. Qui, verbalmente, venne dato l'ordine di consegnare ai sovietici tutti i cosacchi, ignorando le direttive del Foreign Office. Bisognava verificare chi, ufficialmente, era ancora cittadino sovietico. Alcuni giorni dopo arrivò, nel campo cosacco presso il maggiore Davis, l'ordine di disarmare tutti i cosacchi. Con questa notizia le preoccupazioni degli ufficiali cosacchi aumentarono. Ma il massimo che era loro consentito fare era qualche debole protesta. Dopotutto erano nelle mani dei vincitori e le regole, anche se a mala voglia, dovevano essere accettate. Il 27 maggio 1945, il maggiore Rusty Davis si recò a far visita al generale Domanov, l'Ataman militare delle forze cosacche. Comunicò a lui l'invito insieme a tutti gli altri ufficiali, di prepararsi per il giorno successivo e avere, finalmente, un incontro con il generale Alexander. A questa notizia, anche se con una certa cautela, si sparse una certa euforia tra gli ufficiali. Una speranza di successo regnava tra loro: finalmente potevano presentare la loro causa. Dopotutto il generale e l'Ataman Krasnov si conoscevano personalmente e il leggendario generale Skuro poteva fregiarsi delle decorazioni ricevute personalmente da re Giorgio V d'Inghilterra. E così anche tanti altri ufficiali avrebbero potuto dimostrare le loro decorazioni inglesi. Tutto questo, sicuramente, sarebbe stato di peso per un successo. Il giorno successivo arrivò una corriera di fronte alla residenza comando dell'Ataman Krasnov. Un ufficiale inglese fece cortesemente salire il vecchio Ataman, seguito da tutti gli altri ufficiali dei comando. Il mezzo proseguì verso la vallata in direzione di Villach. Altre macchine, piene di ufficiali cosacchi, scortate da due inglesi armati di mitra, si accodarono alla corriera, formando una lunga colonna di circa 60 veicoli. Tutto ad un tratto la colonna si fermò. Dai lati del bosco e dalle strade laterali sbucarono cari armati, autoblinde e altri mezzi corazzati che si intercalarono ai veicoli in colonna. La marcia riprese verso Villach, con in testa ed in coda due jeep armate di mitragliatrici pesanti, puntate sui cosacchi. Raggiunto il paese di Spittal, sulla Drava, si fermarono e furono fatti scendere, non prima di essere sottoposti ad una perquisizione. Immediatamente un grande nervosismo iniziò a serpeggiare tra gli ufficiali. Qualcosa non andava! I sospetti si facevano sempre più concreti. A dare una certa tranquillità era lì, ben visibile nello spiazzo del lager, una grande quantità di cibi inscatolati, file di cassette di frutta fresca, verdura e bottiglie di diverse bevande. Il tutto faceva credere in un imminente banchetto e festeggiamento con il generale Alexander. Tanti di loro non erano del tutto rassicurati e, fra questi, l'Ataman di campo Domanov, che fece subito richiesta di incontrare il comandante inglese responsabile. L'incontro venne concesso. Vi si recò insieme all'interprete Butlerov. A tarda sera, Domanov rientrò nel lager pallido, esterrefatto, senza le spalline sulla giubba, ed annunciò che il giorno seguente sarebbero stati consegnati ai sovietici. Immediatamente seguì un pandemonio. Accuse vennero rivolte a Domanov, specialmente da parte di Krasnov, che lo accusò di tradimento, di sapere già da tempo e di non aver comunicato mai l'intenzione degli inglesi nei loro riguardi, ecc, ecc. A un certo punto Krasnov lasciò tutti, e si mise a scrivere l'ultima petizione, questa volta diretta personalmente a re Giorgio v, La fece firmare da tutti i presenti e la consegnò al comandante inglese, per farla recapitare al più presto a Sua Maestà. Questi, con una certa ironia, fece capire l'inutile sforzo dell’iniziativa, perchè purtroppo il tempo stava per scadere. Stando alle testimonianze dell'interprete Butlerov, si sa che l'Ataman di campo Domanov conosceva l'intenzione degli inglesi di rimpatriare i cosacchi, ma non volle confidarsi con nessuno, perché sperava in una soluzione diversa e così pure cercava di evitare il panico per far vedere agli inglesi le buone intenzioni e la disciplina che fino ad ora esistevano nelle file cosacche. Il lager venne immediatamente circondato da soldati inglesi ben armati, con autoblinde e mezzi corazzati. Tentare la fuga era una cosa impossibile. Il giorno seguente, 29 maggio, gli ufficiali cosacchi vennero a viva forza fatti salire su dei camion, usando baionette, calci dei fucili ed altri drastici mezzi contro coloro che si ribellavano. Si vedeva regnare il panico. Alcuni ufficiali cosacchi staccarono i fili della luce dai muri e dai soffitti e si impiccarono: furono trovati appesi, senza vita, in qualche angolo del lager. Altri spaccarono delle finestre e con pezzi di vetro si tagliarono i polsi: furono trovati dissanguati in qualche angolo remoto... si contò più di una dozzina di suicidi... Finita questa prima operazione, la colonna di camion, scortata da mezzi blindati, proseguì alla volta di Judenburg, posto di confine tra la zona di occupazione russa e quella inglese. Sul ponte della Drava, che divide la zona, venne fatta la consegna. Molti ufficiali mentre percorrevano il breve tragitto del ponte, si gettarono nelle gèlide e turbolenti acque della Drava. Non si conosce il numero di quelli che perirono. Alcuni corpi furono rinvenuti anche nel Danubio, a centinaia di chilometri di distanza. Presi in consegna dai sovietici passarono tutti un breve interrogatorio da parte di ufficiali dello SMERHC (controspionaggio sovietico). Gli stessi interroganti, dopo aver verificato i documenti di alcuni ufficiali, chiedevano con sorpresa: "Ma che fate voi qui? Voi non siete eleggibili, o volete ritornare volontariamente? Lei non è cittadino russo, perchè è qui?". Tanti a queste domande ebbero un barlume di speranza di essere rimandati indietro da dove provenivano. Ma se chiedevano di essere rimandati, sarcasticamente, si sentivano rispondere: "Ma già che siete qui con noi, potete anche rimanere... ". Nel frattempo nel campo di Peggetz, la massa della truppa ed i civili rimasero senza alcun comando, senza alcuna direzione e senza notizie dei loro comandanti. Era domenica ed i Pope presero l'iniziativa di celebrare una messa, con migliaia e migliaia di partecipanti, nel grande spiazzo del loro campo. Non vedendo ritornare i loro capi, i sospetti e l'irrequietudine aumentavano, così pure le speculazioni e il panico... Improvvisamente arrivò al campo il maggiore Davis con il suo seguito ed annunciò loro l'ordine di immediata consegna ai sovietici. Contemporaneamente, tutto il vasto campo venne circondato da automezzi blindati e corazzati e da diverse truppe ben armate. La reazione dei cosacchi fu immediata. Proteste, invettive, dissidenza passiva all'ordine dei maggiore Davis. I più giovani ed i più forti si allacciarono le braccia, formando una catena umana, come per difendere i più vecchi, le donne e i bambini. Vedendo questo, venne dato l'ordine di usare la forza. I soldati inglesi, usando il calcio del fucile e la baionetta, intervennero per rompere la catena umana, ma questi erano sempre più decisi a non lasciarsi sopraffare e con disperata forza, cercavano di resistere a questo attacco. La catena umana diveniva sempre più stretta, fino a che si trovarono asserragliati in un angolo, accavallandosi uno sopra l'altro presi dal panico e dalla voglia di resistere stretti in una morsa umana. Quando le forze inglesi prevalsero, trovarono due vittime: un bambino e una donna, morti asfissiati, e tanti feriti. Sempre con l'uso della forza, fecero salire tutti sui camion e, scortati da mezzi blindati, partirono velocemente alla volta di Judenburg. Strada facendo, tantissimi prigionieri si buttarono giù dai camion e tentarono la fuga inoltrandosi nella foresta; tantissimi rimasero a terra, feriti o morti. Costeggiando il fiume Drava e sul ponte di Judenburg, tantissimi di loro si gettarono dentro le turbolenti e fredde acque, incontrando la stessa fine dei loro ufficiali, che avevano fatto lo stesso ultimo disperato gesto. Contemporaneamente, nei campi vicini, si ebbe la notizia di ciò che succedeva al campo di Peggetz, creando panico generale accompagnato dal caos. •I cosacchi si diedero alla macchia nelle vicine montagne. Malgrado lo sforzo delle truppe inglesi per controllare e restaurare un pò di ordine, diversi cosacchi riuscirono ad evadere nel bosco, altri caddero sotto il fuoco dei fucili, altri rimasero feriti. Rinforzi arrivarono da altri distaccamenti. Un grande rastrellamento si mise in moto nella zona, con proclami alla popolazione locale di segnalare ogni presenza cosacca. Venne catturato un numero indefinito di fuggiaschi, ma diversi si salvarono anche mediante l'aiuto ricevuto da contadini austriaci, che li tenevano nascosti o deviavano le pattuglie inglesi dalle loro tracce. Altri rimasero nascosti in remote grotte delle montagne, cibandosi di radici e di ciò che potevano razziare durante la notte nelle case dei montanari. Si sono notati diversi casi di pietà da parte di ufficiali e soldati inglesi. Numerose le proteste ed il malcontento per avere avuto l'ordine di fare questo disgustante servizio. Loro erano venuti a fare una guerra diversa e non una caccia all’uomo, a donne e bambini disarmati... Molti sono stati i casi in cui trovandosi di fronte ai fuggiaschi, giravano la testa e fingevano di non aver notato nulla. Un sottoufficiale si imbatté in una madre con tre bambini, quella cercava di domandare al soldato di prendere solo lei e di lasciare almeno i bambini liberi; il soldato abbassò il fucile e piangendo si diresse dalla parte opposta. Uno dei casi più pietosi a testimonianza di questa tragedia e del terrore di essere rimandati in Russia, avvenne quando il maggiore Davis con i suoi uomini scoperse in un boschetto, non distante dal campo centrale, i cadaveri di cinque bambini e giovani e, a poca distanza, quelli della madre e del padre. Apparentemente, il padre prese questa drastica decisione, giustiziando metodicamente tutta la sua famiglia, prima di dar il colpo finale a sè stesso, piuttosto che ritornare con i sovietici.. Che molti soldati inglesi, impiegati in questa operazione, siano stati marcati da un trauma, lo si sa dal cappellano del reggimento. Susseguentemente al rastrellamento, il cappellano militare ebbe una infinità di confessioni da parte di questi uomini, i quali protestarono la loro complicità e pentimento per avere dovuto eseguire e ubbidire a questi ordini inumani. Erano soldati e dovevano ubbidire, ma ugualmente la coscienza li faceva confessare che non era questa la guerra alla quale erano stati chiamati a combattere... Con l'arrivo degli ufficiali cosacchi tra le truppe sovietiche, si creò una gran curiosità. I generali vennero messi in una stanza isolata nella fabbrica che fungeva da caserma. I generali Krasnov e Shkuro furono cortesemente invitati a seguire l'ufficiale di servizio che li portò in una altra parte del fabbricato. Arrivati a destinazione, si trovarono di fronte ad un alto generale sovietico. Era il maresciallo Tolbukhin, comandante dell'armata sovietica della zona, che aveva combattuto contro di loro durante la rivoluzione del 1917. Trattati benissimo, con rinfreschi e bevande, rievocarono vicende e episodi di quell'epoca. Parlarono del passato, delle loro reminiscenze di fronte ai giovani ufficiali sovietici, che erano esterrefatti nel sentire queste leggendarie epopee della rivoluzione. Non credevano alle loro orecchie... I Krasnov, i Shkuro, lì, davanti ai loro occhi in carne ed ossa. Quei leggendari artefici della storia della rivoluzione, dei quali tanto avevano sentito parlare dai loro padri, dai loro nonni, e letto nei libri di storia. Era un via vai continuo di curiosi, una continua processione di militari venuti a vederli e a sentirli, era quasi un onore l'esser stati alla presenza di vecchi cosacchi. Particolarmente il generale Shkuro divenne il centro dell'attenzione, per il suo umore e calore nel raccontare episodi delle gesta che avevano fatto la sua fama nella "divisione selvaggia", che avevano reso il suo ricordo immortale. L'Ataman Krasnov non poteva fare a meno di trattenere un sorriso compiaciuto. Sorprendente fu il trattamento usato nei riguardi dei prigionieri. Vennero trattati con tutte le cortesie da parte degli ufficiali sovietici della SMERHC e da quelli del K.G.B., che usarono tutte le premure e cortesie per un migliore accomodamento. Sembra che tutto fosse stato pre-arrangiato per questo trattamento speciale, per ragioni psicologiche, in vista dei futuri interrogatori. Dopo due giorni, i Krasnov, cioè l'Ataman Petr Krasnov, i suoi cugini generale Semen e colonello Nikolay Krasnov ed il giovane figlio di quest'ultimo, portante lo stesso nome, Nikolay Krasnov (Junior), vennero fatti salire su di un veicolo. Su un altro automezzo vennero imbarcati il generale Shkuro, Domanov, Salamichin, Vasiliev, Sultan Gherey e Hurganov e, ben scortati, furono avviati alla volta di Graz. Da lì, furono imbarcati su di un aereo diretto alla volta di Mosca. Di tutti questi generali, è da notare, solo Domanov era cittadino russo. Arrivati all'aereoporto di Mosca, vennero premurosamente imbarcati su di un furgone con la scritta: "PANE", per evitare la curiosità di qualche giornalista occidentale, e portati direttamente alla famosa (o infame) prigione "LUBIANKA". Alcuni giorni dopo il loro arrivo, dopo aver percorso lunghissimi corridoi, finalmente si trovarono in una enorme stanza ben arredata, con vistosi e grossi tappeti ed un enorme ritratto di Stalin alla parete. I Krasnov vennero fatti sedere su delle comode poltrone, davanti all'enorme scrivania di fronte a loro. Erano alla presenza del generale USEVELOD NIKOLAIEVICH MERKULOV, ministro della sicurezza di stato e secondo nella graduatoria dopo il ben noto BERIA, capo del K.G.B. Ogni ufficiale e non ufficiale cosacco, conosceva con apprensione questi nomi. Nikolay Krasnov Junior, fu l'unico della famiglia Krasnov a sopravvivere ai campi dell' "Arcipelago Gulag"... nel 1955, subito dopo Natale, fu fatto liberare da Khrushchev. Riusci1 a raggiungere Stoccolma, in Svezia, e immediatamente cominciò a scrivere tutto quello di cui riusciva a ricordarsi, tenendo fede al giuramento che aveva fatto al nonno generale e Ataman Petr Krasnov, nel sotterraneo della Lubianka, di riportare e pubblicare, senza alcuna alterazione nè negativa nè positiva, tutto ciò che era successo, per cercare di far conoscere al mondo occidentale il tradimento e le vicissitudini subite dal loro martoriato popolo.
Ecco ora parte del testo di Nikolay Krasnov Junior, ed il colloquio con il generale MERKULOV, nell'ufficio dai grossi tappeti della Lubianka. "Il generale taceva. Noi eravamo immobili Lentamente sollevò la testa pesante e senza imbarazzo, ostentatamente, ci esaminò come si esaminano le riproduzioni in cera di un museo. Un ufficiale, come una statua, stava alle nostre spalle. - Portate del the e la colazione ai "signori Krasnov". - fece Merkulov seccamente, e all'improvviso - Offrite loro delle sigarette. Una mano zelante depose sul tavolo un pacchetto aperto di sigarette "Kazbek". L'ufficiale uscì. Di nuovo silenzio. Un lungo, teso silenzio. Merkulov evidentemente aspettava l'arrivo del the. Apparve un vassoio con la bevanda fumante, dal profumo piacevolmente amaro. Servizio elegante. Sui piattini tutto "comme il faut"... - Uscite. - ordinò il generale. Restammo in tre. - Prego "signori", gustate il the. - invitò Merkulov alzandosi, - Ricevere col the non è frequente alla Lubianka. Solo gli ospiti speciali! Sul viso comparve uno strano sorriso, pieno di reconditi significati. - Mentre vi accomodate, vi racconterò qualcosa. Chi io sia, ve l'avranno già detto. Sono Merkulov, uno dei vostri futuri... beh, diciamo... superiori. Una pausa. Il generale camminava su e giù dietro la sua scrivania, dondolandosi morbidamente sulle anche e girando destramente sui tacchi. - Come è andato il viaggio? Siete stati sballottati in aereo? (Cosa dico, mi riferivo a Skuro). Nessuno vi ha disturbato? C'è qualche lagnanza? - e senza attendere risposta, senza badare, in fretta, Merkulov si rivolse direttamente a Krasnov senior - Perchè non fumate Krasnov, e non bevete il the? Secondo me, voi non siete loquace né cordiale. Penso che dietro questo silenzio, voi tentiate di nascondere la vostra agitazione... la paura... Ma insomma non è il caso di agitarsi. Almeno nel mio studio. Ecco, quando vi chiameranno dall'istruttore, vi consiglio di dire tutta la verità e di rispondere a tutte le domande, altrimenti... siamo capaci anche di tirarvi su - Merkulov rise piano - Sapete, vero, come si fa a tirare su. Dapprima pian pianino... non fa neanche male, ma dopo... Non ha descritto nei suoi libri un simile modo di interrogare, l’Ataman Krasnov? Mi si gelarono le dita. Le pulsazioni battevano alle tempie un folle "tam tam". Il cuore batteva così forte che lo doveva sentire anche Merkulov dietro la scrivania distante dieci metri. Krasnov senior taceva, pallido ma raccolto e tranquillo. - Non sperate nella libertà - continuava il generale - Non siate un bambino. Di nuovo pausa. - E allora, colonnello Krasnov, scegliete fra la libertà e la vita o la reclusione e la morte. Non pensate che vi intimidisca. Al contrario. Pètr Nikolaevic, Semèn Nikolaevic e voi, siete nostre vecchie conoscenze. Nel 1920 siete riusciti a sfuggirci di mano come una raffica di vento. Ma adesso tutte le carte sono giocate. Non ve ne andrete! "Basta con gli stupidi", come dicono in Ucraina (in ucraino, n.d.t. ) Qualche passo su e giù. - E allora, colonnello, siamo d'accordo? - Non ho di che accordarmi con voi - rispose asciutto mio padre. - Come sarebbe a dire "non ho di che "? - ridacchiò il cechista. - L'accordo è più caro dei soldi, Krasnov. Il vostro passato non c'interessa. - Non ho niente da raccontare! Non capisco queste lungaggini. Finitela - Eh, eh, no, signor Krasnov! - rise storto Merkulov sedendosi - Non si fa così semplicemente. Guarda un pò! Una palla nella nuca e... ? Un corno, vostra nobiltà! Lavorare bisogna! C'è tempo per finire nella cassa. C'è tempo per concimare la terra. Prima faticate per il bene della Patria! Un po’ ad abbattere - sghignazzò il generale - Ma lavorerete. Vi costringerà la fame! Sedevamo in silenzio. Avevo un rombo nella testa. Le palme delle mani sudavano di rabbia impotente. - Ci occorre costruire, colonnello Krasnov! E dove prendere le braccia? Dalla Merkulov si soffocava con il monologo. Sulla fronte gli era spuntata una grossa vena. Gli occhi si erano aguzzati d'odio. - Vi siete spaventato?... Di che? Del lavoro? A proposito, ma perchè parlare? Nè voi a me, nè io a voi, non crediamo una parola. Voi per me siete un bandito bianco, e io per voi una canaglia rossa! Però la vittoria è nostra, dei rossi. Sia nel 1920 quanto adesso. La forza è dalla nostra parte. Né ci illudiamo sperando di riuscire a rieducare Krasnov e a trasformarlo in una docile pecorella sovietica, non brucherete mai d'amore per noi, ma noi sapremo costringervi a lavorare per il comunismo, per la sua costruzione, e questa sarà la migliore soddisfazione morale. Merkulov tacque, sgranando gli occhi su mio padre, in attesa. - Perchè una così lunga premessa? - rispose stanco - Capisco benissimo anche senza spiegazioni, signor generale. Ma è chiaro che la nostra situazione è disperata. Io e mio figlio siamo soldati. Abbiamo combattuto entrambi. Entrambi ci siamo trovati faccia a faccia con la morte. Non importa su che parallelo, 70^ o 100^, ci falcerà... Me la prendo con me stesso solo per aver creduto agli inglesi. - Oh, se fosse solo la morte - ghignò Merkulov - Via i paroloni sulla "morte da soldato". Spazzatura superata. La morte vi ha sfiorato senza nemmeno notarvi. Ma che abbiate creduto agli inglesi, questa sì che è una idiozia. Loro sono dei mercanti storici. Capaci di vendere chiunque e qualsiasi cosa senza battere ciglio. La loro politica è una puttana. Il loro Foreign Office è un casino dove siede il premier, ruffiana diplomatica suprema. Vendono gli altri e la propria coscienza. E noi? Noi ci crediamo, colonnello. Per questo abbiamo preso le redini nelle nostre mani. Non sanno che li abbiamo chiusi sulla scacchiera in un angolo, e li costringiamo a ballare al nostro zufolo, come l'ultima pedina. Presto o tardi ci sarà lo scontro tra l'orso comunista e il bulldog occidentale. Per i nostri alleati zuccherati, malati, striscianti e servili non ci sarà pietà. Voleranno a mamma del diavolo tutti i loro e…e, con tutte le loro tradizioni, i lords, i castelli, gli araldi, gli ordini del bagno e della giarrettiera e le parrucche bianche. Non resisteranno alla zampata dell'orso quanti si illudono che il loro oro domini il mondo. Vincerà la sana, socialmente forte e giovane idea di Lenin e Stalin. Bisogna seguirla, colonnello! Merkulov si alzò e, dopo le ultime parole, picchiò sul tavolo fortemente con il taglio della mano, come una scure. Il 4 giugno, il giovane Krasnov, per puro caso, trovò il nonno Petr Krasnov nei bagni del sottosuolo della Lubianka. Questa fu l'ultima volta che lo vide e ci conversò. In quell'occasione avvenne anche il giuramento e le raccomandazioni fatte dal nonno al giovane nipote, di fare ogni sforzo per poter far conoscere al mondo la loro tragedia. Il 18 gennaio 1947, dopo continui e ripetuti interrogatori, il tribunale militare sovietico condannò a morte il vecchio generale e Ataman Petr Krasnov, il generale della "divisione selvaggia" Shkuro, il generale principe Klin Sultan Ghirey, il generale S. Nikolay Krasnov, cugino dell' Ataman e il generale T. I. Domanov. L'esecuzione avvenne nella corte della prigione di Lefortovo di Mosca. Il giovane Nikolày Krasnov e suo padre colonnello Siemen, vennero condannati a dieci anni di lavori forzati nel "gulag" della Siberia e del Kasakstan. Nel 1953 Stalin morì e gli successe Khrushchov. Il suo nuovo governo, nel 1954, trovò colpevole il capo del K. G. B. Beria e il suo fedele amico e collega Merkulov, di alto tradimento. La loro esecuzione venne annunciata dalla Pravda il 25 dicemb 1954. Nel 1955 lo stesso governo Khrushchov annunciò l'amnistia per tutti coloro che erano internati nei campi Gulag per avere, volontariamente o involontariamente, collaborato con i nazisti. Circa 50 erano i sopravvissuti, di quasi 2000 ufficiali cosacchi internati. Gli altri non riuscirono a resistere e le loro ossa, senza segni, sono sparse nei diversi campi della tundra siberiana. Così trovarono la stessa sorte anche migliaia di altri cosacchi, di familiari e civili. Di questi ultimi, non si sa con precisione quanti si salvarono. Sicuramente non molti. La maggioranza dei superstiti trovò la via dell'America del nord e del sud, alcuni quella dell'Australia. A Peggetz, in Austria, nel campo dove erano stati ospiti prima della consegna ai sovietici, i superstiti, ogni anno a metà maggio, si riuniscono per rendere un tributo ai loro compagni finiti nella Drava e ai caduti, per mano propria o per mano degli inglesi. A loro testimonianza hanno eretto un monumento. Benché non si conosca di preciso il numero dei periti in questa regione, da fonti ufficiose sembra che siano stati più di 600, tra uomini, donne e bambini. Nel paesetto di Timau, ultimo villaggio prima di iniziare l'ascesa al passo di Monte Croce (Plokenpass, in tedesco), che porta in Austria, è stata costruita una chiesa nominata "Glesie Cosacche" (chiesa dei Cosacchi). Come già descritto in precedenza, la ritirata verso l'Austria della colonna dei cosacchi avvenne in condizioni deplorevoli: pioggia, freddo, neve, furono sempre presenti. Nel paesino di Timau, per una forte nevicata, la colonna fu bloccata. La strada del passo era impenetrabile. Tutti all'aperto. In queste condizioni, si dovevano arrangiare alla meglio. Chi più soffrì furono i deboli, donne e bambini. Si rifugiarono sotto le carrette, stretti, in compagnia per un po’ di calore collettivo. Gli ammalati erano senza alcuna cura. Le donne del posto, madri pietose davanti a questo spettacolo, fecero tutto il possibile per alleviare le condizioni di questi ammalati. Li portarono nelle loro pulite, anche se povere, abitazioni e si prodigarono per dare le cure rudimentali che conoscevano. I cosacchi apprezzarono moltissimo questi gesti di solidarietà. Malgrado tutte le premure usate dai valligiani, una Babuska e il suo bambino, in stato avanzato di malattia, perirono. Gli abitanti del villaggio, quasi al completo, fecero loro un funerale con tutti i riti cristiani e li seppellirono nel locale cimitero. Commossi da questo gesto di umanità, il comandante del gruppo cosacco si presentò con una piccola cassetta che diede al responsabile del villaggio a nome e riconoscenza di tutti i cosacchi. Quando l'aprirono videro che era piena di soldi. "Questo per finire costruire vostra chiesa." disse loro il comandante cosacco. La costruzione della chiesa era stata cominciata tanti anni prima, ma era rimasta incompiuta a causa della situazione bellica e della scarsezza di risorse finanziarie di quei paesi. Fu portata a termine diversi anni dopo e fu battezzata dal popolo "Glesie Cosacche". A Mosca, nel museo della malfamata prigione della Lubianka, sono esposte le uniformi imperiali dei generali che furono giustiziati per impiccagione Si nota anche, vicino a quella dell'Ataman Krasnov, la grande spada imperiale ricevuta dallo Zar e imperatore Nicola II. Sull'uniforme del generale Shkuro e così anche su quelle di altri generali, si notano, tra le diverse decorazioni, ironicamente anche quelle inglesi e, in particolare, quella del "Bagno", data personalmente dal re d'Inghilterra Giorgio V. Di chi fu la colpa del rimpatrio di quei cosacchi, che non volevano far ritorno in Russia? Malgrado le minuziose ricerche dello scrittore inglese Nikolay Tolstoj eseguite negli archivi di stato dopo i 40 anni di congelamento per lo "statute of limitation", egli non trovò nulla di documentato. Però analizzando e comparando date ed eventi, giunse alla conclusione che il maggior responsabile di questa azione era stato il ministro del Teatro di Guerra Mediterraneo, Harold McMillan. Si sa che dai verbali delle conferenze non trovò nulla di scritto sull'ultimo incontro a Klagenfurt, tra il generale Keightly ed il ministro McMillan. Così ritenne che l'ordine fosse stato dato verbalmente. A Yalta era stato stipulato che dovessero essere rimpatriati "tutti i cittadini russi". Si sa che molti generali ed ufficiali inglesi non volevano essere partecipi a questa azione e tanti procrastinarono certi ordini, sempre nella speranza di una diversa soluzione. Si sa che diversi ufficiali sovietici della SMERHC (controspionaggio), si meravigliarono apertamente nel vedersi di fronte certi cosacchi non eleggibili al rimpatrio. Quindi dove e chi sono i responsabili? Morkelov stesso si è vantato, nell'interrogatorio con i Krasnov, riferendosi agli inglesi. "Li abbiamo chiusi nella scacchiera in un angolo e li costringiamo a ballare con il nostro zufolo". A chi si riferiva Morkelov? Il comando cosacco era stato infiltrato fin dal principio da elementi della K. G. B., Morkelov sapeva tutto di loro, della loro politica, i loro nomi e le loro intenzioni. Quando Keightly, generale del comando inglese in Austria, come già visto, ricevette dal brigadiere Tyron Wilson la lista con i nomi di chi doveva essere consegnato assolutamente ai sovietici, rimase più che sorpreso per la precisione e l'esattezza su questa richiesta. Improvvisamente, il 13 maggio 1945 arrivò a Klangenfurt il ministro McMillan. Si mise subito in contatto con il generale Keightly e, dopo alcune ore di colloquio, ripartì. Dal giorno dopo si videro emanare ordini ai diversi subalterni, nel più assoluto segreto e silenzio, in preparazione dell'esecuzione del piano di rimpatrio dei cosacchi. E qui scattò la trappola del grande inganno. Prima il disarmo, in seguito il grande "meeting con il maresciailo Alexander, e poi...
Lo scrittore Nikolay Tolstoj, dopo aver minuziosamente studiato gli incartamenti e dopo aver interrogato generali e ufficiali inglesi, persone italiane, austriache e russe che erano state vicine agli eventi degli ultimi giorni della guerra, arrivò a una conclusione accusando direttamente il ministro Mc Millan, sia della fine dei cosacchi, sia dei 300. 000 jugoslavi spediti alla stessa sorte. Il professor Alessandro Ivanov è docente di lingua russa presso l'università di Udine. Nato a Rostov nel 1920; il nonno, friulano, emigrò in Russia nel 1871 con un'impresa di costruzioni e colà formò una famiglia russo-friulana. Alessandro Ivanov, dopo la rivoluzione, rientrò in Friuli, terra natale del nonno. In un suo recente libro dal titolo "Cosacchi perduti dal Friuli all’URSS" ha così scritto nel suo "post-mortem": Questo libro progettato a suo tempo, esce ormai spostato rispetto agli avvenimenti che sono stati considerati. L'autore perciò si trova notevolmente imbarazzato filtrandone la lettura col pacato distacco che si andò maturando nel volgere degli anni. Eppure non si dimentica l'ossessione dei prò e dei contro, a momenti sente affiorare lo smarrimento di fronte ai tanti perchè annidati nel corso di fatti anche episodici e transitori. Le ripetute segnalazioni pervenute sulla sistematica "liquidazione" dello Stan di Domanov, consegnate all'archivio della storia insieme alla documentazione in cifre più o meno fedeli, hanno provocato quella prevedibile giostra di accuse e scuse che possono far capo benissimo al titolo “Di chi la colpa?” del romanzo di A. Herzen, uomo politico e scrittore russo in esilio per vari paesi d'Europa, che si proponeva di spiegare il fallimento dei programmi socialisti nella Russia del sec. XIX. La caccia ai colpevoli, com'è noto in questi casi, rimbalza in altrettante reazioni giustificative che la pignoleria di qualche ricercatore avrà sì il gusto di far emergere ma come tanti ragni dal buco a parte questa saggia constatazione: fra i molti presunti colpevoli e molti innocenti non meno presunti, appare lampante una sola cosa: che nei ventotto anni tra la rivoluzione di Kerenskij e la consegna dei cosacchi collaborazionisti all'Armata Rossa, si sono fatte aventi molte coscienze sporche. Su "Il Friuli nel mondo" del febbraio 1988, Alan Brusin racconta in brioso friulano (Gnozzade cosache a Tresesin) una baldoria di nozze tra i cosacchi acquartierati a Tricesimo. "Ai prins di setembar dal 1944" comincia a narrare, tra l'altro, che tutti i russi cantavano in coro una canzone che assomigliava a una villotta friulana. Tradotta sul momento da uno che era stato due anni prima sul Don e l'aveva imparata laggiù, era come se quella terra si fosse trasferita a Tricesimo. Ma non era un caso isolato. Proprio in quell'anno, se ne è già parlato, parte della toponomastica locale cominciava a ripetere quelle migliaia di chilometri ad Est, cosicché alcuni villaggi lungo i fiumi della steppa e del Caucaso settentrionale sembravano sovrapporsi alle borgate friulane. Sceglierne una più nera delle altre rischia perciò, di riuscire arbitrario: Krasnov coi suoi oppure Vlasov? Rosemberg e Keitel o Stalin a Jalta Mac Milian e "Rustie" Davies o Domanov? Come veramente decidere? Non si tratta di prendere posizione solamente da un lato, ma di proporre il problema cercando di tener conto di molteplici incognite. Allora insorgono dubbi contrapposti ed è solo così che si offre al lettore materia di riflessione. Confessare la propria perplessità significa avere il coraggio di essere prudenti, dopo essersi resi conto di aver visto appena la punta dell'iceberg che nasconde in profondità il colossale volume. Era un miraggio? E i militari italiani che cosa facevano? Per un voltafaccia della politica nazionale, i tedeschi con l'8 settembre 1943 perdevano buona parte dell'esercito alleato e si affrettavano a neutralizzarla come ben si sa. La guerra civile aveva spaccato il resto fra forze ancora fedeli ed un crescente movimento di ostilità partigiana disseminato per le montagne, che aveva provocato la contromisura nazista dell'insediamento cosacco. Così proprio i protagonisti della guerra civile in Russia tra il 1918 e il 1920 tornavano alla ribalta della guerra civile in Italia nel 1944 e nel 1945. Se la prima volta erano riusciti a fuggire all'estero, la seconda volta, sognando di rientrare vincitori in patria, vi riuscivano come deportati in via di sterminio. Una sorte del genere, secondo Euripide, si ottiene sempre per opera di “dementia”, che il colonnello Merkulov alla Lubianka si compiace di qualificare come una grossolana idiozia. Ora se per idiozia, etimologicamente, si intende il "pensare per contro proprio", una cieca ambizione personale, questo è stato purtroppo il verme da cui furono corrosi sia Krasnov che Vlasnov. Non c'era il loro patriottismo disposto modestamente al sacrificio, ma temeraria cupidigia mascherata da arroganza e da enfasi promosse da ideologie nebulose, con programmi a vanvera, senza adeguata preparazione e soprattutto senza mezzi sufficienti ed efficienti. Si verifica così il paradosso per cui Krasnov attese per lunghi anni a Parigi il momento e il modo più adatto per consegnarsi a Mosca e in carcere, con tanto di alta uniforme, e lasciare nelle mani di Merkulov perfino la sciabola d'onore donatagli da Nicola II. E Domanov? Con due ben calcolati assassinii si era ben meritato il ruolo di "bel tenebroso" da romanzo d'appendice, personaggio meritevole di maledizione e tuttavia un po' patetico in tanta perversità per quell'ostinazione a inghiottire tutto, colpe e chissà che spiegazioni, senza appellarsi mai a nessuno. Ma bisogna contare anche Stalin. Senza di lui non ci sarebbe stato il diktat di Jalta, l'Armata Rossa non sarebbe arrivata a Klagenfurt, il ministro degli esteri MacMillan non avrebbe imposto alla VI armata brittanica la consegna dei generali "bianchi", inscenata magistralmente dal colonnello Davies con la trovata geniale della "conferenza " al cospetto del maresciallo Alexander, in modo che così erano osservati alla lettera i patti verso gli alleati sovietici col minimo spargimento di sangue, visto che i cosacchi decidevano di annegarsi nella Drava spontaneamente. Che razza di sarabanda. Gli inglesi arrivano a Tolmezzo giusto appena i russi l’hanno abbandonata, subito dopo sono questi a ritornare con la bandiera bianca per trattare la resa e preparare, senza ben rendersene conto e con totale condiscendenza, la propria definitiva perdita. Non si può non riconoscere, in tutto questo, il beffardo funzionamento di un meccanismo ad orologeria montato per regolare delle combinazioni micidiali. Al tempo della controrivoluzione, con Pietroburgo assediata dai "bianchi" e dall'intesa, il comandante Krasnov aveva stretto amicizia col giovane maggiore Alexander. Adesso, nell'estate del 1945, il vecchio atamano attendeva fiducioso che il vittorioso maresciallo inglese elargisse un atto di memore generosità. Anche questa formale ingenuità, si capisce, può apparire una grossa colpa politica, non diversa dall'aver creduto alle magniloquenti adulazioni naziste che verniciavano a mala pena il sottostante altezzoso disprezzo dei "signori della guerra" verso quella che per loro era pur sempre un'orda di provenienza orientale. Ma che altro restava da fare al vecchio ufficiale trasferito da Parigi occupata a Berlino, se non seguire un 'illusione dall'apparenza plausibile ? E ai tedeschi che altra soluzione si offriva contro le crescenti molestie partigiane se non approfittare di una massa di collaborazionisti più o meno spontanei, coinvolti nella condanna del governo legittimo? Che essi, i vecchi "bianchi ", non avessero mai accettato la Russia bolscevica poteva passare per un comodo sofisma a posteriori, ma Vlasnov e Domanov vi erano cresciuti e ne avevano ricevuto gradi ed onori. La "causa comune" abbracciava, nello stesso tradimento, tutti i caduti in disgrazia davanti al capriccioso tribunale della storia, così pazzi da non essersi accorti che lei, la subdola fata Fortuna, già da un pezzo aveva loro voltato le spalle.
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