Renzo Vidoni |
IL RASTRELLAMENTO
"Svegliati, svegliati" continuava a ripetere mia madre tutta agitata "Svegliati!" e mi scuoteva energicamente "Sono i tedeschi, è il rastrellamento". Capii solo la parola "rastrellamento". Feci un salto fuori dalle coperte. Non sapevo dov'ero, ero tutto intontito. Strofinavo continuamente gli occhi, sentivo solo le suppliche di mia madre di far presto a vestirmi. La mia testa era pesantissima, mi sembrava che un cerchio di ferro la stringesse. Quando, ripreso un po' i sensi e ripreso un pò l'orientamento, la mamma mi prese per mano e, in punta di piedi, mi accompagnò alla finestra, tra le fessure degli scuri intravidi due elmetti ben riconoscibili e due canne di fucile. Lo zio di mia madre, che abitava temporaneamente con noi e aiutava ai lavori dell'albergo, ritornò ansante bisbigliando a mia madre. "Stanno preparando!". La porta del retro-cucina dava sul cortile dei vicini. Sulla sinistra c'era il sottoportico della loro casa che dava sulla via principale ed in fondo, sulla destra del cortile, c'era la stalla. Non ricordo bene, ma mi sembrava di aver intravisto i primi bagliori mattutini. Il vecchio zio andò sotto il portico ad ispezionare la situazione e, ad un suo segnale, velocemente, mi diressi verso la scala esteriore che portava al piano superiore del piolo della casa dei vicini. Lì c'era Mario, che stava mnuovendo delle fascine. Appena mi vide, aprì la botola e senza una parola, mi accennò ad entrare. Sentii leggermente chiudersi la botola sopra la mia testa e mi trovai nel buio più profondo. Sentii il fruscio che Mario faceva nell'accatastare le fascine sopra la botola che era posta tra il muro della casa ed il muretto della scala esterna. Sentivo Mario parlare con la sorella Anute. Probabilmente ricapitolavano qualche istruzione, come rispondere ad un eventuale interrogatorio e, sicuramente, se le fascine erano ben accatastate e la botola ben camuffata. Mario e Anute erano contadini e proprietari del caseggiato vicino. Erano entrambi scapoli. Da quando ero saltato fuori dalle coperte a quando mi ritrovai semi paralizzato nel buio della botola, saranno trascorsi, forse, tre minuti. Eravamo tutti preparati. Se non in pratica, almeno in teoria, sul da farsi in caso d'emergenza. Mia madre con il suo istinto materno, protettivo verso il suo unico figlio, aveva pensato a tutto. Seppi più tardi, quando venne rilasciata dalla prigione, che gli interlocutori, cioè quelli che mi cercavano con il mio nome, che appariva su una loro lista, non trovarono nulla di compromettente. Tutto era stato cancellato in pochi minuti. Nella mia camera trovarono il materasso arrotolato sul letto, qualche vecchio libro di scuola ed alcuni giornali con vecchie date, lasciati appositamente nel comodino, come già pianificato. Alle persistenti domande di coloro che interrogavano, mia madre rispose sempre: "E' andato a Torino e da mesi si trova là per il suo lavoro!". Anche se non trovarono niente di compromettente, non le credettero del tutto, infatti, per rappresaglia, la portarono con loro, con altre cento persone, tra padri, madri e nonni, nella caserma degli alpini "Cantore" di Udine, adibita a prigione. Mi rannicchiai sul pavimento. Ancora stordito, provai a tastare intorno per cercare di individuare qualcosa. Era buio fitto! Non vedevo niente. Sentivo solo l'odore tipico di cantina, di muffa impregnata da fumi vinicoli, che le narici captavano dandomi un senso di prurito alla gola. Sapevo che nella cantina di Mario c'era una piccola porta che dava sulla strada. Ai passanti era difficile notarla, era una porta senza maniglia, tutta sporca di pantano e polvere di strada. Erbacce crescevano di fronte al gradino e tutt'intorno. Veniva usata, per fortuna, solo al tempo della vendemmia. Non attirava nemmeno l'attenzione degli aguzzini. Sentivo il via-vai, i passi pesanti cadenzati degli stivaloni, l'abbaiare dei cani lupo al guinzaglio, il parlare in diverse lingue, i rumori di moto e altri veicoli, lo scalpitìo degli zoccoli dei cavalli.
Con l'avanzare del giorno, un filo di luce incominciò al infiltrarsi da una piccola fessura tra le tavole della porta e venne a farmi compagnia. Che compagnia! Almeno potevo orientarmi in quel fitto buio. E' stato sufficiente per farmi trovare una piccola trave ove potermi sedere. La mossi lentamente nell'angolo più distante dalla porta della cantina. Avevo il timore che i cani potessero sentire il mio odore. Con i gomiti sulle ginocchia e la testa fra le mani riflettevo su quanto stava succedendo in paese. Riflettevo e ripensavo alla riunione che poche ore prima, insieme ad alcuni compagni, avevamo avuto con il nostro comandante tornato anche lui dalla montagna dopo il famoso rastrellamento che aveva posto termine alla grande zona libera della Carnia, per organizzare e pianificare il futuro del nostro gruppo. Avevamo fatto le ore piccole. Avevamo brindato piuttosto generosamente. Un po' per la gioia di essere ancora insieme, un po' per l'euforia di portare a termine, al più presto, quella maledetta guerra, un po' per la nostra spensierata gioventù e un po' perché il vino era veramente buono. Rincasammo un po' tutti presi dai fumi enologici. Quando mia mamma mi svegliò così energicamente, forse non erano strascorse neanche due ore da quando mi ero coricato. Ora quel cerchio alla testa continuava a stringere. La situazione oscura, non solo a causa del buio, ma per la mancanza di notizie, mi faceva vaneggiare. Non mi rimaneva che abbandonarmi in bàlia della sorte. Potevo valutare la situazione dal passaggio sulla strada, fuori lo scantinato. Facevo un inventario di quanti passavano, cercavo di individuare la razza captando e distinguendo la parlata, se erano tedeschi, repubblicani o cosacchi! La conclusione, a tarda sera, fu che la maggioranza di loro erano cosacchi. Ad un tratto sentii un forte abbaiare di cani. Sembravano essere fuori dala porta. Mi sembrava volessero entrare. Una voce forte ed un comando secco in tedesco li fecero tacere. Un brivido mi passò per tutto il corpo. "Ora mi prenderanno, hanno annusato la mia presenza". Ogni sorta di congetture mi passava per la mente. Forse i fumi dell'alcool della cantina, neutralizzarono il mio odore. Chissà! Non sentii più nulla, dovevano aver continuato la loro ricerca altrove. Con l'avanzare del giorno, sentivo sempre più traffico, più passaggio frammisto a grida, comandi e risate. Verso l'imbrunire, quando il mio compagno "filo di luce" stava affievolendosi, si cominciò a sentir cantare. Canti tedeschi, frammisti ad italiani e cosacchi. Realizzai che, ovviamente, erano tutti ubriachi. "Chissà cosa succederà nell'albergo a mia madre e a mio padre!". Quante domande e quante speculazioni negative passavano per la mia mente! Più si sentiva cantar forte e gridare, e più potevo identificare il loro stato di ubriachezza. Più alto lo stato di ubriachezza e più drammatiche diventavano le mie speculazioni. Dopotutto si sapeva come, in particolare i cosacchi, si dedicavano alle razzie, alle orge. Ormai il filo di luce non mi dava più compagnia. Il buio era tornato assoluto. I canti, le grida ed il traffico, divennero sempre più leggeri. Qualche ordine secco faceva eco in lontananza. Poi più nulla. Improvvisamente sentii il familiare rumore dello smuoversi delle fascine sopra la botola: "Mi hanno trovato!" pensai subito "speriamo non siano i cosacchi ubriachi!". Non avevo assaggiato in tutto il giorno una goccia di vino. Immediatamente, a tastoni nel buio, potei rintracciare il recipiente che stava sotto la botte, così pure lo spinello sporgente. Sempre a tastoni lo aprii e, alla meno peggio, riempii il mio improvvisato bicchiere che portai alle labbra, bevendo l'ottima bevanda con sorsi prolungati. Ad un tratto sentii la voce familiare di Mario chiamarmi. - Credo se ne siano andati, intanto prendi" e mi allungò un gamellino ed una fetta di polenta e formaggio e, richiudendo la botola, mi disse che voleva essere più sicuro, che andava a vedere ancora una volta com'era la situazione. - Intanto mangia e riscaldati! Risentii il fruscio delle fascine che venivano accatastate. Credo che quel gamellino di minestra sia stato il cibo più squisito del mondo. Che delizia! Erano forse le undici di sera quando sentii riaprirsi la botola. Mario, accompagnato dalla sorella Anute, mi assicurò che tutti i rastrellatori erano partiti. Mi fece entrare in cucina dove il vecchio zio mi attendeva. Lì, sotto una luce pallida e tra le imprecazioni contro i rastrellatori, lo zio mi annunciò che la mamma era stata prelevata e portata con le altre mamme, padri e nonni, a Udine. Come di consueto, notai che lo zio era anche lui preso dai fumi enologici, ma questa volta con una valida ragione: per farsi passare la paura e darsi coraggio. In un batter d'occhio mi trovai nella cucina dell'albergo. Li seduto c'era papà, visibilmente sconvolto dagli eventi, con il suo bastone fra le gambe. Senza parlarci ci abbracciammo per poi scoppiare in un pianto di disperazione e di sfogo. Appena ripreso dall'emozione, mi raccontò che gli avevano svuotato tutto quello che c'era da bere e da mangiare. Tanti avevano pagato, ma alla fine un gruppo di cosacchi ubriachi aveva aperto il cassetto portandosi via tutto l'incasso. Cercavo di tenermi più forte possibile, la situazione, ovviamente, era grave. Papà paralizzato per metà del corpo, la mamma prelevata ed in prigione, tutto l'albergo era un caos. Disordine e immondizie ovunque. Lo zio iniziò a raccontare come papà aveva avuto il coraggio, paralizzato com'era, di far fronte a questa masnada. Picchiava ripetutamente a tutta forza sul tavolo con il bastone, senza pausa, cercando di tenere un po' d'ordine con il risultato di farsi deridere da quella banda di ubriachi sghignazzanti. Poi continuò a raccontare come la mamma era stata interrogata, scortata in piazza ed ammassata con gli altri prelevati del paese. Come lui, cercando di portarle in una borsa con dentro il cibo, sigarette e una maglia di lana, era stato cacciato via come un cane con il calcio del fucile da un cosacco che faceva la guardia, dopo avergli strappato di mano la borsa ed averla tenuta per sé. Alcuni vicini vennero a darci coraggio e anche una mano per rimettere un po' d'ordine. Tutti avevano i loro problemi, tutti avevano qualcosa da raccontare. L'esperienza vissuta quel giorno, le malefatte subite. Su tutti era visibile lo sconforto e il dolore. "Hanno preso anche Tal dèi Tali, hanno svaligiato il negozio di Tizio, hanno rubato tutto il maiale lavorato da Talaltro... " Notizie frammentate, ma che ogni giorno si consolidavano con altri particolari, con altri orrori, anche perché essendo il nostro comune molto frazionato, era difficile comunicare. A presiedere il paese era un contingente della "Wehrmacht", installato in una grande villa centrale. I rapporti con la popolazione e con le autorità comunali erano, si può dire, buoni. Dopo il grande rastrellamento che segnò la fine della zona libera della Carnia, si videro sempre più giovani circolare in paese. Era ovvio a tutti che erano partigiani ritornati dalla montagna. Tanti cercavano di arruolarsi nelle organizzazioni della "Todt" per poter avere il cartellino, documento necessario per poter circolare. Ma non tutti riuscirono ad averlo, perciò il gironzolare diventava sempre più difficile. Comunque, tra i tedeschi locali e la popolazione, esisteva una tacita e reciproca tolleranza. Anche se, notando qualche movimento, cercavano si tenere un occhio chiuso. Tanto la maggior parte di loro erano piuttosto anziani o richiamati, reduci dai fronti e, da come si comportavano, facevano capire che di questa guerra erano stanchi. Dal giorno seguente il rastrellamento, si vide una moltitudine di cittadini recarsi alla villa del comando tedesco per protestare contro le ruberie e certi comportamenti, e sollecitare il ritorno a casa del loro cari che erano stati prelevati. I tedeschi cercarono di sentire tutti, si vedeva che erano spiacenti, che loro non erano colpevoli, che tutto era stato eseguito dalle SS di Udine e che avrebbero fatto tutto il possibile per correggere questa situazione. Il comandante ed altri ufficiali della guarnigione fecero di tutto per far liberare dalle prigioni la maggior parte degli uomini e delle donne. Degli oltre cento prigionieri, quasi settanta fecero ritorno a casa nel giro di venti giorni. Tra loro c'era anche mia madre. Trenta furono deportati nei campi di concentramento in Germania e solo la metà ne fece ritorno alla fine della guerra. Era evidente che i tedeschi non avevano simpatia per i cosacchi. Era una vergogna averli come alleati. Questi "zigoiners", come loro li chiamavano, non volevano trattarli con amicizia. Solo al comando delle SS erano utili. Nella lotta contro i partigiani vennero usati nei rastrellamenti con i più ampi poteri. Anche le malefatte delle S.S. stesse venivano scaricate sui cosacchi. Statizza! Questo nome era sulle labbra di quasi tutti i friulani. In ogni paese o borgata, il solo sentirlo era ragione di terrore. Non c'era stato rastrellamento di cui non sia stato al comando. Comandava con teutonica durezza. Era il cervello di ogni rappresaglia e di ogni interrogatorio. Chi passò tra le sue mani non potrà mai dimenticarlo. Violenza e sadica crudeltà, erano la carta d'identità del capitano Statizza del comando di sicurezza di Udine. Le minuziose ricerche fatte alle fine della guerra per poterlo rintracciare e fare giustizia, furono inutili. Svanì nel caos di quei giorni. Rimasero solo la sua ombra ed il suo nome a far ricordare il terrore che provocò a migliaia e migliaia di friulani. Dei diversi rastrellamenti che subì il nostro paese, quello fu il più grande per il numero dei partecipanti. Si calcola che vi presero parte tremila uomini tra repubblicani, tedeschi e cosacchi. In un altro rastrellamento, ricordo che una sera, verso le nove, un'autista della "Wehrmacht" del vicino comando arrivò all'albergo e casualmente bisbigliò a mia madre e a me che l'indomani mattina ci sarebbe stato un rastrellamento in paese. Il colonnello aveva ricevuto poco prima la notizia e consigliava che io ed altri amici, che anche lui conosceva, fossimo stati ospiti della villa per essere più sicuri e protetti e che portassimo con noi anche cose di valore, come radio, biciclette ed altro, che sarebbero potuti essere desiderio dei razziatori (era sottointeso i cosacchi). Feci un salto sulla bicicletta ed in men che non si dica bussai alla porta di una decina e più di amici nel nostro circondario portando questa notizia. A sua volta, ognuno di loro fece la stessa cosa. In poco tempo la notizia si diffuse, in maniera capillare, in tutto il paese. In nove ci si trovò alla villa, accettando l'invito del colonnello. L'autista era ad attenderci e ci portò in cantina. Ci accomodarono su delle cassette di munizioni che facevano da panchine e da tavolo. L'autista arrivò con diverse bottiglie di vino e, scherzosamente, si fece un brindisi. Ci si guardava in faccia. Eravamo un po' smarriti, si commentava sull'ironia di trovarsi nella cantina del comando tedesco, seduti addirittura su delle casse di munizioni, per essere protetti dallo stesso nemico. Non si sapeva se era un sogno o la realtà. Improvvisamente arrivò il colonnello, persona alta e distinta, portava il monocolo. Ci salutò e ci assicurò che eravamo in buone mani ed al sicuro da certe truppe che, purtroppo, operavano a nome della Germania. Si capiva a chi voleva alludere e, prendendo un bicchiere, brindò con noi. Si era ancora in cantina, un po' allegri per il buon vino del Collio che ci era stato offerto, quando l'autista si presentò chiedendo chi volesse andare con lui a Trieste, perché entro poco avrebbe dovuto partire. Accettai l'invito. Pensavo di fare una sorpresa alla mia madrina che abitava a Servola, un rione alla periferia di Trieste. A est, tra le montagne, si intravedeva un bagliore rosso, annunciatore del buon mattino. Mi soffermai contemplando la bellezza dell'aurora, respirando a pieni polmoni quell'aria fresca e dai mille odori, quando l'autista arrivò con la macchina davanti all'entrata della villa. Passando per le strade del paese si notava già il pullulare dei militari che si scambiavano gli ordini. Veicoli arrivavano e partivano. L'annunciato rastrellamento era iniziato. Al nostro passaggio, tanti militari ci salutavano. Non potevo trattenermi dal ridere! Alla periferia era piazzato un posto di blocco con cavalli di Frisia. L'autista rispose alle domande dell'interlocutore. Non capivo che cosa si dicessero ma, ad un tratto, la guardia scattò sull'attenti facendoci passare. Erano due cosacchi, armatissimi, con il loro caratteristico colbacco, posti a guardia del posto di blocco. "Che ironia.", pensavo, "forse avranno una lista con il mio nome". L'autista fece un commento spregevole verso di loro. Il nostro viaggio per Trieste fu interrotto diverse volte. Dovevamo rifugiarci sotto gli alberi o tra le case a causa dei frequenti mitragliamenti dei caccia alleati. Rimasi tre giorni a Trieste presso la mia madrina. Quando mi vide non sapeva se fosse un sogno o la realtà. Era tutta agitata, preoccupata, non sapeva cosa fare. Nella mia giovanile spensieratezza non riuscivo a capire ancora il perchè di tutto l'affanno e la preoccupazione della madrina. Cercai, comunque, di tranquillizzarla spiegandole che ero sfuggito al rastrellamento e che dovevo ringraziare il Signore perché ero li con lei! Per fortuna non venne a conoscenza del viaggio di ritorno! Per fare i quasi cento chilometri di ritorno mi ci sono volute quasi ventiquattro ore. Parte su di un camion scoperto, parte a piedi, un tratto con la corriera. Avevo dovuto allontanarmi dai centri abitati dove, dicevano, c'era pericolo. C'era anche stato un altro mitragliamento aereo. Ad un posto di blocco, chi comandava, non voleva riconoscere il mio tesserino di lavoratore della TODT. Dopo diverse domande riuscii a convincerlo che ero stato mandato a Trieste per questioni di lavoro. Evidentemente le mie risposte furono abbastanza convincenti perché mi fecero salire sul successivo camion che passò, augurandomi buon viaggio. Al ritorno fui subito tranquillizzato perché i miei genitori, anche se con il morale basso, stavano bene. Iniziarono a raccontarmi di chi era stato prelevato, che i rastrellatori non avevano trovato nessun giovane, delle razzie che i cosacchi avevano fatto a diverse famiglie, che sulla piazza del paese un maresciallo tedesco aveva freddato, con due colpi di pistola, un graduato cosacco. Due donne piangenti erano andate a protestare presso le autorità tedesche per l'aggressione subita. Un gruppo di cosacchi le avevano violentate, nella loro casa in campagna. Il maresciallo tedesco chiese loro se erano in grado di identificarli. Una delle donne additò un omone che spavaldamente cavalcava in piazza tra i suoi cosacchi. L'altra donna confermò il riconoscimento. Ci fu un acceso diverbio tra il maresciallo ed il cosacco. Apparentemente il cosacco non voleva obbedire ad un ordine del maresciallo. Quando il cosacco tentò di estrarre la pistola, il tedesco lo freddò con due colpi, dando l'ordine di lasciarlo a terra affinchè tutti potessero vedere che giustizia era stata fatta. Il corpo fu caricato su uno dei loro carri della steppa e trasportato verso la strada per Osoppo, seguito dai loro compagni che lo accompagnarono con canti funebri e tristi della loro terra. |