CON COERENZA   .   Capitolo 23

CON  COERENZA

 

 Via Spalato

A Udine ci consegnarono alle carceri di via Treppo, da quì, ci portarono in via Spalato, dove iniziò un’altra vita, che durò la bellezza di 190 giorni, (oltre sei mesi), però ero tranquillo, finalmente potevo dormire tutta la notte. 

Nella nostra cella, non più grande di una stanza di dimensioni normali, eravamo in sedici, la sera per dormire allargavamo la paglia che di giorno accantonavamo, in un altro angolo c’era il bugliolo per i bisogni fisiologici. Ci veniva dato un pasto al giorno, ma molto spesso i nostri familiari venivano a portarci dei viveri, così la “sbobba” potevamo darla a quelli che venivano da lontano e non avevano la nostra fortuna.

I primi tempi furono abbastanza duri, poi le carceri cominciarono a riempirsi di partigiani  colpevoli di varie angherie, ben presto diventarono la maggioranza. Enore Viezzi, allora, cominciò a divertirsi, ogni motivo era buono per attaccar briga con loro e alla fine riempirli di botte. Dopo essersi sfogato, chiedeva, però, sempre scusa per aver ecceduto:  

«Non volevo ...... nel trambusto non mi sono accorto che eri tu .....», diceva!

Le carceri erano ormai così affollate che un giorno ci trasferirono in un campo recintato vicino a Palazzolo dello Stella, la guardia era fatta da partigiani.

Una sera, un partigiano recluso fingendo di sentirsi male, riuscì a disarmare la guardia che era accorsa, con il fucile ne disarmò altre, fino ad impadronirsi dell’intero campo.

Allora gli insorti ci radunarono dicendo:  

«Chi vuole seguirci nella fuga si metta sulla destra, gli altri restino dove sono!» 

Mi tornò subito in mente quello che era successo a Schio, poco tempo prima. Un partigiano, dopo essersi introdotto armato di mitra in un carcere,  aveva ammazzato a sangue freddo una decina di carcerati del R.S.I. che gli erano capitati a tiro. Presagendo qualche colpo di testa, accettammo quasi tutti di unirci a loro, anche se non riuscivamo a capire dove volessero andare e, tagliato il reticolato, uscimmo dal campo.

Il buio era pesto, così, passato qualche minuto, ci defilammo rientrando dal portone principale; andammo a dormire, per sicurezza, sotto una tettoia.

L’indomani dovevano arrivare in visita al campo il Vescovo ed il Comandante inglese della “Piazza di Udine”, prima di loro, però, erano arrivati dei partigiani che, dopo averci inquadrati, cominciarono ad urlare improperi  di ogni genere:

«Delinquenti, avete cercato di evadere!» .

Qualcuno aveva anche incominciato a puntare la pistola alla tempia ora ad uno ora ad un altro di noi, per fortuna sopraggiunsero le auto provenienti da Udine e fu ristabilita la calma. 

Il Comandante inglese ci disse quello che una persona di buon senso avrebbe subito capito: 

«Visto che non avete approfittato dell'occasione per evadere, capisco che non avete commesso nulla di molto grave, di questo ne terrò conto». 

Concluse chiedendoci se c’era qualcosa che avesse potuto fare per noi.

Rispondemmo che, dopo l’amnistia, non era più reato aver fatto parte dell’R.S.I., perciò era assurdo continuare a tenerci prigionieri. Gli chiedemmo di poter essere mandati a casa o di processarci.

Passata la burrasca, venti giorni dopo fummo trasferiti a Udine, dove cominciarono gli interrogatori. Io fui interrogato da un Capitano dell’Artiglieria Alpina della Julia, in un primo momento mi aggredì, ma passato un pò di tempo, ci trovammo a ricordare le vicissitudini comuni passate in Russia e, alla fine, mi offrì pure di fumare.

In cella eravamo tutti ex aderenti all’R.S.I., ad eccezione di uno, che invece era un antifascista della prima ora, per questo aveva conosciuto varie carceri.

Il secondo interrogatorio, fatto da un’altra persona, si concluse così: 

«Hai fatto sei mesi di galera, proprio quelli che voi avete fatto fare a me e per me può andar bene», aveva una lettera in mano che strappò porgendomi i pezzi.

In cella, aiutandomi con della mollica di pane, incominciai a ricostruire il puzzle: constatai che la lettera conteneva delle accuse false nei miei riguardi. La feci leggere all’ex federale di Udine Mario Cabai, mio compagno di cella e avversario di innumerevoli partite a briscola il quale, conoscendo l’accusatore, commentò:

«Questo mascalzone non mi stupisce, lo conosco».

Molti, pur di salvarsi in quei terribili giorni, cercavano di ingraziarsi i vincitori accusando a casaccio altre persone. Altri, ne approfittavano per vendicarsi. Anche mio zio, Angelo Papinutto, ne fece le spese.

Fu tradotto in carcere presso Villa Barnaba nei primi giorni di maggio e scarcerato il 14 dello stesso mese . Il mese dopo fu nuovamente denunciato  da una persona che asseriva di essere stata presa a schiaffi e da un’altra, che sosteneva di aver sentito mio zio ed altri suoi amici, esprimersi “in termini poco benevoli nei riguardi di .…. ……  ……“ non solo, ma anche di aver avuto “l’impressione che la loro disposizione d’animo verso i suddetti fosse malevole.” . Salvo poi ritrattare, fortunatamente, ogni cosa dichiarando (il primo) di aver parlato in “un momento di smarrimento intellettuale perchè preso dal vino”

Per completezza ed onestà e soprattutto per non fare di ogni erba un fascio, devo aggiungere che “Tripoli”, capo del gruppo partigiano di San Floreano, rilasciò spontaneamente, mentre mi trovavo in carcere, una dichiarazione scritta, a mio favore, in cui  dichiarava che “nonostante le mie idee fasciste”, mi ero sempre comportato da persona irreprensibile.

Anni dopo mi è giunta anche alle orecchie, da fonte certa, il nome di chi era stato il mandante del “mancato prelievo” del 4 ottobre ‘44.

«Che cosa aspettate a far fuori quei due (Viezzi ed io)», a dirlo era stata una persona che, se avesse seguito i principi in cui credeva, non  avrebbe dovuto neanche pensare una cosa simile !   

 

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