RITORNA AL TESTO | CAPITOLO 10 |
LA FUGA
Alcuni giorni dopo due militari molto anziani mi presero in consegna, non so dove intendessero condurmi; quando il treno giunse in prossimità della stazione di Lienz si fermò al suono delle sirene che preannunciavano un attacco aereo. Le mie due guardie scesero dal vagone e si misero a correre facendomi segno di seguirli al vicino rifugio antiaereo. Fatti pochi passi mi accorsi che si erano completamente dimenticate di me, il rumore delle fortezze volanti che passavano sopra le nostre teste le aveva evidentemente terrorizzate. Uscii velocemente dal paese e mi misi a costeggiare la Drava che scorreva per molti tratti a fianco della ferrovia. Il fiume rappresentava per me l’unica fonte di orientamento, sapevo che, seguendolo, mi avrebbe portato a Villach; camminai verso sud per chilometri e chilometri. Passai la prima notte all’addiaccio, in un bosco. L’indomani ripresi la marcia, le campagne che percorrevo erano innevate e fangose, gli zoccoli di legno ai piedi stavano cedendo, pochi chiodi trattenevano ormai un lacero pezzo di cuoio, che per fortuna resse fino a Buja. Faceva buio quando giunsi finalmente a Villach. Notai, appoggiati su di un muro, due cappelli di operai della Todt: ne presi uno e me lo misi in testa. Fu un gesto istintivo che però mi salvò la vita. E’ incredibile notare quanto essere vivi o meno dipendesse da un numero infinito di casualità più o meno fortunate. Ero stanchissimo, infreddolito ed affamato, il morale era così a terra che a quel punto la cattura mi sarebbe sembrata quasi un sollievo, una liberazione. Con quel cappello in testa passai davanti a diversi militari tedeschi che mi salutarono distrattamente. Non so quante volte in quei giorni ho visto la morte davanti agli occhi. La tensione mi procurò una specie di crisi nervosa, che durò per circa sei mesi: quando mi prendeva mi irrigidivo in tutto il corpo come in uno spasmo. In una via notai due uomini, uno aveva un badile in mano mentre l’altro teneva dei sacchi, avevano un cappotto che assomigliava moltissimo ai cappotti dei militari italiani. Quando giunsi a pochi passi non avevo più dubbi, e chiesi loro: “Siete italiani? “, “Si” mi risposero “e tu da dove vieni ?” Dopo aver scambiato quattro parole, volevo avere informazioni sicure sulla strada che portava ad Arnoldstein, avevano già capito che ero fuggito dalla prigionia. Mi raccontarono che qualche mese prima pure loro avevano tentato la fuga, ma erano stati presi alla frontiera, a causa di ciò, ora si trovavano ai lavori forzati con un vitto ridottissimo. Si misero quindi a discutere fra loro, uno milanese, era titubante, mentre l’altro, romano, voleva ritentare la fuga ora che avrebbero avuto la compagnia di qualcuno che conosceva meglio di loro la regione. Ad un certo punto il milanese appoggiò la pala al muro e mi disse: “Veniamo anche noi”. Uscimmo da Villach ed entrammo subito nei boschi, il terreno era ghiacciato, ricordo nel silenzio della notte gli scricchiolii che provocavano i nostri zoccoli sul ghiaccio che si frantumava, ci sembrava che quel rumore avessero potuto sentirlo a chilometri di distanza. Il romano era così debole che svenne diverse volta per la fatica, non ce la faceva a proseguire diceva continuamente: “Non ce la faccio, io muio, io muoio, aiutatemi” . Non so per quanto lo trascianai prendendolo sottobraccio, ma anch’io ero sfinito; omai erano due giorni che non mangiavo. Quando dovevamo andare in discesa lo facevamo sedere sul cappotto che io e il milanese trascinavamo come fosse una slitta. In piena notte giungemmo ai limiti di un bosco, poco sotto si notavano delle case, delle luci, vedemmo anche passare un treno e allora fummo presi dal dubbio di essere gia arrivati in Italia. Il romano, stanchissimo, cominciò a dire: “Io vado a chiedere aiuto, non mi sento bene!” Il milanese cercò di fermarlo, di farlo attendere, anch’io gli dicevo di provare ad andare un poco più avanti, ad una certo punto ruppe gli indugi e scivolando sulla neve fece un centinaio di metri, quindi si alzò in piedi e proseguì verso le luci che si scorgevano più avanti. Pochi attimi dopo, improvvisamente, lo vedemmo circondato da soldati tedeschi, le luci che avevamo visto non erano altro che il posto di blocco di frontiera. La sua cattura, come spesso accade in simili tragiche situazioni, rappresentò la nostra salvezza. Ripartimmo immediatamente nel timore che avessero potuto scorgerci, tornammo indietro e continuammo a camminare fino a raggiungere la ferrovia oltre il posto di blocco. |