RITORNA AL TESTO

PRECEDENTE CAPITOLO

CAPITOLO 9

PROSSIMO CAPITOLO

DEPORTATO

Dopo la fine del conflitto, venni a sapere, da una persona che aveva avuto accesso agli archivi, che i tedeschi sapevano tutto di me e dei miei movimenti, persino del giorno del mio rientro a Buja dopo la fuga dalla prigionia che racconterò in seguito. Questo mi ha fatto capire che certe cose potevano saperle solo perchè tra noi partigiani c’erano degli informatori………..

Alcuni giorni dopo, una trentina di noi venne incolonnata nel piazzale della caserma; ci fecero partire a piedi, camminavamo in fila indiana in mezzo alla strada con i tedeschi ai lati, armati fino ai denti. Sentivo che dovevo fare il possibile per scappare: ormai la fuga era diventata il mio chiodo fisso.

Eravamo certi che saremmo tutti finiti davanti al plotone di esecuzione. Provai ad inginocchiarmi facendo finta di allacciare una scarpa, come risultato ottenni un calcione che mi fece fare un salto di due metri.

Ad un certo punto uno di noi disse:

“Ci portano alla Stazione Ferroviaria!”.

Quella constatazione ci fece tirare un grosso sospiro di sollievo, di fronte alla prospettiva di venire fucilati, quella notizia ci fece rinascere.

Attendemmo il convoglio alla Stazione fino al pomeriggio. Alcune donne ci raggiunsero per consegnare piccoli pacchi con generi di conforto, ne riconobbi anche alcune di Buja. Ricordo che verso mezzogiorno, due crocerossine che cercavano di fare il possibile per aiutare chi aveva bisogno, furono malmenate e cacciate in malo modo.

Infine giunse il treno e ci fecero salire su dei vagoni bestiame.

Speravo tanto in un’azione partigiana alla ferrovia, per liberarci, ma arrivammo alla prima fermata, a Moggio, senza che accadesse nulla. Provai di nuovo a tentare la fuga: chiesi di andare ai servizi e mi fecero scendere dal treno. Mi chiusi nella latrina, visto che non c’erano finestre che permettessero la fuga, rimasi fermo sperando che si dimenticassero di me.

Poco dopo, però, due forti colpi alla porta mi riportarono alla realtà: quando uscii il tedesco che prima mi era sembrato avesse un “volto umano” mi rifilò una botta nella schiena con il calcio del fucile, come se volesse dirmi “Chi vuoi far fesso…..”.

Passato il confine ci fermammo a Spittal, erano circa le nove di sera.

L’indomani ci portarono in una baracca all’interno di un campo di prigionia posto a ridosso della Drava, il paese, che si trovava nelle vicinanze di Lienz, era posto sulle sponde del fiume Schwarzach.

Mi tolsero gli scarponi e mi consegnarono al loro posto un paio di zoccoli di legno da mettere ai piedi e una coperta molto leggera. Da mangiare per tutta la giornata ci diedero tre patate a testa, ricordo che due erano ghiacciate.

Un tedesco, in perfetto italiano, fece l’appello, avvertendoci che sarebbe ritornato l’indomani mattina. Ci sconsigliò di tentare la fuga ricordando che i fuggitivi venivano immediatamente passati per le armi e non mancò di aggiornarci riguardo alle ultime esecuzioni, che erano avvenute solo qualche giorno prima.

Nella baracca con me c’era anche Francesco Vattolo che abitava ad Avilla di Buja, ed era ultra sessantenne. Il freddo era intenso e lui tremava come una foglia.  Gli diedi anche la mia coperta e ci adagiammo vicini sul pavimento, quante volte quella notte lo sentii chiamare la moglie Lucia!

Per fortuna Francesco venne rilasciato poco tempo dopo.

Il giorno seguente ci portarono nella vicina città di Lienz, in un grande capannone: ci fecero denudare, ci visitarono e disinfettarono, infine rientrammo al campo.