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PRIGIONIERO

Il mattino del 21 dicembre 1944 verso le quattro del mattino un partigiano venne a svegliarmi per dirmi che dovevo subito avvertire tutti che di lì a poche ore ci sarebbe stato un grande rastrellamento: immediatamente corsi ad avvertire tutti quelli che conoscevo. Così facendo rimasi praticamente l'ultimo a mettermi in salvo, stava quasi albeggiando e avevo appena avvertito chi era in fondo alla lista, quando mi accorsi che stavano arrivando i tedeschi ......................

Fuggii nei campi dove trovai un altro partigiano in fuga, ........ .........., assieme a lui, camminando lungo i viottoli, arrivai nei pressi del Tiro a segno nella frazione di Tonzolano, quando cominciammo a sentire un lontano rumore di passi: erano soldati in marcia che si avvicinavano. Ci nascondemmo dietro un cespuglio, passarono ad una ventina di metri da noi e non ci avrebbero assolutamente visti nella semioscurità, se il mio compagno, preso dal panico, non si fosse messo a correre.

"Alt! Alt! Alt!" cominciarono ad urlare i tedeschi puntando le pile verso il cespuglio. Il mio amico riuscì a dileguarsi, fortunatamente non spararono, ma io fui fatto prigioniero. Sospettarono che non fossi solo, ma li convinsi del contrario.

Ero riuscito in quegli attimi a buttare via la pistola Berretta che portavo con me, non la trovarono, così non corsi il rischio di essere passato immediatamente per le armi.

Dopo avermi chiesto la carta d'identità, il comandante dei Repubblichini aggregati ai tedeschi, "Starnizza" me la strappò davanti agli occhi e mi buttò i pezzi in faccia, dopodiché mi prese per il giubbino militare inglese che portavo e mi diede una forte strattonata. Mi portarono nella piazzetta del borgo di Tonzolano, dove una bellissima donna, ausiliaria delle truppe fasciste, mi sputò in faccia.

Assieme ai tedeschi c'erano alcuni collaborazionisti bujesi, uno di loro disse al comandante:

"Abbiamo preso il più grande bandito di Buja! ".

Quindi mi portarono, assieme a un centinaio di prigionieri, in Collosomano, dove, con mio grande stupore, trovai, assieme ad una mezza dozzina di partigiani anche i miei nonni (sia paterno che materno), e Gianna. Passato un certo tempo, lei si avvicinò ad un repubblichino e, volgendo lo sguardo verso di me, gli chiese:

" Che cosa fanno a quello là?".

La risposta fu lapidaria:

" Quello non arriva a domani ".

La sera stessa su dei camion ci condussero tutti a Udine, presso una vecchia caserma degli alpini adibita a prigione, vicino Madonna delle Grazie.

I giorni seguenti, entrambi i miei nonni, Gianna e moti altri bujesi furono rispediti a casa.

Appena arrivato, ricordo che fui avvicinato da una persona che, vedendomi addosso il giubbino inglese, mi chiese a bruciapelo:

“Sei un partigiano ?”

“Si” gli risposi.

Lui aggiunse:“Pure io, …. sono un comandante partigiano, stai attento, … non dare confidenza a nessuno, qui dentro è pieno di spie …”

Il servizio di guardia era svolto da cosacchi, ma fortunatamente in quella caserma prestava servizio anche Enore Viezzi, un compaesano.

Enore era notoriamente fascista, ma constatai di persona che, rischiando grosso, non mancava di aiutare chi ne aveva bisogno, indipendentemente da come la pensasse.

La sera, con una cordicella che facevo scendere dalla cella al primo piano, recuperavo i pacchi che i nostri familiari venivano a portarci e non avevano la possibilità di consegnarci. A portare i pacchi in caserma ed ad attaccarli era proprio lui: Enore.

E pensare che, poco tempo prima, per alcuni giorni avevamo tenuto sotto controllo tutte le strade di Buja, per “fargli la foglia” quando fosse rientrato in famiglia. Fortunatamente non lo fece.

Si voleva ammazzare chi in seguito avrebbe aiutato i bujesi in diverse occasioni..è l’assurdità della guerra.

Il comandante partigiano in cella con noi aveva una sorella, molto carina e distinta, che spesso veniva a fagli visita e che riuscì a farlo fuggire.

Io avevo la certezza che sarei stato fucilato poiché ero un noto partigiano e sapevo che era solo questione di giorni. A darmi questa convinzione era stato l’interrogatorio: non mi venne chiesto nulla, oltre ai semplici dati anagrafici ed ebbi la netta sensazione che sapessero già tutto.

Il giorno di Santo Stefano, alle sei del mattino, i tedeschi entrarono nello stanzone che fungeva da cella e prelevarono dodici persone; ricorderò finchè vivrò il primo nome: “Trombetta Leo” di Osoppo.

Fra questi c’era anche un bujese, (di cui non ricordo il nome) che, convinto di andare a casa, mi chiese cosa doveva riferire a mia nonna al suo rientro.

Che io sappia, i loro corpi non sono mai stati trovati.