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|  A   MONACO I  Kommandos con squadre di cinquanta uomini (un vagone) partivano alle ore  6 dalla stazione del campo, dopo la conta sul piazzale dell’appello,  con un Kapò e gli uomini della scorta, soldati della territoriale,  feriti sui diversi fronti di guerra ed handicappati civili. Il viaggio  in vagoni bestiame rattoppati alla meglio, avveniva sotto il costante  pericolo di bombardamento e raffiche dei caccia alleati che  accompagnavano le fortezze volanti. Per tale motivo la porta del vagone era sempre aperta e presidiata dal Kapò e dalla scorta. In caso di attacco il treno si fermava e dai tanti vagoni uscivano veloci gli zebrati ed accompagnatori che si rifugiavano sotto gli alberi nella campagna adiacente. Gli aviatori, vista la foggia dei nostri abiti e lo scintillio delle gamelle, cessato il mitragliamento, si abbassavano e ci salutavano, si vedevano le mani ed i caschi dei piloti dei caccia muoversi in segno di saluto. Cercavano di colpire la locomotiva mentre i bombardieri iniziavano a sganciare le bombe alla periferia di Monaco.  Eventuali feriti o morti venivano  scaricati ai bordi della linea ferroviaria e raccolti al ritorno al  Campo. Se alla partenza eravamo in duemila più gli accompagnatori, al  rientro dovevano esserci duemila “pezzi” (vivi o morti) più la  scorta. Nessuno fuggiva, perché vestiti e ridotti come eravamo non  c’era alcuna possibilità di scampo. Nelle stazioni ferroviarie  superaffollate quando passavamo a gruppi di cinquanta in fila, invece,  nessuno ci degnava di uno sguardo. Eravamo già “puro spirito”.    I lavori consistevano nel caricare vagoni con pietrame residuo di palazzi bombardati, nello scaricarli nelle grandi buche scavate dalle bombe, nel livellare l’opera, ripristinare i binari ferroviari. Questi lavori erano privi di pericolo da bombardamento, in quanto non veniva colpita mai la località distrutta nel precedente attacco. Alle 18 si ripartiva verso il campo per la conta, la cena, la pulizia ed il riposo. Due zebrati di ogni gruppo passavano, prima della partenza, la mattina presto, con un militare accompagnatore, a ritirare il bidone della minestra ed il pacco delle vivande che venivano distribuite alle ore 10, quale compenso per il lavoro effettuato (chiamato Brotzeit) che consisteva in una piccola fetta di pane nero con sanguinaccio o piccola porzione di salame. Mi sono trovato una sola volta sotto un bombardamento in città a Monaco.  Stavamo caricando un camion militare  con materiale ferroviario. Ci hanno fatto entrare in un bunker  profondo, buio, freddo. Sentivamo vibrare le mura e sollevarsi il  pavimento come durante un terremoto. Al cessato allarme, siamo usciti e  non c’era che desolazione, case sventrate, il camion a pezzi, buche  immense e polvere nell’aria. I  Kapò che accompagnavano le squadre al lavoro erano vecchi ergastolani,  triangoli verdi o neri, muniti di flagello e non lesinavano le loro  carezze alla sola vista delle SS di sorveglianza o alla presenza dei  civili incaricati ai lavori di ripristino. Una volta sono stato colpito  alla faccia da una frustata che mi ha lasciato un segno livido e duro  per parecchio tempo. Le domeniche le passavamo al campo nella Stube 4,  nel nostro Block n. 22. Lo Stubetester era migliore di Favreska, non ci  maltrattava né molestava. E poi eravamo stanchi, affamati, denutriti,  sfiduciati e camminavamo come automi. A lui non interessava «insegnarci  a vivere», preferiva lasciarci morire in pace. Si circondava di ragazzini che gli rendevano meno desolanti le giornate quando andavamo al lavoro. Diceva che a lui non interessavano le donne. Le giornate correvano, monotone, uguali, solo la fatica era diversa, gravosa, massacrante. Un giorno mi sono sentito male, avevo la febbre, la faccia come un pallone, brividi e dolori diffusi. Non andai al lavoro, rimasi nella cuccetta del castello. Chiamato dal Kapò, venne un medico. Mi visitò, era italiano. Mi disse che avevo, tra l’altro, gli orecchioni e di stare riparato. Non poteva prescrivermi più di due giorni di riposo, poi era domenica. Sarei tornato al lavoro il lunedì seguente. Tre giorni di riposo. Visitò poi un altro che non era andato al lavoro. Aveva solo ossa e pelle raggrinzita gialla. Non aveva pancia, ma solo una specie di tubo che univa le anche al resto del corpo. Disse al medico, in russo: «Ho dei tremendi dolori al ventre».   L’interprete tradusse. Il medico scrisse, poi parlò: «Non posso  darti riposo, né scrivere che hai dolori al ventre, se il ventre non ce  l’hai».  Poco dopo gli  incaricati dell’infermeria vennero a prelevarlo, non si vide più. Era  uscito dal “camino”. Era stato un cattivo allievo, non aveva  imparato a vivere nel paese dei superuomini. Né lui né la fila dei nudi con cartellino all’alluce, sovrapposti nel cortile in attesa del carro del crematorio. Altre due volte il treno che ci portava al lavoro fu mitragliato. Nel mio vagone tre compagni furono feriti. Furono scaricati dal vagone con un militare di guardia. Al ritorno la sera furono ricaricati, erano morti dissanguati. Dovevano essere presenti alla conta. Sfilarono con noi, portati dai piedi e dalle braccia. Il conto tornava.  Duemila partiti, duemila tornati. Venne  Pasqua, Pasquetta. Riposo e minestre all’italiana. Pulizia, rasatura,  cambio di biancheria. E di nuovo in ferrovia. Quando bombardavano ci  rifugiavamo nelle buche delle bombe. In cinquanta più il Kapò e la  scorta. La buca era così grande che avrebbe contenuto centinaia di  “pezzi”. Ci denudavamo e cercavamo, nelle cuciture dei vestiti, i  pidocchi. Se il bombardamento continuava, ci raccoglievamo vicino ad un romano, cuoco, che aveva anche prestato opera presso la casa reale. Ci spiegava, illustrava i suoi primi piatti, i menù, gli arrosti, i manicaretti, le pastasciutte, i risotti, i contorni, le verdure, i dolci. Lui parlava, noi inghiottivamo e tutto finiva con un bruciore allo stomaco a causa dei succhi gastrici che ci bruciavano le carni.  E la notte, dopo sonni  pieni di incubi, seguivano sogni di pranzi sontuosi, luculliani. La  mattina al risveglio, la cruda realtà: stomaco vuoto, fame, il mondo in  girandola per la bassa pressione sanguigna, le grida del Kapò e degli  inservienti ed una giornata snervante davanti, il lavoro da schiavi, la  frusta sibilante, pugni, calci e le ore lente interminabili e le bombe  che ci preparavano il lavoro per il giorno dopo. Un giorno il treno non si dirige verso Monaco, ma a nord: era stato colpito un trasporto merci ed i binari della ferrovia. Le gru avevano già rimossi i vagoni che giacevano sventrati nei campi circostanti. Noi dovevamo ripristinare i binari. Giorni prima, sentivamo le fortezze volanti scaricare il loro contenuto sempre più vicino, ma udivamo il fragore della battaglia lontano come brontolio di temporale.  Quel  giorno si sentiva chiaramente il cannone, il mortaio, i carri armati in  movimento. Il fronte si stava avvicinando. Si percepiva una rabbiosa  controffensiva dei tedeschi. Una feroce battaglia era in corso. I  caccia veloci sorvolavano le nostre squadre e tacitavano le contraeree  ancora efficienti a protezione dei bombardieri dal rumore  inconfondibile. La sera tardi, a lavoro ultimato, tornammo al campo convinti che la guerra per i tedeschi volgeva al peggio. I lavori continuavano, si partiva presto la mattina verso Monaco. La città era completamente distrutta, avvallamenti, alture, colline di macerie. I bombardamenti erano continui. Il fragore della battaglia sempre più vicino. I caccia americani padroni dei cieli. A sera si tornava stanchi, sfiniti.   C’erano ancora la conta sfibrante e gli ordini insensati ed inutili  dei Kapò. Binari da ripristinare, da rabberciare, dovevamo riparare  anche quelli che ci riportavano nel campo. Il pericolo sempre in  agguato. Diversi treni pieni di prigionieri, provenienti dai campi  satelliti, arrivavano ogni giorno. Alla sera quando tornavamo dal  lavoro, c’erano nella piazza della conta centinaia di zebrati sfiniti,  moribondi, tra stracci, immondizie.   Quelli ancora validi venivano sistemati nelle Stube, parte nel  Revierbaracken, infermeria del campo e tanti erano pronti per i forni  crematori.  Il  fronte si avvicinava, in certe Stube i “pezzi” raggiungevano il  numero di quattrocento e più.  Il  campo era diventato un grande contenitore di “mussulmani” morti e  morenti. Un giorno, il 27 aprile, non riuscimmo a partire. Il treno del  campo era stato colpito. I vagoni piombati provenienti da altri campi,  pieni di zebrati, fermi sui binari. Alla mattina dello stesso giorno  oltre duemila russi erano stati evacuati a piedi, diretti nessuno sapeva  dove. I giorni precedenti erano partiti per ignota destinazione gli  ebrei e gli avversari del regime. Tutti erano, a pochi chilometri da  Dachau, stati mitragliati ed uccisi nei boschi sovrastanti la cittadina. Il  giorno 28, nelle ore pomeridiane, tutti gli italiani erano stati  convocati sull’Appelplatz. Ci consegnarono un pane intero, una scatoletta di carne e della margarina. Ci dissero che il cibo doveva bastare per tre giorni di viaggio. Al momento della partenza, il suono della sirena, che annunciava allarme aereo, una pioggia che cadeva a folate, ordini disordinati, contrordini, la notte incipiente e movimenti di prigionieri in entrata, scombussolarono i piani delle SS. Ci fecero rientrare nelle baracche e nelle camerate, tra una confusione indescrivibile, senza scorte ed accompagnatori. Seguì una notte da tragedia.  Si udiva il combattimento  sempre più vicino. Un cannoneggiare, apparecchi che sorvolano, rumore  sordo continuo. Un parlottare tra noi, ignari di quanto succedeva nelle  alte sfere in quelle ore. Cominciammo intanto a mangiare pane e  margarina.  Al comando del  campo gli ordini erano contraddittori. I militari di guardia nel campo  furono nella notte posti in stato di combattimento all’esterno del  campo. Fu fatto entrare un reparto di SS al comando dell’SS Obersturmführer  (tenente) Skodzensky.  La  sera quindici internati di dodici differenti nazioni si costituirono  come comitato internazionale nell’intento di formare un comando per  mantenere la disciplina ed i servizi se le SS avessero abbandonato il  campo e per prevenire qualsiasi tentativo delle SS di distruggere il  campo ed eliminare i deportati. La  mattina del 29 le bandiere con la svastica vennero ammainate ed issate  sul pennone del Jourhaus e sulle torrette di guardia grandi bandiere  bianche sventolanti che garrivano al vento. Correva anche voce che  Kaltenbrunner avesse ordinato di far saltare con bombe e mine Dachau. A  Paul Giesler, aiutante del Gaulaiter di Monaco, era stato ordinato di  applicare la disposizione, ma allora non c’erano soldati, bombe e  mine sufficienti per eseguire l’ordine.    Camminando  faticosamente, quando sceso dal treno mi conducevano al posto di  lavoro, per non darmi vinto alla fame, alla stanchezza, alla  disperazione, cercavo di bloccare il pensiero o pensavo all’etimologia  delle parole. E mentre per un attimo sul lavoro mi appoggiavo al badile  e guardavo la città di Monaco distrutta, le case ed i palazzi ridotti a  cumuli di macerie e solo alte svettanti le canne fumarie intatte come  alberi sfrondati, nei boschi, dalle cime spezzate e vedevo uscire dalle  Contine le donne ed i bambini come formiche dai formicai calpestati,  mi figuravo quadri simili a Guernica di Pablo Picasso. Ed  avrei voluto essere pittore per fermare nel tempo la poesia della  distruzione e farne un’opera d’arte evocatrice di versi immortali,  mi sentivo colpire dallo scudiscio del guardiano gobbo della scorta che  cancellava con il sibilo del flagello e le parole «lavora e non dormire  in piedi» il canto dell’orrore che si faceva poema. Ed allora  risentivo il dolore, la fatica, l’affanno, la fame, la paura,  l’odio, la violenza, la bestialità del mio nemico, il desiderio di  vendetta e di morte. Il guardiano si avvicinava e mi colpiva ancora, lui  voleva che la grande buca vuota fosse riempita, che il binario  riprendesse vita là dove era stato distrutto e non pensava ad altro,  aveva ricevuto ordini. Ed il flagello era l’espressione, la volontà  dei suoi capi, la voce. Io non potevo pensare, dovevo solo lavorare, «Arbeit  macht frei». Il lavoro ti libera, non il pensiero, non il riposo, la poesia, l’etimologia. Lo stesso mi sarebbe successo pochi giorni dopo di fronte alle cataste di cadaveri nudi gettati come tronchi d’albero in attesa di essere caricati sui camion. Ma non erano legna da ardere, erano uomini, rimasugli di uomini buttati come scarti, avanzi, erano orrore, mostruosità, crudeltà raccapricciante, visione laida ed oscena, nudità macabra, orripilante, coacervi di umanità in attesa di essere incenerita nei crematori. Ma in quel giorno, in quell’ora, mentre gli americani entravano nel campo, mentre i raggi del sole al tramonto facevano aureole di luce sui corpi olocausto e le prime ombre della sera danzavano avanzando sulle membra scheletro, parevano monumenti marmorei, innalzati tra cielo e terra, simbolo della libertà, della pace rinata, trionfo sul male, sulla guerra e sulla tirannide. |