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BLOK 19 - STUBE Il Kapò dice «Avanti il primo». Uno a caso esce dal branco e segue uno zebrato munito di un lungo bastone, altri seguono. Entrano nel dormitorio. Tre lati della stanza ed il centro sono occupati da castelli con tre posti letto in altezza, altri castelli uniti ai primi fanno una lunga teoria di posti letto che occupano ogni spazio. Solo l’entrata rimane libera, oltre ai corridoi, fra castelli e la finestra. Il primo deportato viene fatto entrare con la testa nel primo posto letto in basso, il secondo con i piedi, il terzo di testa. Vengono fatti mettere di lato. Lo zebrato, inserviente del Kapò, con il lungo bastone dà un colpo al ventre dell’ultimo entrato. Questi si ritrae. In tre occupano un posto letto. L’inserviente precisa che quello è il luogo di riposo dei tre. Butta loro una coperta. Sotto c’è un materasso ripieno di paglia. I vestiti devono essere rotolati sulle scarpe e questo fa da cuscino. La stessa operazione viene fatta nello spazio seguente, fino a completamento di tutti gli spazi in altezza. Rimangono una quarantina di persone da sistemare. Vengono posti provvisoriamente nei castelli di riserva nella stanza dei dirigenti e del Kapò, loro hanno un posto letto ciascuno. Io mi sono trovato nel piano di mezzo, fra quattro piedi, vicino alla finestra, nella stanza dormitorio. Ultimato il lavoro, assegnati i posti, sistemata ogni cosa, il Kapò parla: «Siete in Germania, nella nazione eletta, siete venuti qui, ricordatevelo, per imparare a vivere. Dovete obbedire agli ordini, rispettare i superiori, lavorare con impegno, tener pulita la vostra persona, gli abiti ed il dormitorio. Non danneggiare gli attrezzi ed il luogo di lavoro. Essere precisi, puntuali alla sveglia, alla distribuzione dei posti, al Lauskontrolle, alla ritirata la sera, osservare il silenzio serale. Massima pulizia ai lavandini, nei gabinetti e nella Stube. Salutare l’SS con la levata del berretto quando l’incontrate. Chi non osserverà le disposizioni verrà punito con severità. Vi auguro buona permanenza». Aveva parlato il Kapò Joseph Favreska, cecoslovacco, triangolo verde. Il discorso venne tradotto, dagli interpreti, nelle diverse lingue. Uscendo, mi fermai a guardare dalla finestra, nel cortile della baracca vicina. Vidi un centinaio di cadaveri nudi, con un cartellino all’alluce del piede, distesi, sovrapposti testa e piedi, un muro di oltre un mezzo metro in altezza. Favreska ci aveva detto poco prima: «Siete qui per imparare a vivere». Ed ebbero inizio le lezioni. Uscirono gli addetti, ci misero per dieci in fila nel cortile, i piedi nella neve e terra impastate a ghiaccio. Dovevamo imparare il numero assegnatoci. Io ero il n. 142.170, hundertzweiundvierzigtausendhundertsiebzig. Al rientro ci avrebbero consegnato tre triangoli rossi con impressa nel centro la I maiuscola (Italia) e tre fettucce di stoffa con il numero personale. Dovevano essere cucite sulla giacca e cappotto a destra, all’altezza del petto e nei pantaloni, nella banda esterna all’altezza del ginocchio. Entrammo per chiamata di numero, ci consegnarono la gamella ed il cucchiaio. La gamella diventava un pezzo di noi stessi, doveva essere appesa ai pantaloni con appigli adatti. Il cucchiaio in tasca. Passammo accanto al bidone della minestra fatta con erbe secche, bucce di patate, di carote e di rape, senza condimento. Un litro ciascuno, datoci dal Kapò, con una fettina di pane nero fatto con segatura ed un pezzettino di margarina. Si doveva mangiare nel letto, uscire dal dormitorio, lavare nella sala dei lavandini la gamella ed il cucchiaio. Uscire nel cortile fino a nuovi ordini e poi rientrare nel dormitorio, spogliarsi, fare il cuscino con le scarpe e vestiti, rimettersi nel letto e poi silenzio fino alle ore sei del mattino. Al suono del gong, mettere i pantaloni, vestirsi, andare nel reparto lavatoio, svestirsi, lavarsi, asciugarsi, bisogni corporali, rivestirsi e fuori nel cortile per dieci, per la conta. La conta era un martirio, bisognava ripetere le stesse mosse, gli stessi gesti, passi, più e più volte. Prima fila un passo a destra, poi la seconda e via di seguito. Ma c’era sempre qualcosa che non andava. Bisognava contare, ricontare, si tornava all’inizio. La prima fila un passo a destra, poi la seconda e così di seguito. Alla fine “i pezzi” in cortile, gli ammalati, i morti, dovevano corrispondere ai presenti la sera precedente, Kapò ed inservienti compresi. Alla settima, ottava conta il tutto risultava regolare. Ma avevamo del tempo, eravamo in “quarantena” e le giornate anche se le ore di luce erano poche, non finivano mai. Il giorno dopo: gong, pulizia, conta, quindi il tè caldo, mezzo litro di acqua sporca, fatto con tiglio secco. Ci mandavano poi in fila indiana in cortile con ago e filo, per applicare il “triangolo rosso” ed il numero sugli indumenti zebrati che dovevano essere portati sine die. Faceva freddo, sentivamo il vento gelido penetrare tra i vestiti fatti di stracci e dovevamo muoverci per non finire congelati. Dopo ore il triangolo e la fettuccia numerata erano al loro posto. Se il triangolo ed il numero non erano applicati a dovere, entravano in scena la frusta, i calci, le percosse. Ed i poveri cristi dovevano rifare il lavoro, fino a diventare sarti provetti, ed era un passo avanti per “non morire” diceva il Kapò. Alle 12 precise si sfilava, con gamella in mano, davanti al bidone della zuppa, un SS o due presenziavano la cerimonia, uno dopo l’altro, per numero, in silenzio, in una mano la zuppa, nell’altra il mütze e via fuori a mangiare, poi il rientro per lavare la gamella. All’entrata, nella sala dei lavandini, c’era a terra un contenitore con feltro imbevuto di creolina. Si doveva passare e ripassare la suola delle scarpe o degli zoccoli per la disinfezione, all’entrata ed all’uscita della stanza e poi di nuovo in cortile per la passeggiata. Un medico mi disse, in quel tempo, che il vitto giornaliero passato dal convento non superava le mille calorie, appena sufficienti per sopravvivere stando distesi ed immobili a letto. Alle 14, in fila, nudi, con gli abiti sottobraccio, dovevamo passare al Lauskontrolle nella stanza dei capi davanti a sei incaricati seduti su delle panche. Al primo si consegnava le mutande, al secondo i pantaloni, al terzo la camicia, al quarto la giacca, con le braccia alzate si mostravano le ascelle al quinto, il pube ed il deretano al sesto che scrutava allargando le natiche con due stecche di legno. «Era il lavoro adatto ad un ingegnere italiano» aveva detto il Kapò e per questo era stato prescelto a tale mansione il dottor Alfonso Zamparo. Dopo esame accurato, il primo ti restituiva le mutande, il secondo i pantaloni, il terzo la camicia, il quarto la giacca. Gli ultimi con un battito sulla spalla e con un tocco nel sedere, ti informavano che l’esame nelle cuciture dei vestiti era superata e che l’esame tra i peli non aveva mostrato l’esistenza di pidocchi o lendini. Allora ti potevi di nuovo vestire e tornare in cortile tra la neve ed il vento per la passeggiata. Se veniva trovato un Laus ti veniva prelevato l’oggetto infetto che veniva inviato alla disinfezione per una notte intera. Se il parassita ti veniva trovato addosso, venivi condotto al famigerato “bagno”. Ti veniva praticata la doccia fino alla mattina seguente e dovevi essere pronto per la conta nel cortile. E l’insegnamento continuava, fatto dal Kapò e dai suoi sottoposti. Ogni sette giorni, tosatura dei capelli, con impressa la Strasse, taglio della barba e dei peli nelle zone intime, con seguente disinfezione con creolina o alcool, quindi la doccia. E imparavi la pulizia, l’ordine, l’obbedienza, l’accondiscendenza e la virtù della pazienza. Di più e meglio che in seminario. E crescevi nella scala sociale, diventavi più uomo e nello stesso tempo perdevi peso, la salute e le forze. Ma la domenica no! A pranzo ti veniva data una minestra all’italiana, con pasta, fagioli e verdura. Una gamella quasi piena, fumante, spessa, odorosa, prelibata. «Questo fa morire» diceva Joseph Favreska, il capo Stube. Perché la sognavi per una settimana, ne sentivi il profumo, ti faceva ricordare la casa, le persone care, la fidanzata, i figli, il suono festoso delle campane, il caldo del focolare e dolci ricordi. Ed iniziava una nuova settimana. Se pioveva dovevi stare immobile per dieci nel fango di neve e ghiaccio. Se diluviava potevi entrare in dormitorio e metterti nel castello, la testa fra quattro piedi inzaccherati e l’odore di morte tra le nari, con le pulci e le cimici che ti succhiavano il sangue ed era un tormento. E desideravi il sonno che non veniva ed i sogni di un tempo ora diventati incubi ed ossessioni. Ma il Kapò diceva: «Qui imparerete a vivere». E le lezioni continuavano. Il gong, la sveglia, le pulizie, rifare il letto, il tè schifoso, la pulizia della gamella, delle suole delle scarpe, l’uscita in cortile in fila indiana, la conta, di nuovo la conta che non finiva mai, la passeggiata nella neve ed il fango. Stare immobili per dieci nel freddo. Il rientro per la minestra, pulizia della gamella, delle suole delle scarpe, di nuovo in cortile per la passeggiata, il rientro, pulizia personale, delle scarpe, bisogni corporali, di nuovo pulizia delle suole delle scarpe, uscire dì nuovo, sempre in fila indiana, sempre in silenzio, nel freddo del vento, per dieci, immobili, poi passeggiata lenta, poi veloce. Giù il cappello, su il cappello, piano, di corsa, passare vicino ai guardiani, sentire il sibilo dello scudiscio che colpiva la testa, le braccia, le spalle e poi calci nelle gambe, nelle natiche. I pugni in faccia. Di nuovo lo scudiscio che prima di colpire sibila nell’aria. Rientrare, denudarsi per il Lauskontrolle che veniva fatto ad ore ed in luoghi diversi. Di nuovo fuori, di corsa, giù il cappello. Fermarsi, mettersi per dieci, rientrare per la sbobba serale. Pulizia della gamella, delle suole delle scarpe, pigiati in lavatoio, bisogni corporali, di nuovo pulirsi la suola delle scarpe, uscire di nuovo in cortile. Passeggiata, piano, di corsa. Rientrare, pulire le scarpe, le suole, poi in camerata, il gong, svestirsi, mettersi a letto. Altro gong. Silenzio, dormire. I giorni si susseguivano, le settimane anche. Alle volte trovavi un posto vuoto nella cuccia, un compagno mancante o con segni di percosse feroci o di sevizie e ti chiedevi cosa avesse mai fatto. Riuscivamo di tanto in tanto a scambiare discorsi e pareri con i friulani conosciuti in via Spalato nelle prigioni e con i preti che erano meno controllati e seguiti dai nostri «speciali» insegnanti ed in particolare con don Albino, don Erino e con Zamparo, Spezzotti, Violino, Zoratti, Barbina, e con Simper l’interprete dalmata. Ma a Dachau in quel periodo la quarantena durava meno di due settimane. La direzione del campo aveva estremo bisogno di manodopera. E ad un certo momento arrivava un medico della SS ed aveva inizio il rito della selezione per il lavoro. Nudi, in fila passavamo ad uno ad uno di fronte all’esaminatore guantato. Ti prendeva per un braccio, se avevi, oltre la pelle, un residuo muscolare, eri abile al lavoro. Seguiva un segno e il Kapò ti passava a destra. Se avevi solo pelle ed osso, passavi a sinistra. E così di seguito fino all’ultimo “pezzo” della Stube, Kapò ed aiutanti esclusi. Il giorno dopo i numeri eletti (quelli a destra) passavano presso un Block di lavoro. Noi alla baracca n. 22. La 22 era posta a sinistra della grande strada alberata che divideva le baracche pari da quelle dispari. Era una baracca aperta. I “pezzi” erano adibiti ai lavori di ripristino, manutenzione e controllo continuo delle ferrovie della zona di Monaco di Baviera. Il lavoro era molto. I bombardamenti giornalieri e continui distruggevano le stazioni ferroviarie e i binari che dovevano essere prontamente ripristinati, riparati e rifatti. |