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| L’ARRIVO  NEL CAMPO Il  treno si ferma. Passi sulla banchina. Voci concitate, ordini impartiti.  Vengono aperte le porte. Ci fanno scendere, ogni gruppo davanti al suo  vagone. Ci fanno mettere per cinque. Los-Los-Schnell. Uomini  infagottati, con valigie e pacchi. Si scivola nella neve incrostata,  scura. Passiamo sulla strada che conduce all’entrata del campo. Ai  lati tante villette, con fiori sui balconi al di là delle finestre.  Casette ben tenute, con piccoli orti-giardino. Attraverso le finestre,  si vedono bambini giocare, le donne indaffarate che preparano il  pranzo. Avanziamo  per cinque, una lunga fila. I vecchi ed ammalati vengono sorretti dai  compagni. Siamo circondati da militari armati. Stiamo arrivando, nel  campo ci sarà un posto dove sostare, comperare qualcosa, riposare  prima che ci portino nelle baracche.   Eravamo forniti di denaro, datoci anche da Egidio Zoratti, vice  presidente della Banca del Friuli. Si svolta a sinistra, ai lati  fabbriche e casermoni, poi a destra si rasenta gli uffici del Comando e  poi tra baracche si intravede in fondo l’entrata del campo. Un immenso  portone, l’unico accesso, il cosiddetto Jourhaus. Nel mezzo del  cancello stava scritto “Arbeit macht frei” - Il lavoro rende liberi. Ci  fanno entrare in una baracca, in piedi, ci dicono di ascoltare quanto  verrà ordinato. Pare un teatro con palco. Senza sedie. Un tempo era uno  spaccio. Appare un Kapò, vestito con abito a strisce, con ai lati altri  come lui. Le SS di guardia. Il Kapò ha una faccia da galeotto, voce  sgraziata, movimenti da marionetta. Parla, poi si ferma. Gli interpreti  traducono. «Siete arrivati in  Germania, la terra della libertà, altri vi diranno cosa siete venuti  a fare. Io vi dico che sarete chiamati per nome e cognome, dovete uscire  alla svelta, vi sarà consegnato un foglio numerato e poi passerete  davanti a dei tavolini. Ogni tavolino ha un addetto, riceverà  ognuno di voi».  Poi  tutto divenne tradotto in sloveno. Il Kapò riprende: «Potrete  trattenere gli occhiali, le bretelle, i fazzoletti, le medicine,  cibarie, sapone, pettine, le scarpe ed apparecchi ortopedici. Il  periodo di soggiorno vi sia proficuo». Comincia  la chiamata. Ognuno con il foglio consegnatogli si presenta  all’incaricato. Nome e cognome, data e luogo di nascita, residenza,  ariano: sì o no, religione cattolica o mussulmana o ebrea, mestiere,  professione ed altro. Veniamo fatti entrare in un’altra stanza dove  consegniamo: il portafoglio, denari, foto, orologio, catenella e tutto  quello che non fa parte del vestiario. Il vestiario viene introdotto in  sacchi di juta per due o tre o più persone. Il sacco pieno viene chiuso  ed applicate etichette con i nomi dei proprietari. Ci troviamo nudi  con le scarpe ai piedi. Passiamo in uno stanzone comunicante dove  veniamo rasati: la testa, le parti intime, sotto le ascelle, la barba,  il petto, con rasoi che invece di tagliare, strappano i peli. Il freddo  ci penetra nelle ossa. Poi di nuovo in altri locali comunicanti dove a  terra ci sono grandi bacinelle piene di creolina. Con  apposito scopino veniamo inondati dal liquido puzzolente che agisce come  ferro incandescente sulla carne viva. Salti da acrobati e soffiare sulla  carne bruciante. Corriamo  veloci, nella stanza accanto dove ci sono le docce. Scende acqua fredda  e calda, ma è refrigerio.  Ai lati, distesi, si scorgono esseri deliranti, in agonia, mucchi d’ossa, parecchi già morti. Sono del trasporto precedente. La sera verranno caricati su carri e trasportati al crematorio. Un russo mi si avvicina, mi tocca le cosce, tornite, muscolose e parla. Non so quello che dice, ma sono sicuro che mi prediceva che in poco tempo mi sarei ridotto come loro. Altra stanza adibita a deposito vestiario. Sempre accompagnati da zebrati, passiamo accanto a cumuli di abiti.  L’addetto lancia un paio  di pantaloni a strisce, un altro una giacca, un altro ancora una  camicia, l’ultimo le mutande, pezze da piedi ed il műtze, il  berretto. Vestirsi alla svelta e fuori nella neve. Mentre esci ti viene  consegnato il cappotto e fuori nel grande cortile della conta. Di nuovo  per cinque, si forma la lunga fila e camminiamo nella neve, nel vento  con i vestiti rattoppati, sformati. Los-los, schnell, calci nel sedere,  il nerbo sibila sulle teste ed inizia il suo lavoro: la flagellazione.   Passiamo tra le baracche, le scarpe, gli zoccoli, gli scarponi  chiodati danno un suono discordante. I  deportati sono stanchi, sfiduciati, sfiniti! Siamo arrivati. Block 19.  La porta si apre. Entriamo nel cortile. Stube 3. Ci fermiamo, immobili  in attesa di ordini.  Una  lacrima scorre sulle guance scorticate dal barbiere e non cade perché  diviene una piccola perla di ghiaccio. Si apre la porta della Stube 3,  due stanze. Una fa da dormitorio per i pezzi (stűcks), una per il  Kapò e i sorveglianti. Si presentano il Kapò, il suo vice, gli  scopini, gli inservienti, il barbiere e l’interprete. Poche ore fa,  siamo entrati nel campo uomini, vestiti civilmente, caldi, sciarpe,  cappotto di lana, calzetti di lana. Ci guardiamo, maschere  irriconoscibili, pezzenti, pagliacci deformi, ridicoli fino al pianto.  Parlo con il mio vicino e chiedo: «siamo entrati uomini, ora cosa  siamo?» |