RITORNA AL TESTO PRECEDENTE Capitolo 8 PROSSIMO

 

L’ARRIVO NEL CAMPO

Il treno si ferma. Passi sulla banchina. Voci concitate, ordini impartiti. Vengono aperte le porte. Ci fanno scendere, ogni gruppo davanti al suo vagone. Ci fanno mettere per cinque. Los-Los-Schnell.

Uomini infagottati, con valigie e pacchi. Si scivola nella neve incrostata, scura. Passiamo sulla strada che conduce all’entrata del campo. Ai lati tante villette, con fiori sui balconi al di là delle finestre. Casette ben tenute, con piccoli orti-giardino. Attraverso le finestre, si vedono bambini giocare, le donne indaffarate che preparano il pranzo.

Avanziamo per cinque, una lunga fila. I vecchi ed ammalati vengono sorretti dai compagni. Siamo circondati da militari armati. Stiamo arrivando, nel campo ci sarà un posto dove sostare, comperare qualcosa, riposare prima che ci portino nelle baracche.  Eravamo forniti di denaro, datoci anche da Egidio Zoratti, vice presidente della Banca del Friuli. Si svolta a sinistra, ai lati fabbriche e casermoni, poi a destra si rasenta gli uffici del Comando e poi tra baracche si intravede in fondo l’entrata del campo. Un immenso portone, l’unico accesso, il cosiddetto Jourhaus. Nel mezzo del cancello stava scritto “Arbeit macht frei” - Il lavoro rende liberi.

Ci fanno entrare in una baracca, in piedi, ci dicono di ascoltare quanto verrà ordinato. Pare un teatro con palco. Senza sedie. Un tempo era uno spaccio. Appare un Kapò, vestito con abito a strisce, con ai lati altri come lui. Le SS di guardia. Il Kapò ha una faccia da galeotto, voce sgraziata, movimenti da marionetta. Parla, poi si ferma. Gli interpreti traducono. «Siete arrivati in Germania, la terra della libertà, altri vi diranno cosa siete venuti a fare. Io vi dico che sarete chiamati per nome e cognome, dovete uscire alla svelta, vi sarà consegnato un foglio numerato e poi passerete davanti a dei tavolini. Ogni tavolino ha un addetto, riceverà ognuno di voi».  Poi tutto divenne tradotto in sloveno. Il Kapò riprende: «Potrete trattenere gli occhiali, le bretelle, i fazzoletti, le medicine, cibarie, sapone, pettine, le scarpe ed apparecchi ortopedici. Il periodo di soggiorno vi sia proficuo».

Comincia la chiamata. Ognuno con il foglio consegnatogli si presenta all’incaricato. Nome e cognome, data e luogo di nascita, residenza, ariano: sì o no, religione cattolica o mussulmana o ebrea, mestiere, professione ed altro. Veniamo fatti entrare in un’altra stanza dove consegniamo: il portafoglio, denari, foto, orologio, catenella e tutto quello che non fa parte del vestiario. Il vestiario viene introdotto in sacchi di juta per due o tre o più persone. Il sacco pieno viene chiuso ed applicate etichette con i nomi dei proprietari. Ci troviamo nudi con le scarpe ai piedi. Passiamo in uno stanzone comunicante dove veniamo rasati: la testa, le parti intime, sotto le ascelle, la barba, il petto, con rasoi che invece di tagliare, strappano i peli. Il freddo ci penetra nelle ossa. Poi di nuovo in altri locali comunicanti dove a terra ci sono grandi bacinelle piene di creolina.

Con apposito scopino veniamo inondati dal liquido puzzolente che agisce come ferro incandescente sulla carne viva. Salti da acrobati e soffiare sulla carne bruciante.

Corriamo veloci, nella stanza accanto dove ci sono le docce. Scende acqua fredda e calda, ma è refrigerio.

Ai lati, distesi, si scorgono esseri deliranti, in agonia, mucchi d’ossa, parecchi già morti. Sono del trasporto precedente. La sera verranno caricati su carri e trasportati al crematorio. Un russo mi si avvicina, mi tocca le cosce, tornite, muscolose e parla. Non so quello che dice, ma sono sicuro che mi prediceva che in poco tempo mi sarei ridotto come loro. Altra stanza adibita a deposito vestiario. Sempre accompagnati da zebrati, passiamo accanto a cumuli di abiti. 

L’addetto lancia un paio di pantaloni a strisce, un altro una giacca, un altro ancora una camicia, l’ultimo le mutande, pezze da piedi ed il műtze, il berretto. Vestirsi alla svelta e fuori nella neve. Mentre esci ti viene consegnato il cappotto e fuori nel grande cortile della conta. Di nuovo per cinque, si forma la lunga fila e camminiamo nella neve, nel vento con i vestiti rattoppati, sformati. Los-los, schnell, calci nel sedere, il nerbo sibila sulle teste ed inizia il suo lavoro: la flagellazione.  Passiamo tra le baracche, le scarpe, gli zoccoli, gli scarponi chiodati danno un suono discordante.

I deportati sono stanchi, sfiduciati, sfiniti! Siamo arrivati. Block 19. La porta si apre. Entriamo nel cortile. Stube 3. Ci fermiamo, immobili in attesa di ordini.  Una lacrima scorre sulle guance scorticate dal barbiere e non cade perché diviene una piccola perla di ghiaccio. Si apre la porta della Stube 3, due stanze. Una fa da dormitorio per i pezzi (stűcks), una per il Kapò e i sorveglianti. Si presentano il Kapò, il suo vice, gli scopini, gli inservienti, il barbiere e l’interprete. Poche ore fa, siamo entrati nel campo uomini, vestiti civilmente, caldi, sciarpe, cappotto di lana, calzetti di lana. Ci guardiamo, maschere irriconoscibili, pezzenti, pagliacci deformi, ridicoli fino al pianto. Parlo con il mio vicino e chiedo: «siamo entrati uomini, ora cosa siamo?»

Risponde l’SS che ci accompagna: «Ihr seid Scheissesäcke». Siete sacchi di merda.