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L’ARRESTO Dovevo andare la sera a Pordenone con gli operai della Todt di Treppo Grande a caricare nei vagoni in stazione, sacchi di frumento, da portare in Germania. Prima trasferivamo dalla sede degli ammassi i sacchi con i camion che poi scaricavamo direttamente nei vagoni, sotto il vigile sguardo dei nazi. «Los, los», presto, in Germania ci sono operai italiani che hanno bisogno del pane. «Los! Sbrigarsi, di corsa!» Ero stato inviato perché piazzassi nei sacchi o tra le file scaricate, alcune bombe incendiarie. Le bombe erano più grandi di un pacchetto di sigarette, esternamente rivestite con una materia simile alla celluloide. Veniva fratturata una piccola fiala contenuta nell’involucro che sperdeva dell’acido corrosivo che faceva si che un piccolo filo di rame o d’acciaio si spezzasse. Quando avveniva questo, una molla faceva scattare il percussore che faceva incendiare il materiale. Tutto era andato bene. Avevo messo nei sacchi cinque piccole bombe in vagoni diversi. Tali marchingegni scoppiavano a tempo quando il treno era in viaggio per la Germania. Lavorammo di lena, fino a caricare una trentina di vagoni. Verso le quattro della mattina eravamo di nuovo a casa, condotti con i camion della Todt, guidati dai tedeschi o da incaricati repubblichini. Non andai a dormire perché avevo certe cose da sbrigare. Quella sera ero molto stanco e non andai a dormire fuori casa, nei rifugi abituali. Verso mezzanotte una folta accozzaglia di armati si fece aprire le porte della casa, erano tedeschi di Tarcento e di Colloredo di Monte Albano con Borsatti ed i repubblichini di Gemona del Friuli. Erano accompagnati dalla spia di Gemona e da una persona con cappuccio in testa che faceva da informatore e da guida, essendo a conoscenza della residenza dei ricercati. Dopo una lunga perquisizione alla casa, stanza per stanza, e del cortile, prelevarono me ed Ennio Santi. Non toccarono invece il professor Carron del C.L.N. di Udine che quella notte si era rifugiato dai Marzona perché ricercato a Udine. Non trovarono armi. Io riuscii a nascondere nel paglione del materasso alcune pallottole di pistola e di Sten che tenevo nel cassetto del comodino, nella camera da letto. Non feci in tempo, però, a nascondermi e fuggire sul tetto della casa, attraverso una finestra che era sul sottotetto. Ebbi anche un battibecco con un repubblichino che mi diceva: «Con questa sera finisci di spararci dietro e di fare il porco partig...» Non lo lasciai finire perché lo aggredii, dicendogli che parlava a vanvera, perché lui non mi conosceva ed io non lo avevo mai visto. Lo avevo anche preso per il bavero della divisa, ma lo lasciai subito perché avrei avuto la peggio. Erano armati come banditi, pieni di pugnali, bombe a mano e mitra. Ci fecero uscire di casa, tenevano i familiari a debita distanza, ci misero nel gruppo e ci incamminammo verso la piazza antistante il Municipio di Treppo Grande. Il giorno dopo Borsatti, con due SS, perquisì di nuovo la stanza da letto da capo a piedi, per alcune ore. In piazza a Treppo, trovammo in arresto anche il parroco di Vendoglio ed una anziana signora; il parroco era don Albino Fabbro, la signora Lucia Tea. Incolonnati a gruppi ci avviammo verso Tarcento e precisamente a Collerumiz, dove aveva sede il comando SS della zona, nella villa del senatore Spezzotti. Giunti a Bueriis, poiché la Tea protestava con il capo spedizione per il pessimo trattamento riservatole al momento del fermo, (era stata percossa, le avevano strappato la bandiera con lo stemma regio e avevano buttato tutto quello che capitava loro nelle mani in mezzo alla stanza) e li trattava di fascisti venduti e maleducati, il comandante fermò gli uomini dell’operazione e disse che si doveva provvedere alla sua fucilazione. Disse a don Albino di confessarla. Di fronte ad una muraglia, dispose in duplice fila i militari, e pose la Tea accostata e dopo averle legate le mani, le disse di riconoscere che era partigiana e di fare i nomi dei suoi complici. La vecchia signora li definì «fucilatori di donne inermi, venduti, malnati...» Visto che non la smetteva, il capo pose fine alla tragica farsa e ordinò di proseguire. Arrivati che fummo, i repubblichini continuarono per Gemona (la teppa di Borsatti si era fermata a Treppo), ci fecero entrare nella villa e fummo divisi. Io ed Ennio in una stanza al terzo piano senza letti, né mobili. Non rivedemmo la Tea ed il parroco. Il carceriere ci disse di provare a fuggire. Due notti prima era scappato calandosi dalla grondaia “Firenze”, un partigiano del Battaglione Italia. Aveva lasciato le scarpe ed il cappotto nella stanza e, tenendosi alla gronda, aveva raggiunto il suolo, mentre tutti i tedeschi erano in refettorio per la cena. Aveva superato le mura perimetrali del parco e si era trovato uccel di bosco. Poche ore dopo, trafelato, era passato presso la nostra abitazione per rifornirsi di calzetti, scarpe e pastrano, dirigendosi poi verso i casali di Treppo Piccolo. Se fossero riusciti a riprenderlo, avrebbe subito un brutto trattamento. Dieci giorni prima, era stato fucilato e sepolto nel parco della villa, un giovane partigiano di Buia, figlio del farmacista di S. Stefano, Beppino Marangoni. Si vedeva che il lavoro fatto sulla finestra era recente, praticamente appena ultimato. Erano stati introdotti, in fori praticati, dei tubi d’acciaio, incrociati e saldati come nelle inferriate delle prigioni. Impossibile la fuga. L’aguzzino ci ripeté: «Provate a fuggire». La mattina fui chiamato dal tenente SS capo della sezione, per l’interrogatorio. Fui introdotto nell’ufficio. Il tenente vestiva di nero, portava le insegne, i simboli ed i distintivi delle SS sull’uniforme. Era molto giovane, avrà avuto venticinque anni. Il volto regolare, ma in lui c’era qualcosa di strafottente, di duro, di altezzoso. Mi ordinò di sedermi. Poi chiese: «Come ti chiami». Gli dissi il mio nome e cognome: «Luigi De Luca». Lo guardai. Era soddisfatto, sorrideva. Mi fissò a sua volta e pronunciò: «De Luca Luigi, nato a Treppo Grande il 5 dicembre 1924 ed ivi residente in via Baschera al numero due». Pareva recitasse... Poi aggiunse: «Ti aspettavo da parecchio tempo». Ho pensato subito allo zaino di Raspano ed alla copia della lettera inviata al C.V.L. di Udine ed alle promesse del comando SS. Il Tenente continuò, dicendo nomi, fatti ed azioni effettuate dal nostro Battaglione. Era un interrogatorio strano. L’inquirente faceva le domande e dava le risposte. Alla fine mi lasciò parlare. Gli spiegai che a Treppo c’erano molti Luigi De Luca ed era facile confondere i nomi. Chi io studiavo in seminario e che non facevo politica... Mosse la mano come ad indicare di tacere. Poi disse: «Voglio sapere se conosci uno che si fa chiamare Goi!» Gli risposi che a Treppo c’era un anziano che era chiamato Goi, che viveva solo, facendo piccoli lavori e che tra l’altro faceva anche il cercatore di funghi che poi vendeva. E che a Cassacco c’era una famiglia che aveva di cognome Goi. Mi interruppe: «Non divagare. è necessario che tu sappia che è già tutto stabilito. Tu sei: Luigi De Luca, fascicolo N.N.A.D. Domani ti manderò a Udine presso la S.D. e la Gestapo, se vuoi, puoi chiedere a loro, il seguito». «Tu sai che Goi è un nome di battaglia. Tu conosci la persona che quel nome porta». Mi disse altre cose e che aveva anche lui studiato in seminario. Aggiunse: «Purtroppo la guerra è guerra». Mi affidò di nuovo al carceriere. Il militare mi riportò nella Stanza e condusse Ennio all’interrogatorio. Decisero di lasciarlo tornare a casa. Rimasi solo, nella vuota e fredda stanza. Girai in circolo, sfiorando il muro e mi accorsi che la parete ad est era calda. Infatti dietro, sotto l’intonacatura, passavano i camini per il riscaldamento. Il silenzio era rotto da rumore di scarpe in movimento, di stoviglie mosse e da voci sgraziate. Mi distesi sul pavimento e cercai di riposare accanto alla parete che emanava un leggero tepore. La mattina dopo, fui fatto salire su un motocarro, o sidecar, guidato da un borghese, con un tedesco armato di maschinpistole, diretti al comando S.D. (Sicherheitsdienst) in via Cairoli a Udine. Mi fece sistemare nel cassone, poi si accomodò anche lui, dopo essersi munito di lettera da consegnare alla sezione A.D. della Gestapo. Venimmo introdotti in un ufficio in attesa del titolare. Questi arrivò, prese i documenti, lesse, mi guardò. Aveva occhi neri, crudeli. Compilò un formulano, aggiunse alcune righe, lo firmò, lo inserì in una busta che consegnò ad un questurino. Questi mi prese in consegna, mi disse: «Cammina, io ti seguo, ti indicherò la strada da fare». Ed a piedi, di via in via, giungemmo alle carceri di via Spalato. Come Renzo nei Promessi sposi a Milano, durante il viaggio ho pensato di fuggire, ma certe mosse del mio accompagnatore mi hanno fatto desistere. Fui condotto nell’Ufficio matricola del carcere. Nel foglio di accompagnamento c’erano le mie generalità, la causa della detenzione ed i dati richiesti. Non mi presero le impronte digitali. Nessuno aprì bocca. Per i tedeschi figuravo già morto. Mi chiusero in una stanza in attesa di essere trasferito in cella. Poco dopo la porta si aprì e venne spinto dentro un uomo di circa quaranta anni. Imprecando mi si avvicinò e mi disse: «Sei anche tu partigiano?» Mi raccontò una storia incredibile e di come era stato arrestato e dove. Lo interruppi facendo segni che indicavano che ero sordomuto. Batté alla porta, si fece riaprire dicendomi: «Sei arrivato nel posto giusto, qui fanno parlare tutti, fanno miracoli». Giunse il secondino e mi fece segno di seguirlo. Aprì una robusta porta metallica. Percorremmo un corridoio, poi altre porte. Rumore di chiavi e sbattere di ferraglie. Alla fine fui condotto in una cella al piano terra, a destra dell’entrata al numero sette, cella singola. La porta fu rinchiusa. Queste celle erano piccole, misuravano circa due metri e mezzo per uno e mezzo. Venivano in esse rinchiusi i condannati a morte ed i galeotti prima dell’interrogatorio. Una branda di ferro affissa al muro, ma ribaltabile, nella parte destra ed una piccola tavola in fondo sotto la finestra a bocca di lupo, era tutto quello che conteneva. Il bugliolo chiuso con una piccola porta quadrata, posta nel canto, dalla parte dell’entrata. I primi giorni rimasi sempre solo e con la porta chiusa. Veniva aperta per il pranzo e per la cena e contemporaneamente al controllo delle sbarre ferrate, mattina e sera, con l’indimenticabile cadenza del suono del battiferro. Di fronte c’era quasi sempre un secondino che badava al buon andamento del settore a lui affidato ed era pronto ad eventuali chiamate dei reclusi. Lo intravedevo quando lasciava aperto lo spioncino della porta. Dopo tre giorni mi fu assegnato per compagno di cella un anziano triestino, Saccomanni. Poco dopo fui chiamato da una persona che si faceva chiamare Trentin, era il porta-ordini e bibliotecario della prigione. Mi disse di seguirlo e mi condusse nella stanza dove si svolgevano gli interrogatori. Ad un tavolo scrittoio c’erano due persone. Un ufficiale tedesco ed a lato l’interprete, due militari attendevano ordini. Fui fatto sedere. I soldati si misero alle mie spalle. «Il tuo nome» disse l’Ufficiale. Dissi nome e cognome. L’interprete, dopo aver consultato il tedesco interloquì: «dove, perché e quando sei stato arrestato». Risposi di essere stato prelevato da militi, nella mia abitazione, il 2 febbraio, che ero studente e che non mi interessavo di politica e che non mi era stata espressa nessuna imputazione. Stava leggendo dei fogli contenuti in un fascicolo che aveva sullo scrittoio. Credo non abbia ascoltato neppure quello che dissi in quanto non se lo fece tradurre. Ultimata la lettura, alzò la testa dallo scritto e stava per chiedermi altro, poi ci ripensò, parlottò brevemente con l’interprete che disse: «Basta così». E mi congedarono. Fui riportato in cella e non chiusero la porta. Durante il tragitto chiesi a Trentin cosa poteva significare questo comportamento. Rispose: «Qui dentro, tutto significa niente, niente significa tutto, possono rilasciarti, ucciderti o deportarti o domani interrogarti di nuovo, bastonarti a sangue e poi mandarti a casa... Tu intanto taci, taci sempre con tutti, qui è pieno di spie. Io non ti ho detto niente, io non ti ho mai visto. Homo, homini lupus. Accomodati». Una sera, si udì il rombo di aerei sempre più vicini. Pareva fossero sopra le prigioni. Poco dopo iniziarono gli scoppi. Il cielo era chiaro, luminoso. I bengala eliminavano la notte. Alcune bombe caddero vicinissime, una, tra le mura esterne della prigione, aprì un varco anche nella parete delle carceri. Qualche cella era aperta e parecchi prigionieri presero il largo sotto il bombardamento. Fuggirono “Senape” e Benito, i miei paesani. Si raccontò, in seguito, che un secondino aveva aperto una comune dove erano rinchiusi diversi condannati a morte e questi approfittarono, un’occasione migliore non si sarebbe più presentata. La prigione vibrava, si udiva il fischio delle bombe, il fragore delle cose che rovinavano, le antiaeree sparare a raffica. Io ed il mio inquilino eravamo distesi sotto la piccola tavola che scrollava come fosse in atto un terremoto. Le celle singole erano tutte chiuse, sprangate. Non ricordo se pregavo o cosa pensavo. So che mi sentivo chiuso in trappola come un topastro. I fuggitivi non furono più ripresi. Quella notte colpirono anche la ferrovia, la stazione e parte dell’abitato. Poi tutto finì. Rimanemmo al buio, ma per quella notte l’avevamo scampata. Più tardi passarono gli sbattitori delle inferriate, il rumore sordo del ferro si udiva come musica dopo gli scrosci e scoppi delle bombe. Se ne andarono illuminando i loro passi con il cerchio di luce delle torce. Quella notte mi accorsi che il più bel suono era il silenzio, ma che la cella era umida. Nei giorni seguenti ho conosciuto oltre ai già ricordati e a Trentin Leo detto «Sagoma» bibliotecario e porta ordini del carcere: Bepi il barbiere, il dott. Paolo Spezzotti, figlio del Senatore, don Corrado Roiatti, cappellano del carcere. Il dott. Alfonso Zamparo, futuro direttore dell’Ufficio del Lavoro di Udine, l’avvocato Egidio Zoratti della Banca del Friuli. E poi “Martello”, Ilario Tonelli dei G.A.P. (Gruppi di Azione Partigiana) della Bassa friulana. “Tribuno”, Mario Modotti, partigiano ucciso poi nel cortile del carcere. Questi due ultimi erano rinchiusi nelle celle singole adiacenti alla mia. Il 7 febbraio verso le 20, un gruppo di partigiani garibaldini occupò e bloccò via Spalato a Udine, antistante le prigioni, mentre altri partigiani, travestiti da tedeschi, spingevano con i mitra un finto “russo” davanti l’entrata delle prigioni. Fattisi aprire la porta si facevano consegnare le chiavi delle porte di ferro interne. Due guardie insospettite volevano intervenire, quando un partigiano fece partire una raffica di mitra che le feriva a morte. Gli spari e la confusione seguenti scompigliarono i piani per la completa liberazione dei prigionieri. Per prima cosa tagliarono i fili del telefono e poi aprirono l’infermeria, tutti i ricoverati fuggirono e tra loro alcune spie fasciste che corsero ad avvertire i tedeschi. I partigiani si portarono poi, gridando «Martello, Martello», presso le singole celle dove anch’io ero rinchiuso. Riuscirono con “piedi di porco” ed asce ad aprire la sua porta. Stavano quasi per aprire la mia, quando ci gridarono dallo spioncino: «Compagni dobbiamo andarcene, stanno arrivando i tedeschi, ci dispiace». Due o tre celle “comuni” non erano ancora chiuse, tutti gli occupanti fuggirono. Fuori dalle prigioni, due camion caricavano i fuggitivi ed i partigiani. I liberatori e “Martello” sparirono nella notte. Riuscirono a fuggire altri settantacinque reclusi. Se avessero chiesto le chiavi delle celle ai guardiani, si sarebbe vuotata la prigione. Arrivarono i tedeschi inferociti. Tutti i residenti nelle celle che furono subito aperte, furono fatti scendere al pianterreno. Messi in fila, mani in alto, di fronte alle celle singole, contati e chiamati per nome. Non riuscirono ad aprire la mia porta. Il piede di porco aveva piegato il grosso catenaccio. Dovette intervenire il fabbro. Grida rauche, rumore di passi cadenzati, di stivali teutonici che corrono. Le voci irate della conta. Per un’ora e più, frenetico e concitato urlare. Fecero alla fine uscire dalla calca venticinque persone, partigiani osovani e garibaldini. Questi furono chiusi in una cella comune. Avrebbero pagato con la vita il coraggio e la temerarietà dei loro compagni. I tedeschi osservavano le loro disposizioni, si riunivano nei loro Tribunali Militari Territoriali settimanalmente e processavano. Così anche a Udine. Erano state uccise due guardie carcerarie. Venti e più persone dovevano morire. Si erano radunati il 2 febbraio, parecchi erano stati condannati, ma non si raggiungeva il numero richiesto, allora l’8 ed il 9 altri processi ed altre condanne, ed il numero richiesto fu completato. Dei venticinque prescelti la sera del 7, tutti risulteranno condannati a morte. Due verranno graziati per interessamento dell’Arcivescovo. L’l1 febbraio 1945 alle ore 6 vengono fucilati contro il muro di cinta del cimitero di Udine da un plotone fascista. Si stava preparando un nuovo trasporto in Germania. Era il 23 febbraio. Durante la prigionia ero in contatto con i miei famigliari che mi portavano i cambi della biancheria, vestiario, mi fornivano di vino, di grappa, viveri, cioccolata ed altri generi di conforto. Mi portavano il caffè nei termos. Quando restituivo i termos, mettevo nell’intercapedine biglietti e messaggi che venivano regolarmente prelevati. Mi rispondevano nel medesimo modo. Mi mandarono anche matite e bigliettini per la corrispondenza. Il pasto di mezzogiorno mi veniva fornito dalla “Buona Vite” che era un ristorante vicino alle prigioni e che era autorizzato a confezionare il vitto per i reclusi, su pagamento. Non sono riuscito a sapere da chi avevano avuto il mio nome e chi pagava. La partenza era fissata per il giorno dopo alle 17. Non sono riuscito ad avvertire i miei. Durante la notte e nella mattinata sparirono molti sacchetti di vettovaglie e cibarie che i parenti avevano inviato per il viaggio dei loro congiunti. I ladri si tenevano in esercizio. Venne Trentin con la nota dei partenti, ci incolonnarono nel corridoio per la partenza. Si partiva con i camion perché la ferrovia era interrotta al ponte di Chiusaforte. Lasciai l’ultimo mio messaggio scritto sui muri della prigione. Non ci sentivamo di cantare, perché l’SS che doveva accompagnarci era in agitazione per il timore che durante il viaggio tentassero di liberarci, dovendo passare per territorio invaso dai partigiani e per i cani che non aspettavano che l’ordine per rendersi utili. Ci fecero uscire ad uno ad uno dalla porta della galera e dovevamo salire sul camion e partendo dal fondo metterci seduti uno vicino all’altro con le gambe divaricate. Sopra le gambe doveva sedersi un’altra fila e così fino al riempimento dello spazio. In poco tempo nessuno poteva muoversi per le sofferenze causate dal peso e dalla immobilità. Un SS gigantesco presiedeva con la persuasione di uno staffile e con la potenza delle sue estremità. Due cosacchi forniti di mitra, seduti sul tetto della cabina tenevano a bada “i pezzi”. I camion partirono, procedevano a velocità moderata con i fanali di posizione. Prima di arrivare in Carnia, con il permesso dei Cosacchi, i primi della fila cominciarono a mettersi in ginocchio ed a massaggiassi le gambe, seguiti dalle file seguenti, fino agli ultimi. Ci vollero almeno due ore perché la circolazione del sangue riprendesse la normalità, tra dolori indicibili. Eravamo tutti, fin dalla partenza, sotto il tiro dei motociclisti armati, e non ci furono fughe. Prima di mezzanotte arrivammo a Pontebba dove ci attendeva il treno. Qui erano in attesa anche i deportandi provenienti dalle galere di Trieste e di Gorizia. Ci caricarono nei vagoni “Cavalli 8 Uomini 40”, come sacchi di patate. Eravamo in ottanta nel nostro vagone chiusi dall’esterno. Per la metà friulani, gli altri provenienti da Trieste. Il treno partì. Quando arrivammo in Austria, nei pressi di Salisburgo fummo accolti da un bombardamento aereo. Ci fermarono nella stazione in mezzo ad altri treni fermi. I tre preti del nostro convoglio pregavano il rosario con i compagni di sventura. Poi don Albino Fabbro ci impartì l’assoluzione in articulo mortis. Le bombe caddero vicinissime, ma non colpirono il nostro trasporto. La tradotta ripartì in mezzo alle rovine del bombardamento. Erano le prime ore del 25 febbraio. Un prigioniero dopo laboriose operazioni da contorsionista era riuscito a sporgersi fra i reticolati del finestrino del vagone, ma dovette desistere, perché preso di mira dai soldati di guardia al convoglio. Dopo le prime scariche di mitra riuscì a rientrare e così ogni tentativo di fuga cessò. Ogni tanto il treno si fermava in mezzo alla campagna e veniva aperta la porta. Gli internandi uscivano in fila, scortati dai soldati per soddisfare i loro bisogni corporali. La notte si dormiva distesi sul pavimento, a turno, in quanto non si riusciva tutti a farlo nello stesso tempo. I giorni passavano lenti. Il treno progrediva di notte verso Monaco di Baviera diretto a Dachau. Di giorno si fermava nelle campagne. Un militare di scorta che abitava a Udine, ci disse di preparare dei bigliettini da consegnare ai nostri familiari, per informarli dove eravamo diretti. Avrebbe consegnato eventuali lettere o biglietti postali al vescovo che a sua volta li avrebbe consegnati ai parroci per l’inoltro ai destinatari. Scrissi un bigliettino che consegnai all’incaricato del vagone per la consegna al militare. Il biglietto arrivò a destinazione regolarmente. La situazione sanitaria volgeva al peggio specialmente per gli anziani e ammalati. Ma tutti ne risentivano per l’aria viziata, la mancanza di acqua, l’assenza di pulizia personale e la mancanza del cambio della biancheria e per le varie cause che si possono riscontrare in simili casi. Risentimmo più volte il rumore sordo dei bombardieri in lontananza e gli scoppi delle bombe. Da due giorni non si mangiava e l’acqua era poca. Finalmente alle ore 10 del 28 febbraio 1945, il treno si fermò alla stazione del campo di concentramento di Dachau. |