RITORNA AL TESTO PRECEDENTE Capitolo 6 PROSSIMO

 

A  CICONICCO

Quando seppi l’accaduto, compresi chiaramente quello che sarebbe successo.

Le SS con la documentazione prelevata sarebbero venute a conoscenza delle mie generalità e di tutti i miei trascorsi nell’attività partigiana.  Convenni con «Piero II» che sarebbe stato opportuno che levassi le ancore rendendomi introvabile. Mi rifugiai perciò a Ciconicco di Fagagna, presso miei parenti e precisamente da Alberto D’Antoni. 

Qui ritrovai, cappellano della frazione, don Severo Ferrero, che era stato in Seminario mio assistente di classe e di camerata, quando frequentavo il ginnasio. Convenimmo che dovevo stare sul chi vive in quanto a Moruzzo di Fagagna, nel castello dei marchesi Tacoli, erano insediati i tedeschi che  imperversavano su tutta la provincia, dalla Carnia a Lignano, in stretta collaborazione con il maggiore della Gestapo di Udine, Starnizza.  Questi era un essere feroce ed disumano, sanguinario ed assassino. Era specializzato negli interrogatori. 

Agiva con insulti e percosse, gioiva sentendo grida di dolore ed urla disperate. Colpiva gli interrogati a sangue fino allo svenimento, poi faceva gettare secchi d’acqua gelida per far rinvenire le persone e poi finirle, con i suoi torturatori, a pugni, calci e sadiche battiture di ossessi carnefici. Se qualcuno riusciva a superare la prova, restava attonito, come uscito da un sogno di incubi che sarebbe durato nel tempo come una condanna infernale. Ho conosciuto a Dachau queste povere persone, passate per le mani questa ridda di figure sataniche, uscite sfigurate, con i colpi di scudiscio impressi nelle carni e con la mente sconvolta.

A Madrisio di Fagagna operava un gruppo di partigiani. Li ho conosciuti per caso una sera, mentre tornavo a casa con mio cugino Curzio D’Antoni, dopo una breve visita a parenti. Tornavamo verso mezzanotte, eravamo sulla provinciale Udine-Fagagna. Fummo fermati con l’ordine: «Fermo là». Risposi: «Fermo sto». A cui seguì la frase: «Avanti con le mani in alto». Quando giungemmo in prossimità della squadra, si fece avanti il comandante e mi chiese: «Come sai la parola d’ordine?» Glielo dissi e facemmo la conoscenza. In seguito collaborarono con il nostro Battaglione tramite il cappellano, specialmente per il rifornimento di tabacco e derrate alimentari alle forze dislocate sui monti. In certi giorni aiutavo i miei parenti per il lavoro nei campi e per il raccolto. Normalmente mi dedicavo allo studio.

Ma una sera la via dove abitavamo fu fatta oggetto di perquisizione da parte dei reparti di Moruzzo. Mi rifugiai con i cugini Curzio e Siero in un ripostiglio sul fienile. La ricerca dei nazifascisti durò un’ora. Non ci trovarono. Ma neanche Ciconicco era sicura.  Stavo pensando di trasferirmi in montagna quando mi giunse la notizia che era stato raggiunto un compromesso con il comando tedesco. La documentazione prelevata dall’abitazione di Raspano era stata eliminata a seguito dello scambio con alcuni militari tedeschi fatti prigionieri dai partigiani. Era stato anche assicurato che non sarebbero state arrestate le persone eventualmente riconosciute a seguito dell’avvenuto esame del materiale da parte del comando SS di Tarcento.

Tale assicurazione non fu rispettata. Tornai a Treppo, ripresi da dove avevo interrotto, ma dormivo in luoghi diversi ogni sera. Agli incroci della strada provinciale erano apparsi cartelloni con le scritte: “Achtung! Achtung! Bandengebiet” Attenzione! Attenzione! Bande pericolose. Avevamo a Raspano, nel bosco dietro le abitazioni di via Treppo, una tenda infermeria, era protetta dagli alberi fitti e dal sottobosco, posta dietro la collina che precipitava in un dirupo. Era invisibile fino a pochi metri, tutt’uno con il verde folto degli alberi. Era funzionante dall’aprile all’ottobre. L’usavamo anche per dormire, quando prevedevamo rastrellamenti. Qui venivano curati i feriti leggeri ed i convalescenti che potevano camminare. Si transitava il fiume anche nei guadi di Osoppo, Braulins, Cornino e altri passaggi, specialmente se il fiume non era in piena. In quella notte una quindicina di uomini erano caduti in una imboscata preparata dai tedeschi. Tre rimasero feriti, ma riuscirono a sganciarsi. Furono curati nella tenda infermeria fino a guarigione. Nelle sere quando con la infermiera di turno mi recavo per le medicazioni, “Caverna” ci attendeva dietro i grossi alberi e con un balzo, pistola in pugno, ci faceva prigionieri.

Erano esercitazioni per le future battaglie. Infermiere erano le Signore “Cate” e “Mira”.  Nessuno dei medici dei paesi vicini si rifiutava, se chiamato, di curare i nostri feriti, anche se ufficialmente medico del Battaglione era il professor Tremonti di Tricesimo. La popolazione dei paesi stava nella maggioranza dalla parte dei partigiani, c’erano anche alcune famiglie di fascisti, altre erano neutrali. Ma c’erano anche i furbi, quelli che sono sempre a galla, che stanno con i vincenti, o in attesa di decidere per salire sul carro del vincitore. Il segretario politico del paese aveva mandato in montagna, con la Brigata Osoppo, il figlio. Non si sa mai. Certi, che avevano due figli, ne mandavano uno con i partigiani, l’altro con i repubblichini.  Due fratelli, uno tenente fascista, l’altro con l’Osoppo. Tutti due, dopo la liberazione, sindaci con la DC in paesi confinanti.

Due preti, cugini, uno tra i fondatori dell’Osoppo, l’altro cappellano delle formazioni nazifasciste. Uno in montagna, l’altro in pianura. Sapevano tutto, si aiutavano, domani il vincitore avrebbe protetto il perdente. Le spie dedite al doppiogioco. «Basta che renda», e rendeva bene. Tutti questi che erano furbi, divennero sempre più furbi. I figli ed i nipoti hanno i cassetti in camera pieni di bandiere, con stemma sabaudo e senza, camicie nere, rosse, di ogni colore. Vessilli che sventolavano in alto, verdi, rossi, bianchi; coccarde, stemmi, tessere della DC, del PCI, del PSI, del MSI, ora anche di AN e Forza Italia e di tante nuove formazioni politiche.

Le foto da Benito a Silvio, da Giorgio a Gianfranco, da Palmiro a Massimo, da Pio a Carol, da Nilde a Rosi e così di seguito.

I loro nipoti, se parli loro non ti rispondono, stanno correndo ancora dietro i vincenti, come sempre. E le stelle, la luna, i pianeti, corrono anche loro e non li stanno a guardare. Hanno un solo dio: il denaro.

Intanto si stava preparando un’azione punitiva contro i cosacchi della zona di Collalto di Tarcento.

Un centinaio di militari russi provenienti dalle zone del Don si erano acquartierati nella frazione di Tarcento con le rispettive famiglie, avevano il beneplacito dei tedeschi in funzione antipartigiana ed erano anche in cerca di una nuova patria. Kosakenland.  Agivano come padroni, rubavano e importunavano gli abitanti, facevano tutte le angherie possibili contro la popolazione per indurli ad abbandonare il paese.  Ed una notte ci fu lo scontro.

I cosacchi furono attaccati di sorpresa, la sparatoria durò parecchio, squarciò il cielo. Erano ben armati e si difesero. Bombe a mano, mitraglie, mitra, Mauser, parabellum, fucili 91, pistole automatiche esplosero, crepitarono deflagrarono dalle due parti. Razzi illuminanti solcavano il cielo. Una vera terribile battaglia.

Si svegliarono tutte le persone del circondano, anche i tedeschi, ma non intervennero. Nessuno portò aiuto ai cosacchi invasori, neppure i repubblichini. I partigiani ad un segnale convenuto si ritirarono. I cosacchi alla fine della sparatoria contarono parecchi feriti, alcuni gravi, qualche morto. Il nostro Battaglione ebbe diversi feriti, ma nessuno grave. I feriti leggeri furono curati nella tenda infermeria a Raspano. Un ferito ad una gamba ed uno ai glutei (Fausto Maestra da Cassacco), furono trasportati nelle proprie abitazioni.

La Strafaktion ebbe il risultato prefisso, in seguito i cosacchi si comportarono con più umanità con le popolazioni del luogo. Servì anche ad avere contatto con il comandante della comunità cosacca che era di stanza a Gemona del Friuli ed in Carnia, ed in seguito ad accordi, non ci fu la temuta rappresaglia.