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|  BATTAGLIONE    MONTENERO Il nostro Battaglione contava allora circa sessanta - cento unità. Il numero variava perché i patrioti passavano secondo le necessità combattentistiche, logistiche ed operative da una squadra all’altra; ha avuto caduti, feriti ed imprigionati, condannati a morte e deportati. Le squadriglie agivano con due o più unità, secondo le attività a cui i patrioti venivano adibiti. Di norma agivano di notte. Ma anche durante il giorno nei prelevamenti o nei trasporti di materiale alle truppe in montagna. Avevamo degli uomini specializzati nel sabotare il nemico: taglio dei fili telefonici, prelievo di armi, interruzione di linee ferroviarie. Io spesso operavo in solitudine, come porta ordini o per la distribuzione di presidi ai patrioti feriti o bisognosi, o ai pagamenti di forniture prelevate o consegnate direttamente ai comandi.  Con “Nicolino”  provvedevo all’affissione di manifesti in tedesco con l’invito ad  arrendersi rivolti alle forze tedesche di presidio nei paesi vicini o ai  collegamenti e disposizioni per le azioni notturne ai singoli  partigiani. Sono  stato alcune volte con «Nicolino» a prelevare frumento dai magazzini  tedeschi della Bassa Friulana, con documentazione falsa, con automezzi  forniti da una ditta di Tarcento che macinava grano per le forze di  occupazione germaniche. La farina di tale mulino finiva alle nostre  formazioni in montagna. Queste, definiamole attività, erano molto, ma  molto pericolose. Il giorno 16 agosto 1944 alle quindici pomeridiane un  comando di SS e servi assassini di Tricesimo, Tarcento e Colloredo di  Monte Albano, con il loro comandante Borsatti, facevano irruzione  nella Villa De Luca-Marzona a Treppo Piccolo. Perquisirono le abitazioni  in tutte le stanze, nei mobili, armadi, per la ricerca di armi ed altro.  Io e la gran parte della famiglia riuscimmo a fuggire. Rimasero solo mia  nonna Anna, mio padre Ferdinando e mia zia Ernesta in balia alle furie  ancora avvinazzate per la serata precedente. Stavo nel campo di  granoturco a nord della casa, accanto all’abitazione di Davide  Ermacora e del militare della R.S.I., Virgilio. Sentivo il trambusto.  Ero sicuro che avrebbero incendiato l’abitazione. Passai ore d’ansia  in attesa di scorgere fumo e fiamme salire dai tetti. Invece  dopo una lunga attesa se ne andarono con qualche trofeo (vino e  salami). Noi avevamo nascosto le armi in posti impensabili ed  introvabili. Gli  uomini dai volti truci ed i servi fascisti erano più volte passati  sopra i nascondigli, ma, la terra soffice e gli aghi di pino, anche se  sollecitati, non segnalavano quello che proteggevano. I miei familiari  dissero che frugarono la casa ed i muri ed il cortile con strumenti mai  visti. Quella è stata la prima di tante irruzioni che i tedeschi, i  cosacchi di Collalto, i repubblichini di Gemona e la banda sanguinaria  di Colloredo di Monte Albano.  Dopo  queste perquisizioni, tenemmo gli occhi bene aperti. Si presentavano  certi ceffi che dicevano di essere inviati “da persone fidate e  conosciute” e che dovevano consegnare un pacco. Lasciavano il  “regalo” al primo che trovavano in casa e se ne andavano dicendo che  non c’era ricevuta, né risposta. I pacchetti venivano in tutta fretta  fatti sparire in certi nascondigli al di là delle mura perimetrali  del cortile. Poco  dopo arrivavano i repubblichini con i cosacchi e buttavano tutto  all’aria. Cercavano quello che era stato consegnato, poco prima, dal  non gradito ospite. Se  ne andavano, poco dopo, senza risultati. I cosacchi con balle di fieno.  Nei pacchi c’erano bombe a mano, pistole e munizioni. Alcuni per  “dimenticanza” lasciavano il mitra sulla porta di casa. Lo mettevo  in un sacco e lo nascondevo nelle “cjapis di soreâl” dei campi  vicini. Un giorno ho dovuto riparare anch’io in te “cjape di soreâl”,  se non lo avessi fatto, sarei incappato nel gruppo SS che in  quell’istante entrava nella casa per la perquisizione. Una volta un  giovane si presentò e disse «Amos».  Gli chiesi Cosa desiderasse. Mi rispose: «Non c’è in famiglia  qualche altra persona?». Chiamai “Piero II”. Il  giovane si presentò di nuovo «Amos». Anche Cesare gli domandò cosa  volesse. E chi lo aveva mandato. Dopo un lungo parlamentare e parlottare  chiarimmo tutto. Solo allora consegnò il biglietto. Lo aveva inviato  “Vico”, GianBattista Carron del C.V.L. di Udine. Gli aveva detto di  dire il suo nome di battaglia e di consegnare il foglio solo a chi  rispondeva o “Piero” o “Gamba”. La diffidenza ci costringeva ad  essere molto cauti. Alla fine venimmo a sapere che i pacchi contenenti  bombe e munizioni arrivavano da una certa casa di Treppo Grande e che se  le visite che seguivano i doni avessero ottenuto il risultato sperato,  avrebbero provocato una strage e l’incendio della casa. A  Udine prestavano servizio parecchi ex fascisti, nella territoriale od  in certi uffici, ce n’erano alcuni di Treppo e frazioni vicine.  Questi infiltrarono spie tra le nostre file che alla fine riuscirono a  provocare quello che si prefiggevano. Un certo maledetto giorno, era il  20 ottobre 1944, verso le tre del pomeriggio, due partigiani  accompagnati da un terzo, entrarono in casa e compilato il documento  che doveva essere inviato a Udine al C.L.N., si fermarono per allegare  agli atti del Battaglione, lettere ed altro ricevuto dal Comando di  Divisione e per consultare dati.  Prelevarono  dal luogo segreto lo zaino che conteneva i fascicoli riguardanti  l’amministrazione del reparto. Questo zaino veniva consultato solo in  casi eccezionali e con tutte le precauzioni. Le  notizie top secret erano a conoscenza di pochi, anche perché in tali  atti erano custodite le azioni effettuate, nominativi dei sospetti,  certi elenchi.., i bollettini periodici, in una parola la vita del  Battaglione. Per me era di vitale importanza perché conteneva copia di  una nota inviata al C.L.N. di Udine con i miei dati personali. Non si sa  cosa consultassero, quando udirono gli spari. Venivano da tre punti  della casa. Videro aprirsi la finestra verso nord ed il loro compagno  sparire e nello stesso istante penetrare le SS sparando. Per la  sorpresa, forse, non riuscirono a rendersi conto di quello che stava  avvenendo. La documentazione e le armi furono prelevate dal capo  assalitore  delle SS. I due partigiani, resi innocui dagli energumeni, furono  portati sulla piazzetta antistante la frazione per essere condannati a  morte immediata. Furono fermati i passanti e messi in circolo perché assistessero all’esecuzione. I due dovevano essere impiccati con del filo di ferro, alla pergola di una casa. Uno dei due cercò di fuggire, imitato immediatamente dall’altro. I militari per riprendere i fuggitivi spararono nella folla e colpirono anche dei presenti. I fuggiaschi rimasero a terra. Gli assassini si accertarono dell’avvenuta morte dei “banditen” lasciando a terra i feriti ed i morti. Le SS assassine dopo aver incendiato l’abitazione di Giacomo Scagnetti se ne andarono con i loro servi. Sulla via del ritorno erano attesi da una colonna del Battaglione Italia e non si sa come e cosa sarebbe successo se non fosse arrivato ai partigiani l’ordine di non effettuare l’azione di rappresaglia per non mettere il paese a rischio di essere bruciato e la popolazione deportata. Il gruppo era comandato dal comandante partigiano “Goi”. Il “saltafinestre” tornò a casa sano e salvo e disse: «L’ho scampata bella». Erano le ore 18 del giorno sopra ricordato. A Cassacco furono uccisi il 21 novembre 1944 alle ore 20 Fioretto Baiutti e Antonio Sbaraglia, in osteria a Conoglano e Gastone Croatto, nella sua abitazione, su ordine di... Radio Londra. Per analoga disposizione e situazione, rimase ucciso il 6 gennaio 1945, Giovanni Battista Menis, alle ore 16 a Raspano. Era nato a Treppo Grande, marito di Adele Ponta ed era residente a Tarcento. Era guerra civile e mondiale. |