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LIBERAZIONE

Il 29 aprile, dopo la conta sulla grande piazza, tornati alle nostre baracche, italiani e francesi furono rinviati dai Kapò sul piazzale a disposizione delle SS. Ma ormai nel campo vigeva il caos, nessuno dava ordini, nessuno impartiva disposizioni. Sui pennoni sventolavano le bandiere di resa. Corse voce che i Kommandos erano sospesi. Tutti, a gruppi o isolati, tornammo alle Stube. Colpi d’arma da fuoco si udivano vicinissimi e prigionieri e guardie si resero conto che gli americani stavano circondando il campo.

Regolarmente fu distribuita la minestra. Ci fecero entrare nelle baracche. Kapò e parecchi aiutanti si eclissarono. E alle 15 e 15 le jeep del primo battaglione del 157° reggimento della 45ª divisione al comando del Generale Patton rombavano al cancello Jourhaus.  Ci avevano detto di stare nelle baracche stesi a terra in caso di combattimento. Mi ero disteso nella cuccetta sotto la mia, eravamo come le sardine. Il terzo deportato alla mia sinistra stava morendo. Il respiro si stava affievolendo, sempre più di rado, poi un rantolo e poi il silenzio. 

Liberato dalla vita e dal campo di concentramento nello stesso istante. Giurai di vendicarlo. La nostra gioia è stata offuscata. La libertà per il nostro compagno non era neppure una semplice parola. Finiti gli spari, udite grida di esultanza, uscimmo dalla Stube. Alla base della torre B giacevano trafitti gli SS di guardia. Altri corpi erano caduti nel fossato fiancheggiato da filo spinato ad alta tensione. Cessarono gli spari, le raffiche, le cannonate dai carri armati, colpi isolati. Gli americani erano entrati nel campo. Eravamo liberi.

Si vedevano più avanti le cataste dei morti vicino al crematorio e cumuli minori fra le baracche. Gli americani inorriditi camminavano fra i Blocks alla ricerca di militari e delle SS che passavano all’istante per le armi dopo il riconoscimento che non era difficile, erano belli grassi, sbarbati, profumati, divise pulite con la piega. Anche qualche Kapò finì sui cumuli di morti. Alla sera non un tedesco era vivo nel campo liberato. 

Si dovette rinchiudere il cancello e non lasciare uscire i deportati perché non si vendicassero con i residenti fuori del campo. Noi cercavamo tra noi qualche volto conosciuto e cercavamo di ascoltare parole in italiano. La cena fu abbondante, anche troppo per persone in digiuno. Poi a gruppi, tutti sulla grande piazza ad ascoltare i discorsi dei presidenti del Comitato Internazionale dei deportati, fino a tarda notte. E per la prima volta il sonno non fu interrotto da voci irate e da colpi di scudiscio.